di Claudio Zanlorenzi
Pubblichiamo l’intervento con cui il nostro amico e socio Claudio Zanlorenzi ha introdotto la presentazione del libro di Giorgio Giannini, La tragedia del confine orientale. L’italianizzazione degli Slavi, le foibe, l’esodo giuliano dalmata (2019), che si è tenuta presso la sala municipale di Chirignago il 19 febbraio 2020. L’incontro era organizzato dalla Municipalità Chirignago-Zelarino nell’ambito delle iniziative legate al “Giorno del ricordo”. Con consigli di letture.
“Era Italia”?
A casa mia, quando si parlava di Istria, mio papà diceva: “Era Italia, era veneziana”. Si parlava – si parla ancora – l’istroveneto, è vero, ma ho scoperto poi che la storia e la geografia sono più complesse, e così anche l’Istria. Ho cominciato a capirlo quando in occasione di una ricerca su Ca’ Emiliani a Marghera sono venuto a conoscenza del fatto che lì si trovava il villaggio dei profughi giuliano-dalmati (lo chiamavano le Vaschette, era una serie di palazzoni oggi quasi tutti abbattuti, ne è rimasto uno), e che a Marghera c’era anche la sezione CAI Città di Fiume, con tanto di rivista pubblicata almeno fino agli anni Novanta. Ho capito allora il profondo legame dei profughi con la loro terra, e ho raccolto testimonianze di come i profughi istriani sono stati accolti in malo modo dai portuali a Venezia (bollati di essere fascisti perché fuggiti), e lo stesso era accaduto a Bologna; di come erano visti male perché avevano, in quanto profughi, diritto a una casa e alla precedenza in alcune liste di lavoro. Nelle conversazioni, ho raccolto una profonda amarezza.
La complessità della questione mi è stata chiara quando ho frequentato l’Università di Trieste. Gli studi di storia avevano sempre l’Istria come baricentro. Il Novecento italiano e europeo si può capire studiando il confine orientale: guerre etniche, guerre civili, nazionalismo, fascismo, comunismo, si sono lì manifestati e confrontati e scontrati ai massimi sistemi. Si parla per questo di “laboratorio giuliano”.
Ho scoperto insomma che mio papà si sbagliava, e che la vulgata “l’Istria è italiana”, andava coniugata con strumenti di conoscenza e senza manipolazioni ideologiche.
Ho scoperto che una parte dell’Istria – il cuneo che si inserisce verso l’interno e che contiene Trieste e Fiume, fino a Pisino – non è mai stata fino al 1918 amministrativamente sotto l’Italia o Venezia, ma dei conti di Gorizia (austriaci) e poi dell’impero austro-ungarico (Fiume era il porto dell’Ungheria). Che l’Istria è plurietnica, plurilinguistica, plurireligiosa perché per secoli la Serenissima ha rimpolpato la popolazione istriana (italiana e sloveno-croata) con immigrazioni di altre popolazioni slave. Che le città della costa e il Buiese erano veneziane e a maggioranza italiana e istrovenete. Che però bisogna diffidare dei censimenti etnici: la gente si spacciava per quello che era più conveniente nel momento storico, soprattutto nelle famiglie plurietniche, genitori con nazionalità diverse. L’identità quasi sempre si sceglie.
Ho saputo che Trieste era il centro culturale più importante per gli sloveni: gli intellettuali sloveni abitavano a Trieste. Che c’erano più sloveni a Trieste che a Lubiana, una cittadina di campagna o poco più. Che le valli del Natisone in Friuli sono abitate da sloveni. Che i villaggi dell’Istria interna, l’Istria contadina, sono per lo più croati o sloveni. Domanda: di chi è una regione? Di chi ha la proprietà della terra, anche se minoranza o di chi ha la maggioranza degli abitanti, ma non la proprietà della terra?
Altra questione. La settimana scorsa nell’ambito del “Giorno del ricordo” sono andato a vedere il documentario proiettato al Candiani: Grisignana e dintorni. Sono anni che ci vado, a Grisignana e dintorni. Conosco abbastanza quel bellissimo paese. Il documentario era tutto un leone di san Marco e un ricordare il dialetto istroveneto. Mai la parola Italia e fascismo, o comunismo e dittatura, o foibe, per capire l’abbandono che ne è seguito. Si saltano a piedi pari l’Italia e le sue responsabilità per tornare alla Serenissima repubblica. Si fa un buon servizio alla ricostruzione storica? Non credo.
Diverso modo di trattare la questione è, per esempio, la ricerca di Gloria Nemec che con Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria, 1930-1960 (Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1998, 2015) affronta mirabilmente i rapporti tra un centro urbano italiano e la una periferia dei villaggi croati che stanno attorno, in tutte le dinamiche sociali.
Nello stesso documentario visto al Candiani il sindaco di Grisignana, l’unico paese dove la minoranza italiana ha vinto le elezioni, ricordava che nel censimento il 30% circa si è dichiarato italiano, il 20% croato. E la rimante popolazione? Chiaramente altro. Però ben il 57% si è dichiarato di lingua istroveneta\italiano, e il 37% di lingua croata. Cioè lingua e identità nazionalità a volte sono diverse. Chi parla istroveneto a volte si dichiara di nazionalità croata.
E che dire dei nazionalismi croati e sloveni? Se leggete opuscoli turistici e schede storiche, spesso partono dal preistorico slavo, glagolitico e saltano a piedi pari i periodi veneziano e italiano. Sono più tolleranti col periodo austriaco. Ma, per differenziarsi dal nazionalismo croato, esiste un regionalismo politico istriano che difende l’idea di un’Istria cosmopolita, spesso legato allo “jugoslavismo” plurietnico.
Anche la popolazione italiana d’Istria dentro la Resistenza si è divisa sulla questione nazionale. Anche tra comunisti: Mario Bonifacio, dell’ANPI di Mestre, nel suo racconto autobiografico La seconda resistenza del Comitato di liberazione nazionale italiano a Pirano d’Istria, 1945-1946 (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste [2005]) ricorda la contraddizione di essere comunista italiano, antifascista, ma di volere che l’Istria rimanesse all’Italia, con il risultato di contrapporsi al Partito comunista sloveno jugoslavo. Questo a livello locale, mentre a livello nazionale la questione PCI e PCJ era molto più complessa e piena di contraddizioni.
E ancora sulla italianizzazione e repressione violenta delle popolazioni slave bisogna leggere naturalmente Boris Pahor, cittadino italiano, ora ultracentenario, nato a Trieste e sloveno di nazionalità. Il suo Necropoli (Consorzio culturale del Monfalconese, San Canzian d’Isonzo 1997), o Triangoli rossi: i campi di concentramento dimenticati (con la collaborazione di Tatjana Rojc, Bompiani, Milano 2015) raccontano la persecuzione contro gli sloveni e chi parlava semplicemente sloveno, che assieme al croato era vietato. Paradossalmente, però, Pahor, sloveno antifascista, è stato catturato e consegnato ai nazisti da altri sloveni, i domobranci collaborazionisti dei nazisti.
Va ricordato che nelle foibe e nell’esodo furono soprattutto italiani, ma anche collaborazionisti e anticomunisti e cattolici sloveni e croati, impauriti dal regime comunista di Tito. Ci fu anche un esodo al contrario: 2000 lavoratori italiani che da Monfalcone andarono a Pola, scegliendo il comunismo di Tito, e che avrebbero pagato caro questa scelta dopo il distacco di Tito da Stalin.
È uscito recentemente Il martire fascista di Adriano Sofri (Sellerio, Palermo 2019). È la storia di un maestro elementare siciliano, fascistissimo, che avrebbe sputato, lui tubercoloso, in bocca ai bambini sloveni che parlavano la loro lingua. È stato ucciso a colpi di fucile da elementi nazionalisti sloveni. Il libro racconta mirabilmente il clima che si viveva nei villaggi a maggioranza slovena. Si mescola un fatto vero e la nascita del mito della resistenza slovena contro l’italiano violento.
Storia e pietà, storiografia e memoria
La questione istriana giuliano-dalmata è stata cancellata dalla storia nazionale italiana per varie ragioni che oramai sono note e vanno dichiarate e comprese, accettando anche responsabilità collettive e individuali. Restano senz’altro aperte questioni familiari e individuali: come si sa le memorie private non sono quelle pubbliche, e sul piano della memoria – diverso da quello della storiografia – sarebbe forse meglio accettare “memorie diverse” piuttosto che insistere su “memorie condivise” (così conclude Raoul Pupo nel suo libro Trieste ’45, Laterza, Roma-Bari 2010). Ma sul piano storico e storiografico ci sono cose che possiamo dare per assodate definitivamente. Consiglierei di leggere la lettera di Marta Verginella al sito di sAm nel 2014.
Determinanti sono state le conclusioni della Commissione storico culturale italo-slovena (al lavoro dal 1993 al 2001), peraltro alla fine pubblicate dallo Stato sloveno ma non dall’Italia. A questa mancanza ha riparato l’Anpi del Friuli Venezia-Giulia, che le ha rese facilmente reperibili online.
In merito alle foibe, le conclusioni del rapporto finale della Commissione sono queste:
“Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani” (cit. da Pupo, Trieste ’45 cit., p. 330).
Lo storico Raoul Pupo commenta così: “E con ciò, la questione interpretativa [sulle foibe] si può considerare largamente risolta. Dove rimangono ancora significative zone d’ombra, nonostante molti progressi sono stati compiuti, è sulla ricostruzione puntuale dei singoli episodi (…) È sul versante della pietà, più su quello della storia, che molto rimane ancora da fare” (ivi, p. 331).
Il libro
È in questo coacervo di questioni che va letto il libro di Giorgio Giannini, che presentiamo oggi, La tragedia del confine orientale, il cui sottotitolo è L’italianizzazione degli Slavi, le foibe, l’esodo giuliano dalmata (LuoghInteriori, Città di Castello 2019). È un bel libro e c’è necessità di buoni libri sull’argomento.
Già nel titolo c’è la sostanza della questione: parliamo di una tragedia. Sono raccontate le vicende, ci sono i fatti, c’è la storia di quell’area. È stata una tragedia perché le popolazioni di quelle terre, molto più di altre, in quanto terre di confine, hanno vissuto la violenza della seconda guerra mondiale; e di un violento pre-guerra: quello dell’italianizzazione, dell’annientamento culturale di sloveni e croati a partire dal 1918 con l’annessione all’Italia, e poi ancor di più nel Ventennio, con il cosiddetto “fascismo di confine”. Ma chi abitava in quella zona ha dovuto subire anche un dopoguerra lunghissimo, culminato con le foibe e con l’esodo della componente nazionale italiana dall’Istria (l’ultimo esodo nel 1954).
Il titolo tradisce anche la formazione culturale di Giorgio Giannini, impegnato attivamente nel movimento pacifista e nonviolento italiano. Per capire l’impegno civico e morale che anima la ricerca storica di Giannini ricordo altri due suoi libri: L’inutile strage. Controstoria della prima guerra mondiale (LuoghInteriori, Città di Castello 2018, Premio Città di Castello 2017), e Vittime dimenticate. Lo sterminio dei disabili, dei Rom, degli omosessuali e dei testimoni di Geova (Stampa Alternativa, Milano 2011).
Ulteriore informazione che va data è che la formazione dell’autore è giuridica: è stato insegnante di diritto.
Dirò solo due parole sul libro, prima di lasciare che sia l’autore a esporvi il suo contenuto. La tragedia del confine orientale si divide in due parti. Nelle prima parte si ripercorrono le vicende a partire dalla fine dell’Ottocento con la nascita dei nazionalismi, l’annessione della popolazione slovena e croata dopo la Grande Guerra, l’italianizzazione degli slavi durante il regime fascista, la seconda guerra, le foibe, l’esodo giuliano dalmata, a cui segue una appendice sull’italianizzazione dell’Alto Adige durante il regime fascista. La seconda parte ricostruisce puntigliosamente la discussione, il confronto, lo scontro culturale e politico e dell’iter parlamentare, molto travagliato, della Legge 30 marzo n. 92, più conosciuta come legge istitutiva del “Giorno del ricordo”.
POCI dice
grazie Claudio, anche quest'anno in Tv non si è parlato d'altro che di foibe in cui starebbero solo italiani. A Basovizza c'era tutto lo stato maggiore del centro-destra… non una sola parola su ciò che fecero gli Italiani. Per esempio nel campo di concentramento di Rab, dove sono stato: grande abbandono, grande dolore, grande rimozione (e pensare che ho fatto il prof di storia). Un'annotazione. marginale: nel libro di Sofri che citi ho sentito dire da lui stesso in tv che il tisico che sputava in bocca era il fratello del maestro titolare Sottosanti, per un periodo supplente. L'azione partigiana degli anni successivi, per una sorta di incrocio della storia, uccise il maestro titolare, che era tornato al lavoro, dunque martire fascista celebrato dal regime. C'era stato uno scambio di persona, e nessuno lo disse. Sofri raccontava anche che quel fratello Sottosanti fu poi presente come infiltrato nei gruppi anarchici della Ghisolfa e a Roma. CIAO
Walter Cocco dice
Caro Claudio,
ho letto il tuo articolo: Parlare di Istria per il Giorno del ricordo.
In poche righe hai saputo inquadrare efficacemente la complessità dell’Istria e del confine orientale a dispetto delle diverse interpretazioni che circolano sulla questione. Come ben ricordi, molto spesso intere questioni o periodi vengono omessi, non solo nelle vulgate venete o italiane, ma anche in quelle di tanti autori appartenenti alle altre nazionalità che rivendicano questo territorio bellissimo quanto martoriato. Come ben sai, condivido con te l’attrazione per l’Istria e l’interesse per la sua storia, ti ringrazio perciò per tutte le indicazioni bibliografiche citate nell’articolo; ho preso nota in particolare dei testi di Gloria Nemec e Raoul Pupo che non conoscevo. Non sono potuto venire alla presentazione del libro di Giorgio Giannini perché in quei giorni ero ad Urbino (ancora si poteva girare tranquillamente), ma non mancherò di leggerlo. Grazie ancora e un caro saluto. Walter Cocco