di Alberto Cavaglion
Pubblichiamo il testo (rivisto) della relazione che il nostro amico Alberto Cavaglion ha presentato alla Summer School Parri La didattica della Shoah (Assisi, 29-31 agosto 2019), organizzata da Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, in collaborazione con la Città di Assisi, con il patrocinio del Centro internazionale di studi Primo Levi – Comitato nazionale per le celebrazioni 1919-2019. Come in altre occasioni, presentiamo qui di seguito solo la prima parte del testo, che si può leggere in versione integrale e scaricare cliccando qui.
Premessa
La discussione sul futuro della memoria, dei memoriali, dei musei del fascismo, delle buone pratiche scolastiche sulla Shoah e il Giorno della Memoria mi sembra sia a un punto morto. Per ripartire occorre rivedere molte delle nostre certezze e progettare con più fantasia il futuro. Quanto è emerso dalla discussione sul Museo del fascismo a Predappio cominciata nel 2016 ha messo a nudo una situazione di stallo, ma anche il logorio di vecchi schemi. L’attuale contesto politico rende il quadro più complicato: difficile immaginare se quel Museo potrà essere inaugurato, ma le divisioni che il progetto ha suscitato tra storici e commentatori bastano a mostrare il segno tangibile di uno stato di crisi su cui vale la pena tornare. La categoria di «luogo della memoria» meglio di ogni altra si presta a questo ripensamento.
Nonostante la lezione dei fatti, dispiace che un sano esercizio di autocritica tardi a diffondersi tra noi che della vecchia stagione siamo stati, chi più chi meno, i protagonisti. Parto, facendole mie, dalle amare riflessioni che Valentina Pisanty ha presentato in queste stesse giornate di Assisi:
Due fatti sono sotto gli occhi di tutti. 1) Negli ultimi vent’anni la Shoah è stata oggetto di intense e capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale. 2) Negli ultimi vent’anni il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore. Sono fatti irrelati, due serie storiche indipendenti, oppure un collegamento c’è, ed è compito di una società desiderosa di contrastare l’attuale ondata xenofoba interrogarsi sulle ragioni di questa contraddizione? La constatazione da cui trae avvio il mio intervento è il fallimento delle politiche della memoria, fondate sull’equazione semplicistica Per Non Dimenticare = Mai Più. La domanda è se tale insuccesso sia accidentale (la xenofobia cresce nonostante le politiche della memoria), o se non sia già insito nelle premesse (per come sono state impostate, quelle politiche non potevano che contribuire agli esiti che hanno prodotto). L’obiettivo è predisporsi a combattere la discriminazione in modo efficace e incisivo, che vuol dire anche onesto, consapevole e, ove necessario, autocritico.1
La categoria di «luogo della memoria» più di altre è entrata in crisi, anche per la sua polivalenza, dal momento che lambisce non una sola sponda: la museologia, le politiche ambientali, le architetture conservative, il turismo scolastico o quello generalista delle vacanze intelligenti. Lo stare insieme, in piccoli gruppi o nei grandi progetti collettivi dei Treni della Memoria ha portato con sé la semplificazione. Non è tanto una questione di contenuti, quanto una carenza di immaginazione, di scenografie, di progettualità creativa. «Comprendere» un luogo flagellato dalla violenza richiede l’intervento di nuovi strumenti, non necessariamente quelli delle moderne tecnologie digitali, che offrono un alibi per rendere più confortevole ciò che per sua natura è afflittivo.
Era stato Pierre Nora a formulare, per primo, la definizione di «lieu de mémoire», una unità d’ordine materiale o ideale, che avrebbe dovuto rendere visibile ciò che non lo era, unendo la storia e la geografia. Nella pratica scolastica, specialmente nelle politiche dei viaggi, con il passare degli anni, come sempre accade quando una idea nuova diventa routine, luogo di memoria è diventato tutto e il contrario di tutto. Un libro, un monumento, una lapide, il luogo di un eccidio, di una battaglia, un personaggio storico, una pietra d’inciampo, tutto è trasformabile in luogo della memoria. Molti luoghi stanno per diventare incroci digitali affollati, centri dell’ipertecnologia, altri sono sul punto di ritornare a essere terra dell’abbandono. Non ancora paesaggi di rovine, ma cristallizzati su se stessi, privi di un domani a fianco di altri spazi postmoderni, tutto immagini in touchscreen e video in loop.
La situazione è confermata da un esempio recente, che non nasce dal discorso su qualcosa che ancora non c’è e forse mai ci sarà (come Predappio), ma da qualcosa che c’era e rischia di non essere più. Mi riferisco alla vicissitudine travagliata del memoriale italiano di Auschwitz, sradicato dal luogo per il quale era stato progettato e trasferito in un non-luogo della Memoria della deportazione.
Sia chiaro, a scanso di equivoci: l’operazione del trasferimento da Auschwitz a Firenze è lodevolissima. Abbiamo con ogni probabilità salvato un capolavoro architettonico dal degrado totale o dalla sua demolizione, una demolizione caldeggiata da taluni, fra l’altro nel momento in cui lo scempio stava per essere attuato. Tuttavia, per carenza progettuale, il caso del memoriale rischia di generare due guai anziché uno. Da un lato il rischio che a Firenze, in assenza di un progetto chiaro, ciò che è stato con tanta cura restaurato vada a infoltire la già ricca galleria degli involucri vuoti. Dall’altro lato, non è chi non veda il rischio assai più grave che lo spazio dedicato ai deportati italiani ad Auschwitz sia destinato chissà per quanto tempo a rimanere vuoto. Vorrei sbagliarmi, ma non ho letto da nessuna parte che si sia levata una voce a spiegarci che cosa intende fare lo Stato italiano in quello spazio rimasto vuoto.
Il lettore non si aspetti da queste pagine progetti di buone pratiche da attuare subito per salvaguardare luoghi come Marzabotto, Stazzema, Fossoli, Risiera, Fosse Ardeatine, Ferramonti, lo stesso Portico d’Ottavio a Roma. Le considerazioni che seguono si limitano a un paio di proposte, vaghe, in prevalenza libresche, dunque ancora molto distanti dalla attuazione di un progetto. Le buone idee nascono sempre da buoni libri.
Queste pagine muovono da una convinzione consolidatasi nel corso degli anni. Le traversie che la memoria va attraversando penso vadano trasformate in opportunità, a un patto: che tra gli addetti ai lavori, ora lacerati in fazioni litigiose, si sottoscriva un armistizio e si stabilisca una pausa di riflessione. Una pausa che non potrà che essere lunga. Non vedo altre vie di uscita, se si vuole arrivare a progetti realizzabili e a pratiche condivise.
Se dipendesse da me, durante questa pausa, invece di lanciare appelli astratti in difesa del tema di Storia nell’esame di Stato prenderei drastiche decisioni: fermerei i Treni della Memoria fino a data da stabilirsi, sospenderei i bandi di concorso per nuovi Musei, indirizzerei le risorse (poche) disponibili, bonus, progetti europei, fondi di incentivazione, a finanziare le biblioteche scolastiche, convogliando lì i docenti «potenziatori». Nulla si è in grado di potenziare in assenza di buoni libri e di spazi accoglienti negli istituti scolastici dove i ragazzi potranno leggerli.
Il quarto paesaggio
Manifesto del Terzo paesaggio è il titolo di un libro famoso di uno tra i più noti paesaggisti europei. Con questa espressione, Gilles Clément indica qualche cosa che potrebbe intanto aiutarci non a riempire di figure il paesaggio, ma almeno a delimitarne i confini.2 Il primo paesaggio è quello della natura incontaminata, non toccata dall’intervento dell’uomo. Il secondo è il paesaggio delle arti figurative, della pittura, della poesia, della letteratura. Con «terzo paesaggio» Clément intende i «luoghi abbandonati dall’uomo» i parchi e le riserve naturali, le grandi aree disabitate del pianeta, ma anche spazi più piccoli e diffusi, quasi invisibili come le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie; le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico.
Tali sono stati per lunghi anni i luoghi abbandonati dove si è commesso un crimine, un eccidio, una strage, spazi nascosti dove innocenti sono stati reclusi per via dei loro orientamenti politici o per la loro diversità. Questa la ragione che ci induce a immaginare per loro la definizione di «quarto paesaggio». La connessione tra terzo paesaggio di Clément e il nostro per ora ipotetico quarto paesaggio, rappresentato da una memoria storica che si sedimenta nel tempo e raccoglie in comunità gli individui, non è una forzatura, se si pensa che elementi di un quarto paesaggio nelle nostre città sono già visibili nelle aree su cui Clément concentra il suo sguardo, per esempio gli altarini che i ragazzi costruiscono per i coetanei morti schiantati per le strade. Il tempo e le norme sul decoro urbano tendono a cancellarli: finché resta una «comunità di memoria» la necessità del ricordo si conserva, ma come evitare che anche la riflessione sul quarto paesaggio si trasformi in una prescrizione di memoria? Questo il punto cruciale che qui si può soltanto formulare, lasciando a una futura discussione le risposte utili per risolvere un problema complicato.
Per molto tempo non solo i luoghi della deportazione dell’internamento sono stati parte integrante del quarto paesaggio, ma rientrano in questa categoria anche gli spazi più ristretti e anonimi dove si è compiuta una strage, una fucilazione, una tortura. Per molto tempo sono stati paesaggi quasi invisibili. Penso, in Italia, ai decenni dell’abbandono, che hanno rischiato di far cadere nell’oblio i campi di Fossoli o di Ferramonti. Luoghi «minori» come Bolzano o Borgo S. Dalmazzo sono stati così a lungo trascurati da non rendere visibile oggi nessuna traccia del drammatico passaggio, in quelle stanze, dei perseguitati.
Sono spazi diversi per forma, dimensione e statuto, accomunati dall’assenza di ogni attività umana, ma che presi nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità. Biologica, nel caso studiato da Clément. Storica, nel caso che ci appassiona. Il brillante architetto francese gioca con le metafore della storia francese: «Terzo paesaggio» rinvia a «Terzo stato» e alle battaglie contro nobiltà e aristocrazia della Rivoluzione: «Cos’è il Terzo stato? – Tutto. Cosa ha fatto finora? – Niente. Cosa aspira a diventare? – Qualcosa».3 Noi potremmo seguire le sue orme e porre le stesse domande per il quarto paesaggio, quello della Memoria. «Cosa aspira a diventare? – Qualcosa».
Se nel terzo paesaggio troviamo luoghi in cui l’assenza dell’attività umana ha generato un rifugio per la conservazione della diversità biologica, nel quarto troveremo luoghi in cui la presenza di una politica umana di annientamento ha alterato il paesaggio in modo non facilmente leggibile. Ciò che è «incolto» o ciò che definiamo «erbaccia» diventa qui luogo ed elemento privilegiato del cambiamento ecologico. Nel quarto paesaggio che proviamo a immaginare, quello della Memoria, troviamo luoghi che conservano la traccia di una condizione estrema di sofferenza, luoghi che richiedono il permanere di una qualche orma della discriminazione politica o razziale. Clément dice che nel terzo paesaggio è centrale l’approccio ecologico che contraddistingue il rapporto uomo/natura e ci invita a percepire la terra come entità viva, come un grande giardino in cui tutti i frammenti di paesaggio ignorati ci offrono opportunità di rigenerazione. Lo stesso dovrebbe valere per il «quarto paesaggio», il paesaggio della memoria, che non potrà mai essere il paesaggio montuoso e interrogativo di Mann o di Musil o il parco divertimenti illuminato di Disney, ma dovrebbe assomigliare forse di più al ciglio della strada, ai bordi dei campi, quelli dove cresce un’erba senza nome, dove la mano restaurativa dell’uomo si ferma. Non è l’infinito, né il finito: è l’indefinito. L’indecisione su quale potrebbe essere il destino del giardiniere del Quarto Paesaggio è il suo rapporto con la cultura degli ambientalisti: la relazione tra letteratura ed ecologia potrebbe guidarci in una direzione innovativa.4
Clément ci spiega che l’orlo dei campi, una torbiera o un piccolo orto non più coltivato (viene in mente il rivo che scorre accanto alla baracche di Fossoli e ne delimita i confini), un piazzale invaso dalle erbacce o il margine di un’area industriale, laddove non ci sia (o non ci sia più) l’intervento dell’uomo, sono «residui» dove può trovare rifugio la diversità virtuosa, ciò che per noi dovrebbe diventare la scintilla che aiuta a spiegare la diversità di questo luogo di memorie storiche da un altro che ne è privo. L’abbandono, l’isolamento, la solitudine, la riduzione dell’uomo a cosa sono gli elementi caratteristici della prigionia e della deportazione. I residui derivanti dall’organizzazione del territorio (confini dei campi là dove c’erano fili spinati, bordi delle strade là dove si fermavano gli automezzi i camion che portavano i prigionieri verso la stazione ferroviaria) dovrebbero costituire la materia prima. In uno spazio rurale maggiore è la quantità di residui reperibili. Penso a due luoghi immersi nello spazio rurale come Fossoli di Carpi e Ferramonti, che si dovrebbero prestare, nell’ottica di Clément, non a un freddo restauro conservativo, ma alla creazione di un «quarto paesaggio». In uno spazio urbano, come il centro di Roma dove si è compiuta la tragedia del 16 ottobre 1943, la quantità di residui è minore, anzi si riduce a uno, per altro imponente, come il residuo della romanità imperiale, paesaggio di rovine per antonomasia, ma sono frequenti e visibili i residui naturali in periferia come nel caso delle Fosse Ardeatine. Se minore è l’intervento conservativo, i residui derivanti dall’abbandono evolvono naturalmente verso un paesaggio secondario, che a sua volta sarà interessato da trasformazioni, spiega Clément, fino al raggiungimento di un equilibrio. Nel suo manifesto per il Terzo paesaggio, lo studioso francese invita la società a porsi in due modi diversi verso luoghi come questi: considerarli luoghi naturali da proteggere, assumersi la responsabilità della loro cura e sorveglianza.
Ci sono dunque molti insegnamenti che gli storici della memoria in Italia e anche i docenti possono imparare dai lavori di Clément. Mi rendo conto che il mio Manifesto del quarto paesaggio, così come l’ho formulato, è privo di nomi, di volti, di storie di vita vissuta. Per adesso ci si può limitare – ed è già molto – a stabilire la cornice naturale di un diverso concetto di lieu de mémoire. A chi avrà voglia di mettere a frutto la pausa di riflessione che prima sollecitavo spetterà il compito di far sì che il quarto paesaggio si trasformi in un paesaggio con figure.
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- Questo testo lo si legge adesso in http://www.reteparri.it/didattica-formazione/summer-school/summer-school-2019-4600/. Un libro della Pisanty su questi temi è di imminente pubblicazione. [↩]
- Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, a cura di Filippo De Pieri, Macerata, Quodlibet, 2005. [↩]
- Secondo la celebre formula dell’abate Seyès, ripresa da Clément, ivi, p. 11. [↩]
- Utili spunti possono adesso venire dallo stimolante saggio di Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2018. [↩]
redazione sito sAm dice
Alberto Cavaglion è intervenuto ancora su questo tema durante la tramissione radiofonica Fahrenheit (rai radio 3) il 21 gennaio 2020. Per ascoltare il podcast: https://www.raiplayradio.it/audio/2020/01/FAHRENHEIT-Paesaggi-e-luoghi-della-memoria-b2acd2d6-1868-44f2-a5cc-aff393d71850.html (dal minuto 34 e 15 secondi circa)