di Giulio Vallese
Dopo alcuni anni il nostro amico Giulio Vallese torna a mandarci notizie dal mondo della scuola: è ancora precario, ogni anno attende di ricevere una convocazione a settembre o giù di lì, per una supplenza il più possibile lunga. Per rimediare a questa situazione le sta provando tutte, compreso il concorso straordinario per la classe di filosofia e storia che si è svolto venerdì 19 febbraio 2021. Un viaggio in auto fino a Milano, in una regione diversa da quella di residenza del candidato, in tempi di pandemia e zone rosse; una scuola fatiscente; aule allestite come un call-center; password per accedere alle domande; una prova d’esame concepita come una gogna pubblica: quando lo Stato intende mantenerti nella condizione che ti ha assegnato e allo stesso tempo vuole punirti per la condizione che ti ha assegnato.
1. Per fare il viaggio da casa fino a Milano mi sono fatto prestare una macchina. Siamo partiti in due, C. mi accompagna per sollevarmi un po’ dalla noia e dall’ansia del viaggio: partenza alle 8.00 perché io devo essere pronto per la convocazione alle 13.00. Ora ci troviamo nel cortile della scuola che a breve ospiterà il concorso straordinario per i precari. Tutt’intorno il nulla periferico, di fronte a noi una fioriera di cemento annerito – rigorosamente senza fiori – con intorno una grata di metallo verde che fungerebbe da panchina. Fa freddo solo a guardarla. Ha smesso di piovere da poco ed è tutto avvolto da un’umidità gelida e dal grigiore. Rimaniamo in macchina.
Alzando gli occhi oltre il parabrezza, osservo la scuola poco più in là: un edificio di due piani di cemento rosso sbiadito, squadrato e punteggiato al piano superiore da finestrelle. Potrebbe sembrare una caserma o uno di quei palazzi abbandonati della DDR che si potevano vedere ancora una decina di anni fa a Berlino. Il periodo della costruzione dovrebbe essere quello, direi gli anni Settanta. C’è un aspetto che la rende particolarmente lugubre: le facciate sono segnate di metro in metro da certe colonnine, tipo lesene, tutte scrostate, non a livello dell’intonaco ma proprio del cemento. Vicino all’entrata, una pensilina di plastica conduce all’ingresso, tante porte vetrate con gli infissi bianchi, sporchi e sgangherati. Ne ho viste, in questi anni di precariato, ma così… che sia una scuola dismessa?
Del resto anche il parcheggio è quasi vuoto alle 12 di un venerdì, possibile? Forse c’è un’altra entrata. In ogni caso, mi sento un po’ a disagio, mi immagino gli studenti uscire e ritrovarsi nel parcheggio della scuola due tizi chiusi in auto che adesso si stanno mangiando un panino. Dei ladri? Dei docenti precari? Siamo effettivamente in una situazione ambigua, viste le restrizioni in vigore: io sono partito col salvacondotto del ministero, che mi autorizza a spostarmi tra le regioni per via del concorso; C. che mi accompagna, invece, non ha carte da mostrare. Rimanere in auto ci sembra anche un modo per non farsi beccare.
Siamo in due in macchina, ma non teniamo le mascherine, ricadiamo nella categoria “congiunti”. Al rischio di contagio da Covid-19 però ci facciamo caso – stiamo andando in Lombardia! –, e il protocollo sanitario che ci siamo dati prevede di evitare il più possibile i contatti con l’ambiente esterno, compresa l’autarchia alimentare: panino con la mortadella, caffè nel termos, acqua, bevande gassate, cracker, cioccolata, biscotti con crema al cacao. Un menu ipercalorico per una giornata nella quale prevediamo un grande dispendio di energie. Gli unici contatti sono l’autogrill, per il rifornimento di benzina e il bagno, e la scuola per il concorso.
La pausa pranzo termina con un paio di biscotti, cioccolata e caffè che stranamente si è già freddato. Mi scappa. Scendo, mi libero delle briciole e mi avvicino all’entrata. Ecco la pensilina – un tempo bianca. Supero l’entrata a vetri e mi ritrovo in un androne enorme e basso, mal illuminato e deserto, sembra una stazione della metropolitana in periferia. Un tizio in piedi, immagino il bidello, mi guarda da dietro a un banco addossato alla parete. Mi avvicino, è lì per controllare gli accessi e registrare l’arrivo dei candidati. Mi fa firmare l’autodichiarazione in cui dichiaro di non avere il Covid, di non averlo avuto, ecc. Poi una firma sul registro degli accessi alla scuola e infine con il termometro a mo’ di pistola puntata alla fronte mi legge la temperatura. Bene: «Dov’è il bagno?». «Di sopra».
Salgo le scale: la scuola è proprio vuota. Per fortuna c’è una bidella che pulisce una palestrina:
«Mi scusi, cercavo i bagni».
«Lì dietro, in fondo a sinistra».
Terribili: non è semplice sporcizia quotidiana, ma inclemenza del tempo, incuria tenace, corrosiva: le tazze sono nere, mancano le tavolette, manca la carta igienica e pure il supporto per il rotolo, le porte non si chiudono, non c’è il sapone per le mani e ovvio mancano le salviette per asciugarsi. Mi ricordano le latrine di certe stazioni dei treni di quando ero piccolo. Mi rifiuto, ritrovo la bidella e per non offendere la butto sulla carta: «Ma i bagni sono quelli? No perché manca la carta igienica…».
«Eh… sono quelli dei ragazzi. L’unica cosa che possa fare è darle io un fazzolettino».
Chiedo del bagno dei docenti, ma pare che non ci siano o almeno, dal momento che non sono un insegnante di quella scuola – a dire il vero al momento nemmeno di altre – non me li hanno voluti indicare. Pazienza, me la tengo.
2. Ritorno all’auto, due parole con C., le racconto dei bagni, prendo le mie cose e ci salutiamo. Nel frattempo sono arrivati altri candidati. Saremo una ventina, sparsi in 3-4 capannelli provenienti da tutto il nord d’Italia (Trentino escluso): Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Liguria, Emilia Romagna. Non sono il più vecchio, ci sono alcuni colleghi di ruolo che insegnano italiano e partecipano anche solo per ottenere l’abilitazione in filosofia e storia. Ci sono tanti che non hanno mai insegnato la materia, ma hanno anni e anni di sostegno alle spalle; un siciliano che viene dal Piemonte mi dice che nella scuola dove lavora attualmente ci sono 50 insegnanti di sostegno. Cosa?! Anni fa ho lavorato nel sostegno ed eravamo una ventina, mi sembrava già un caso estremo [https://storiamestre.it/2018/09/un-anno-da-insegnante-di-sostegno/]. Ce n’è uno che mi sembra il candidato ideale: è già abilitato (deve aver fatto l’ultimo TFA nel 2014) e dice di insegnare la materia da diversi anni. Sembra sereno, è il callo del precario? Noto che ha le sopracciglia depilate: sarà per via delle mascherine che ci obbligano a focalizzarci su pochi particolari del viso. Rimango incastrato in quel capannello e tutti, tranne lui, dichiariamo di non essere lì per vincere il concorso – i posti infatti sono pochissimi –:ci accontenteremmo dell’abilitazione. D’altronde, difficile vincere, in Veneto ci sono tre (3) posti, è un terno al lotto, tanto valeva tirare a sorte. Chiaro che in questo modo non si risolvono né il problema del precariato né quello delle cattedre vuote a settembre.
I candidati non sono tutti qui, gli altri, circa 400, sono divisi in gruppetti di 20-30 e ospitati in altre scuole del milanese per evitare assembramenti. Una decisione che pare saggia, ma se il problema era evitare la diffusione del virus forse non era nemmeno il caso di convocare in un’unica città – a Milano poi – 400 persone provenienti da 6 regioni diverse. In fondo sono anni che si parla di questo concorso per stabilizzare i precari e si decide di farlo proprio nel pieno di una pandemia? Come spesso capita nella scuola si tratta di una scelta palesemente assurda che non si sa se sia figlia di inettitudine o di scelleratezza, mentre al governo i ministri ne lodano l’iniziativa.
3. È giunta l’ora. Il bidello ci raduna e ci scorta verso l’aula dove si svolgerà l’esame: c’è tensione, silenzio, il percorso è lungo, tortuoso, mi immagino un tranello, una sorpresa terribile. Ci indica una stanza dove dobbiamo lasciare le nostre cose. Entriamo, ci sono delle postazioni con degli apparecchi divisi da paratie. Per rompere la tensione mi viene una battuta: «Ecco, pensavamo al ruolo, e invece siamo qui per un posto in un call-center». Solo qualcuno ride.
Da lì, ci chiamano uno alla volta: firmo la presenza, varie dichiarazioni, consegno la ricevuta dei 50 euro che ho pagato per partecipare al concorso (contributo spese amministrative) e mi fanno accomodare in un’aula informatica di fronte a un pc. Ci danno alcune istruzioni e ovviamente ci diffidano dall’usare telefoni o altri dispositivi elettronici. In realtà non c’è nessun controllo particolare perché si poteva portare una cartellina dove tenere i documenti, da mangiare e da bere e ovviamente le giacche per via del freddo. Se uno voleva, copiava. Dobbiamo aspettare le 14,30, orario previsto per l’arrivo della password per sbloccare i computer, a quel punto inizierà l’esame. Mi guardo intorno, le finestre sono semi aperte per il ricambio d’aria, siamo tutti imbacuccati.
La password arriva: “pantomima”. Raccontata dopo, a chi non sta facendo queste trafile, magari fa anche ridere. Ma lì per lì non sono sicuro di aver tenuto l’imprecazione per me, forse l’ho sussurrata al mio vicino. È una piccola rivolta tra tutti: «Cos’è uno scherzo? Semmai siamo noi a dire che questa è una pantomima! Che presa in giro».
Salvo che non c’è tempo da perdere: una volta inserita la password, parte il conto alla rovescia con tanto di contasecondi. Ci sono 150 minuti per rispondere a cinque (5) domande più una in inglese di comprensione del testo. Pronti, via.
4. Prima domanda: “Costruisci una webquest sul rapporto tra Stato e Chiesa in Italia dall’Unità ai giorni nostri, considerando di avere degli studenti DSA”. DSA, noi che andiamo a scuola da precari da anni, lo sappiamo bene cosa vuol dire, significa “disturbi specifici dell’apprendimento”. Ma Webquest?!
Seconda: “Partendo dall’uomo vitruviano di Leonardo pensa a un percorso didattico sul concetto di umanesimo passando per Protagora e Pico della Mirandola”. No vabbè…
Terza, in climax bada bene ascendente: “Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio a partire da Anselmo di Canterbury”. Anselmo di Canterbury? Quello che tutti conoscono come Anselmo d’Aosta?
Le altre domande riguardano: lo sviluppo di un percorso didattico sul rapporto tra natura e natura umana nella filosofia contemporanea; i conflitti in Medio Oriente (lavoro di gruppo, fonti cartografiche, presupposti geopolitici e sviluppi).
Mi arrendo, non c’è scampo e soprattutto non c’è tempo, bisogna scrivere, riempire i campi. Mi butto, come fanno tutti gli altri: un’aula di battitori furiosi, c’è qualcuno che batte sulla tastiera particolarmente forte, sarà un modo per intimorire gli altri?
Mi pare di impazzire, mi invento qualsiasi cosa, non sono esattamente cosciente di quello che scrivo, l’idea – mi hanno detto – è buttarla sulla didattica, lavori di gruppo, sviluppo di competenze, compiti di realtà, didattica laboratoriale… non importa conoscere l’argomento.
È una gara di velocità, mi sembra una corsa a ostacoli. Mi tengo qualche minuto per la rilettura e correggo fino all’ultimo, il timer alla fine mi sembra accelerare! Tempo scaduto, il monitor si blocca. Esco dall’apnea.
5. La sorvegliante ci chiede: «Com’era?».
Io cerco la parola giusta e mi viene così: «Impossibile».
Si crea un po’ di ghiaccio: che ho detto?! non si può dire?
Altri sembrano più ottimisti. A qualcuno pare sia andata anche bene, una tizia per esempio mi dice che ha concluso da poco una tesi di dottorato sul rapporto tra Stato e Chiesa, fatalità. Generalmente però domina lo sconforto.
Prima di abbandonare l’aula dobbiamo attendere che uno dei sorveglianti passi per i pc e salvi le copie in chiavetta.
Tiene banco una questione, chi è Anselmo di Canterbury? È Anselmo d’Aosta, vero? Mah… E la webquest? Una ricerca su internet, no? Vuoi dire una ricerca online senza avere accesso a internet?!
Una delle sorveglianti si offre per controllare sul telefono – tra parentesi, i sorveglianti sono colleghi di ruolo – Anselmo d’Aosta è detto anche Anselmo di Canterbury.
Rientriamo nella stanza call-center, prendiamo le nostre cose e ce ne andiamo ognuno per conto proprio. Siamo, credo, tutti un po’ storditi, voglia di parlare poca. Saluto rapidamente, ho solo voglia di andarmene. Nel giardino incrocio il tizio con le sopracciglia depilate, che fuma, gli chiedo com’è andata. È sereno, come prima del concorso, sembra soddisfatto, mah…
Ritrovo C., «Come è andata?».
«Per me… impossibile».
Saliamo in auto, partiamo. Sono confuso, arrabbiato, stanco. Mi sfogo pensando a chi mai ha potuto formulare quesiti del genere. «Li ha fatti impossibili, come si fa in circa 25 minuti a costruire delle lezioni con tanto di DSA su temi così complessi? È una corsa a ostacoli. Non capisco a cosa serve un concorso così. A dare una parvenza di legalità all’assunzione di poche decine di precari? In fondo, più difficile è, più facile è fare selezione e si può sempre dire che chi non ce l’ha fatta non merita il posto fisso – però continuerà a insegnare da precario, l’importante è che non pensi di meritarlo. Perché c’è un altro aspetto, se uno lo passa ma non lo vince ottiene l’abilitazione all’insegnamento che è già qualcosa. Forse non vogliono abilitarne tanti, meglio regolarizzare quei pochi e basta. Oppure è fatto per umiliare i partecipanti, per farti desistere: chi l’ha detto che ti devono assumere dopo un tot di anni di servizio? In fondo per lo Stato sei un abusivo, insegni per errore del sistema di reclutamento; perciò segarli tutti evitando di creare liste di abilitati che poi potrebbero rivendicare una stabilizzazione. Comunque per me c’è della cattiveria, la percepisco in quasi tutti i quesiti, perché sono anni che insegno e so cosa significa formulare le domande per una verifica in modo che nessuno la superi: tutti sanno, per esempio, che a scuola difficilmente si affronta il Novecento e allora per segarli tutti faccio 3 domande su 5 sul Novecento; oppure do pochissimo tempo; oppure utilizzo altre forme del nome per autori chiamati regolarmente in un altro modo, e via dicendo. Un ministero che sceglie come password per sbloccare i pc la parola “pantomima”: qui c’è cattiveria dietro, c’è odio, ci vogliono umiliare, veramente. Oggi l’unica cosa che si rischia di prendere è una variante del Covid, non il ruolo».
C. guida sgomenta. Io mi rifaccio sui cracker. La tangenziale ci osserva.
PS. Abbiamo scoperto solo al rientro a casa che per i milanesi era vacanza, il carnevale ambrosiano, per questo la scuola sembrava abbandonata ma possibile che basti un giorno di chiusura per renderla fatiscente?
Nadia caldieri dice
Cronaca desolatamente illuminante… Grazie