di Sannicolò
Il nostro santo favorito si è regalato un libro, e ha deciso di raccontarcelo mentre si sta mettendo in strada per portare i suoi doni. Buon 6 dicembre a chi lo festeggia, anche nel 2020.
Care amiche e amici di storiAmestre,
abituato a portare in giro regali la notte del 5 dicembre, quest’anno ho deciso di farmi un regalo da me: il libro di Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli, Milano 2020, pp. 252). Costa 19 €, vi assicuro che sono spesi bene, e per convincervi a comperarlo scrivo due righe per illustrarvene il contenuto. Oppure potrete leggerlo in una biblioteca, che dove vivo io sono aperte con orari comodi; so che le vostre sono chiuse o lo sono state a lungo, ma forse presto riapriranno, magari alle regole dei parrucchieri, o almeno dei ristoranti o dei centri commerciali. Nessuna recensione come si deve, non troverei il tempo, immerso come ogni anno nei preparativi prima di mettermi in strada in compagnia del mio asino, che tra l’altro comincia anche lui, come me, a sentire l’età.
La tesi del libro è presto detta. Ci sono due tipi di rivoluzione: 1) “i dominati si ribellano perché non sono abbastanza eguali”; 2) “i dominanti si rivoltano perché sono troppo eguali” (p. 9). Come per tante altre cose, l’aveva notato per primo Aristotele. Quello che è successo nel mondo negli ultimi cinquant’anni è il tipo 2: “una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro i sudditi, dei dominanti contro i dominati” (p. 10). Il bello è che i dominanti sono contemporaneamente riusciti a convincere tutti che le classi non esistono più.
Le cause di questo processo vanno trovate in una “controguerriglia” ideologica contro i movimenti degli anni Sessanta, sferrata in primo luogo negli Stati Uniti a opera di Fondazioni, Scuole economiche, Think tank, Università, che hanno sviluppato una “narrativa” (su cui si fondano le identità individuali e collettive) basata sull’ideologia neoliberista. Questa “controffensiva” ha tradotto “tutti i problemi politici e sociali in termini di mercato”, convertendoli “in problemi individuali con soluzioni di mercato” (p. 116), e indicando come unica relazione possibile tra esseri umani quella tra cliente, fornitore e concorrente (p. 117). Nell’antropologia liberista l’umano sociale è ridotto a individuo isolato. Risultato: «l’azione collettiva politica è “futile” perché quel che conta è l’azione individuale economica» (p. 117).
Qui il riferimento è David Graeber, che ha parlato di “un vasto apparato per la creazione e il mantenimento della disperazione, un gigantesco macchinario designato prima di tutto a distruggere qualunque senso di alternative future”, tanto che “la sola cosa che siamo pressappoco capaci di immaginare è la catastrofe” (Graeber, Debt: The First 5,000 Years, updated, expanded ed., Melville House Pub, 2014, pp. 382-383, cit. alle pp. 118-119; la prima edizione è del 2011, tradotta in italiano nel 2012: Debito. I primi 5000 anni, trad. di Luca Larcher e Alberto Prunetti, Il Saggiatore, Milano). Almeno questo è il riferimento che ha colpito me, fresco di lettura dei libri di Graeber in estate, quando avevo un po’ di tempo tutto per me, prima del surplus di lavoro richiesto dal calendario folclorico, nei giorni più corti dell’anno, a tutti quelli che fanno un lavoro analogo al mio.
Perché la Sinistra che dovrebbe rappresentare i dominati non se n’è accorta?
Prima risposta: la Sinistra è sovrarappresentata tra gli strati ad alta istruzione e reddito medio-alto e sottorappresenta tra il reddito basso e scarsa istruzione (la “plebe”). Col risultato che la plebe non ha una rappresentanza politica (semmai è rappresentata dalla Destra), e non ha più nemmeno i tribuni previsti nell’antica Roma.
La seconda risposta, che è legata poi alla prima, è che la Sinistra ha accettato il capitalismo finanziario globale come unico orizzonte pensabile, trovando per esempio naturale che “se tu a Valencia o a Salonicco o a Napoli non potrai ricoverarti in ospedale, è perché lo ha deciso qualche analista di Warren Buffett a Omaha, Nebraska” (p. 139). E qui il riferimento è alla “servitù volontaria” di Étienne de La Boétie, ma anche a un frammento di Walter Benjamin, che nel 1921 aveva osservato che il capitalismo “è il primo caso di un culto che non espia il peccato ma crea colpa/debito” (p. 219). Quello che tiene insieme un sistema amorale e asociale è un collante extraeconomico, in altre parole una religione in cui i fedeli si prostano davanti al dio Mercato, rabbonendolo quando è “nervoso”, rassicurandolo quando è “preoccupato”, celebrandolo quando è “euforico” o anche solo “sollevato”. “Gli indovini e gli stregoni degli umori del Mercato sono i consulenti finanziari e gli amministratotri delegati delle maggiori ditte d’affari”, ha scritto Harvey Cox in un libro dal titolo The Market as God (Harvard University Press 2016, p. 16, cit. p. 220): e chi agisce contro i loro avvertimenti sarà punito per la sua empietà (p. 220). Perché “Tutto è fatto perché persone e governo s’indebitino, salvo poi colpevolizzarli” (p. 141).
Il capitalismo finanziario globale sembra non avere alternative, tanto che il futuro non è pensabile se non nella forma della fine del pianeta. Chi osa per esempio anche solo criticare l’esistenza delle Fondazioni? Quando sono nate (negli Stati Uniti all’inizio del Novecento), le Fondazioni erano viste male perché erano trust di proprietà di miliardari che riducevano i salari e non pagavano le tasse per poter giocare ai filantropi. Oggi, benché negli Usa le opere benefiche finanziate dalle Fondazioni siano inferiori alle tasse che avrebbero dovuto pagare, le Fondazioni sono ovunque (e non solo negli Usa) oggetto di ammirazione e di gratitudine. Frutto anche questo della “controguerriglia”? Sì. Non so quanti sappiano per esempio – e lo si legge nel libro – che il premio Nobel per l’economia è stato inventato di sana pianta nel 1968 dalla Banca Centrale Svedese per delegittimare le politiche socialdemocratiche del proprio paese, e quindi “ammantare del prestigio del Nobel” le politiche neoloberiste: tanto che nei successivo trent’anni “la stragrande maggioranza” dei premi è andata ai Chicago Boys, cioè agli economisti della Scuola di Chicago, ideologi del neoliberismo, di cui l’esponente principale è Milton Friedman (p. 34). Da notare che Friedman ebbe il Nobel per l’economia nel 1976, cioè un anno dopo essersi offerto come consigliere economico del generale Pinochet (autore del “miracolo cileno”, per usare le parole dello stesso Friedman).
Già il termine “Capitale” non è che sia propriamente interdetto, ma appare vecchio, un relitto linguistico del passato: insomma non fa fine usarlo in società, per non parlare di “padrone”, che suona decisamente scurrile. Invece di “capitale” dite piuttosto “i mercati”. Oppure potete aggiungervi un aggettivo, per esempio “capitale sociale”, “capitale umano”, “capitale simbolico”, “capitale culturale” (mai “capitale-denaro”). Capitalisti lo siamo tutti, perché tutti operiamo nel mercato, con una sola differenza: 1) c’è chi ricava reddito da un capitale economico, e 2) c’è chi ricava reddito dal capitale umano (se stesso). Mal che vada uno è proprietario di se stesso, in fondo un capitalista. Come si può definire allora un lavoratore o una lavoratrice? “Professionista che presta un servizio”. E migrante? “Imprenditore di sé che affronta spese per ottenere un miglioramento” (p. 41).
Ogni cosa – compresi i rapporti sociali – va gestita secondo modelli aziendali. Si pensi ai “crediti” che si conseguono nelle università mediante attività contabilizzate fino a che lo studente non abbia raggiunto un numero tale da permettere di pagare il titolo finale di studio. Se “giusto” è ciò che giova al mercato, “democrazia” è causa di ingovernabilità. Perciò non dite “governo” se non volete sfigurare in società: dite “governance”, che per quanto oscuro, o proprio per questo, fa capire che stiamo parlando “degli strumenti più economici e più efficaci per conseguire obiettivi non specificati (e di solito assimilati a obiettivi di mercato)”; e poi “la governance” è un “modello gestionale d’impresa indipendente dalle finalità dell’istituzione a cui si applica” (p. 102), il che stabilisce che qualunque azione, sia privata sia pubblica, spetta ai manager. A proposito, mi ero accorto che le “buone pratiche” sono un neologismo, ma non sapevo che nascono in questo contesto, per indicare tecniche di gestione che consentono “un vantaggio competitivo in un dato mercato”, migliorando la graduatoria e il punteggio, e che possono essere esportate da una industria o da un settore all’altro (pp. 102-103).
Quando si dice che lo Stato deve essere “minimo”, significa che deve ridurre al minimo i servizi sociali. Di qui un attacco allo stato sociale, e un’esaltazione delle virtù di qualsiasi ONG, che tra parentesi non significa “Organizzazione non governativa” come si traduce in italiano, ma “Organizzazione privata”: “government” non significa infatti “governo” ma “stato federale” (p. 48).
Ogni servizio va privatizzato. No “pazienti” o “viaggiatori” o “studiosi” o “studenti”, ma “utenti” o “clienti”. Se sentite parlare di “riforma della scuola” dovete tradurre “privatizzazione della scuola”. Lo Stato dovrà consegnare un voucher ai genitori, che saranno liberi di spendere la somma comprando da privati servizi educativi di propria scelta, e naturalmente secondo le proprie possibilità. Lo stesso vale per tutti i servizi pubblici, come la sanità. Anche in questo caso lo Stato sostituirà l’erogazione di un servizio pubblico universale con un voucher ai più bisognosi per farsi curare privatamente, oppure consentirà di detrarre dalle tasse le spese mediche sostenute presso strutture private – tutte ricette dei Chicago Boys.
“Meno Stato”? Non è vero. Basterebbe dire che cinquant’anni fa gli ideologi neoliberisti avevano una passione per il Cile di Pinochet, e oggi per la Cina. Lo Stato è sì giudicato dal successo nel favorire l’economia di mercato, tanto da essere soggetto non al plebiscito periodico delle urne, ma a quello permanente dei mercati globali, secondo una misurazione stabilita da voti rilasciati dalle agenzie di rating: ma è lo Stato a farsi carico delle operazioni di salvataggio dei mercati, e del loro finanziamento, e lo si è visto nella crisi del 2008 e nella pandemia del 2020. Alla fine “il potere totale che lo stato esercita su di noi cresce, come quello delle corporation globali” (p. 105).
Questa non è più l’epoca della disciplina di cui parlava Foucault, ma del controllo: un controllo a distanza detenuto da privati (server, provider, operatori, motori, connettori), in base al quale “siamo sempre reperibili, sempre registrati, sempre intercettati” (p. 120). Si pensi ai dispositivi di riconoscimento facciale, già usati in Georgia per permettere l’accesso alla metropolitana, e in Cina per alberghi ospedali banche aerei. Il controllo riguarda non solo quello che facciamo ora, ma anche quello che faremo nel futuro; si pensi per esempio ai mesi di anticipo con cui pianifichiamo viaggi e spostamenti.
“Non lasciare che nessuna crisi seria vada sprecata”, ammonì Rahm Emanuel, braccio destro di Barack Obama, nella fase più acuta della crisi finanziaria del 2008 (p. 11). E così sta succedendo ai nostri giorni. La risposta al Covid 19 ha infatti «permesso un colossale esperimento di ingegneria sociale, ha consentito di sperimentare con il “telelavoro” il telecontrollo a distanza, la disponibilità e le reperibilità ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette” (p. 125). Altro esempio: il Covid 19 “ha promosso l’accettazione volontaria della marcatura digitale a encomiabile dovere civico, e il suo rifiuto a un atto di diserzione civile” (p. 121).
Che cosa propone l’Autore? Troverete nell’ultima parte del libro l’elogio della scuola pubblica, universale e gratuita. In generale, quello che serve è “un immane lavoro di rialfabetizzazione politica” (p. 203). I teorici del neoliberismo “ci hanno insegnato che il primo obiettivo è restituire allo scontro ideologico la dignità, la centralità che sembra aver perso nel senso comune dei dominati” (p. 197).
Ho scritto queste righe per raccogliere l’invito. Non mi dilungo di più, anche per non togliere la curiosità: raccontereste la trama di un film se ne state consigliando la visione?
Mi fermo qui dicendo che non mi è sfuggito che mi avete ricordato più volte nel vostro sito. Ve ne sono grato, e vorrei contraccambiare in questo modo. Di solito in questo periodo dell’anno tutto il mio tempo è dedicato a leggere le lettere che ricevo, e a cercare di soddisfare alle richieste: mi fa piacere scrivere io, una volta tanto.
Riguardatevi,
il vostro Sannicolò
Ps Se dovessi scegliere e dire con parole mie una delle proposte del libro di Marco D’Eramo, prenderei questa: quando sentite la parole “smart” (ingl. intelligente, brillante, elegante, alla moda), provate a tradurre con parole vostre, decidete voi se scurrili o desuete.
Stefano P. dice
Caro S. Nicolò,
grazie del messaggio, molto smart – no, scusa, volevo dire “utile”, sul serio. Mi sa che chiederò il libro al tuo collega.
Un caro saluto,
Stefano