di Stefano Petrungaro
Mentre sembra sfumare il dibattito (e l’uso) pubblico del Risorgimento – anche perché dominano la crisi economica e un’altra cronaca politica –, chiudiamo il 2011, anno delle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità, con un intervento che ragiona sul nazionalismo e il modo in cui la storiografia europea ha in genere affrontato questo tema. Per il nostro sito, Stefano Petrungaro ha ripreso la relazione che ha presentato al convegno “Immaginando l’Italia: la costruzione della nazione” (Zagabria, 10 giugno 2011).
Il problema è questo: ci sono momenti, in cui torna molto utile individuare nettamente i buoni e i cattivi. Gli uni da una parte, gli altri dall’altra. Qualcosa del genere è avvenuto con lo studio dei nazionalismi. Alcuni ritenuti figli dell’Illuminismo e sostanzialmente positivi, altri pesantemente legati alla terra e al sangue ed essenzialmente ritenuti negativi e pericolosi. Francesi e inglesi, neanche a dirlo, si davano degli ottimi voti; i tedeschi, invece, piuttosto complessati e frustrati dopo l’esperienza del nazismo, si interrogavano proprio sulle ragioni storiche di quella tragedia. E gli altri? Gli italiani, ad esempio, da sempre pieni di dubbi e incertezze, lo sono anche in questo ambito.
Il tono ironico serve ad alleggerire quello che altrimenti è un tema assai complesso e dalle profonde implicazioni non solo storiografiche, ma anche politiche. Proverò a illustrarne qualcuna.
1. Il primo problema riguarda proprio le nozioni di “buono” e “cattivo”, che ovviamente non appartengono al lessico della riflessione storiografica. Non esistono nazionalismi buoni o meno, per lo studioso esistono solo oggetti di studio. Non che lo studioso non abbia le proprie idee, politiche morali ecc., ma è che non sono quelle l’oggetto della sua indagine. L’obiettivo dello studio storico è ricostruire la storia di un fenomeno e comprenderne gli sviluppi, non è quello di decretarne il grado di bontà. Sembra un’osservazione banale, ma non lo è per nulla, soprattutto quando sono in gioco i nazionalismi.
Perché, come accennavo all’inizio, tradizionalmente gli studi comparati sui nazionalismi europei hanno invece utilizzato un approccio che nascondeva – a volte neanche tanto – un sistema di valori, quindi una serie di giudizi culturali, politici e persino morali, ma non strettamente storiografici. Lo schema, che ora semplificherò, prevede la suddivisione dei nazionalismi europei in due grandi gruppi, quelli occidentali e quelli orientali. A Occidente – e si pensava soprattutto alla Francia e all’Inghilterra, oltre che all’Olanda e alla Svizzera – avrebbe preso forma un tipo di nazionalismo definito “civico”, in sostanza “liberale”, individualista, volontarista, razionale, universalista, costituzionale, democratico. Vogliamo dirlo con una parola? Buono.
Diversamente, a Oriente, o meglio nell’Europa centro-orientale – e quando si iniziò a riflettere su questi temi, cioè a metà Ottocento, si pensava anche alla Germania, oltre che alle regioni più a est – avrebbe preso invece forma un nazionalismo più “etnico”, culturale (cioè legato alla lingua e alla letteratura), illiberale, collettivista, organico, mistico, particolarista, sciovinista e autoritario. In una parola: cattivo.
Alla libera “unione di cittadini” da un lato, si contrapponeva dall’altro la “comunità etno-linguistico-confessionale” ricevuta dal destino e dalla natura; alla “politica”, da un lato, si contrapponevano la “cultura” e i “miti”, dall’altro. Le differenze venivano rintracciate anche in un’ottica sociologica: se a Occidente sarebbe stata la borghesia il ceto cruciale per i movimenti nazionali, a Oriente il suo posto sarebbe invece stato occupato dall’aristocrazia e dalle masse popolari. Nazionalismi più progressisti da un lato, più tradizionalisti dall’altro.
Anche le opere di grandi maestri, come la stragrande maggioranza dei lavori su questo tema, risente di questa scorretta impostazione del problema. E non penso solo alle prime riflessioni, tardo-ottocentesche e primo-novecentesche: anche più tardi furono scritte numerose opere che conservano un valore storiografico, benché risentano profondamente delle influenze del contesto geopolitico internazionale, come la Guerra fredda e la divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi contrapposti.
2. Attraverso i decenni, l’elaborazione di questo schema dualistico relativo ai nazionalismi e ai risorgimenti europei è stato riformulato, raffinato, ma sostanzialmente mantenuto, arrivando fino ai giorni nostri. In molti studi di storia, in Croazia, in Italia, altrove, si trova esattamente questa interpretazione. Qualcuno la critica e la ammorbidisce, ma continua a servirsene. La domanda che pongo a voi e a me stesso è: fino a che punto è sbagliato?
Vista la mia premessa critica, vi aspettavate forse suggerissi semplicemente di abbandonare quel paradigma interpretativo. Gli studi sulle “mappe mentali”, in effetti, ci hanno spiegato molto bene come le contrapposizioni Est-Ovest siano da ricondurre anzitutto a costrutti socio-culturali, soggetti quindi a mutazioni storiche e soprattutto a forti condizionamenti politici. La percezione del confine tra Est e Ovest è infatti assai mutevole, tanto più che dal 1989 in poi è tornato prepotentemente sulla scena il “Centro”, quell’“Europa centrale” che suona tanto bene (e molto meglio di “Europa orientale”). Sono consuetudini discorsive, legate a fenomeni storici, economici, culturali, alle mentalità. Tutto questo è stato ampiamente analizzato e decostruito, dimostrando come dietro a quelle suddivisioni dello spazio europeo e mondiale stessero e stiano pregiudizi culturali profondi e dalle pesanti ricadute non solo negli studi, ma anche nelle politiche degli ultimi due secoli almeno. E dimostrando infine come tutto si originasse da un senso di superiorità radicato nell’Europa “occidentale”, che si poneva come “norma” rispetto alla quale dover misurare il resto del mondo, tendenzialmente arretrato se non persino inferiore. Partire a “riflettere” con un simile approccio, significa non poter capire granché di quello che si vorrebbe spiegare.
D’accordo, ma abbandonare un uso acritico e “normativo” di quelle categorie spaziali, deve per forza significare l’abbandono delle categorie tout court? Una volta che abbiamo combattuto l’eurocentrismo di certi approcci, come ci confrontiamo con le diverse storie nazionali?
È un dilemma simile a quello che riguarda il multiculturalismo: una volta che abbiamo combattuto convinzioni che postulano la superiorità di una cultura rispetto a un’altra, come ci confrontiamo con le diversità delle culture? Combattere i pregiudizi significa rinunciare ai giudizi di valore? Combattere le gerarchizzazioni aprioristiche significa relativizzare tutto, accettare tutto, uniformare tutto?
Queste domande, che ho brutalmente semplificato, trovano le loro sorelle in ambito epistemologico e storiografico, soprattutto quando si tratta di storia comparata e di storia globale: a cosa porta il giusto rifiuto di una presunta superiorità di un’area geografica o di un nucleo di Paesi (l’Europa, l’Occidente)? O la giusta critica ad un uso indiscriminato di modelli interpretativi (cosiddetti “diffusionisti”), che vedono i Paesi europei e gli Stati Uniti come motore della storia mondiale (e gli altri dietro ad arrancare passivamente)?
3. Ecco, quello del “primato” e dell’”arretratezza” sono temi chiave, anche in questo ambito, ossia quello della riflessione sui nazionalismi e sui movimenti risorgimentali. In genere, chi scrive le storie nazionali (tanto più se non ha buoni anticorpi nei confronti del pensiero nazionalista) si dà un gran da fare a datare, possibilmente retrodatare la nascita del movimento risorgimentale di cui si occupa, questo proprio per nobilitarlo, per dimostrare che la società che lo ha prodotto non era poi così “arretrata” rispetto alle altre.
Ma in storiografia, e in generale in una seria riflessione critica, non si tratta di una gara a “chi arriva primo”. La comparazione storica registra le cronologie solo per fini analitici, non per distribuire medaglie. È un po’ il problema di prima. Quello che dobbiamo chiederci è: cosa significa acquisire l’indipendenza statale in un decennio, o in un altro? O in un secolo, invece che in un altro? Non dev’essere una questione di “superiorità”; ma di differenza nelle esperienze storiche, questo sì.
Anticipo allora la conclusione (sempre “tagliata con l’accetta”): bisogna salvare le differenze. Non va più tanto di moda, ormai. Grazie ai finanziamenti europei per progetti sulla costruzione dell’identità europea, e più in generale grazie all’attuale clima politico e sociale, si tende, a partire dalle rivoluzioni del 1848 in poi, a sottolineare gli aspetti di analogia. Questo è molto “politically correct”. Il filo rosso che unisce le varie esperienze è “la lotta per l’indipendenza nazionale”. La tua, la mia, con uguale dignità. E la dignità è data dallo Stato, meglio ancora se Stato-nazione, la scatola nella quale vengono messi alla rinfusa i vari soggetti storici che formano le società: uomini e donne, giovani e anziani, ricchi e poveri, tutto dovrebbe fare uno e forse anche due passi indietro davanti alla bandiera della nazione, in nome della quale è concepito l’unico conflitto legittimo. Se per qualunque altro tipo di conflitto (anche non violento) s’innesca immediatamente una pesante circospezione, che arriva persino a svilire ed escludere certe battaglie in nome di una vaga pacificazione sociale, battersi per la nazione, invece, costi quel che costi, va bene.
E a questo riguardo, non si fanno più grandi differenze est-ovest: tutti (o quasi) hanno diritto a lottare per la propria indipendenza nazionale, su questo punto ci si intende. Paesi piccoli, paesi grandi, a ovest e a est, i nazionalismi – ci spiegano da qualche anno in qua – vanno affrontati pensandoli paritariamente, senza ghettizzarli. Soprattutto chi si occupa di storia dell’Europa orientale e sud-orientale, ora sta molto più attento che in passato a non avere un approccio “eurocentrico”, o meglio sarebbe dire “balcanistico”, vedendo cioè nell’Europa occidentale la “norma”, e in quella orientale e sud-orientale la “derivazione”, la brutta copia.
Quando è l’eurocentrismo in questione, superarlo va bene, purché l’effetto non sia quello di produrre “la notte, in cui tutte le vacche sono nere”, come disse il filosofo, ossia di non vedere più le differenze. Che pure vi furono.
4. Insomma, come si può vedere nel titolo di questo intervento, da un lato ritengo sia bene fondere l’Est con l’Ovest, rinunciare cioè a schematismi rigidi che impediscono di studiare adeguatamente la storia contemporanea europea. Allo stesso tempo, la fusione che ho operato nel titolo non ha prodotto una parola nuova, che trascuri le realtà di partenza e ne annulli le differenze. Nel gioco di parole del titolo, che si avvale di maiuscole e minuscole, ho voluto conservare qualcosa che ci ricordasse che abbiamo a che fare con innumerevoli realtà storiche. L’Ovest e l’Est del titolo, infatti, hanno anche valore simbolico, in relazione cioè a tutte le micro e macro realtà storiche che compongono la storia dei risorgimenti europei.
Ebbene, annullare certe differenze, come quelle dei pregiudizi ideologici di cui ci siamo occupati, ci ha così portato paradossalmente a sottolineare la pluralità presente nella storia comparata: pluralità di soggetti, di temi, di tempi storici.
In conclusione: pluralità – e al contempo analogie. Poiché né la democrazia, né la barbarie, sono un’esclusiva di alcune aree geografiche o di alcuni Paesi. Come dimostrano i più recenti studi sui movimenti nazionali europei, è un linguaggio comune quello che si richiama al sangue e alla terra, al tema della famiglia, di cui ci si serve per immaginare, raccontare e vivere quotidianamente la nazione, la madre-patria, i suoi padri fondatori, i suoi figli, le loro sorelle e le loro madri. Da Rousseau a Fichte a Burke, la nazione è “concepita” – e poi “praticata” per mezzo delle disposizioni legislative – essenzialmente come una “comunità di discendenza”, vale a dire una famiglia, una comunità legata da vincoli di sangue, non esattamente il frutto di un atto volontaristico, razionale e libero. Al di là della specificità delle esperienze dei singoli Paesi, quello che vorrei sottolineare in conclusione è la vicinanza teorica e pratica – quindi proprio il contrario rispetto agli schemi oppositivi da cui siamo partiti – che recentemente è stata individuata attraverso l’analisi approfondita dei linguaggi dei vari Risorgimenti europei, nonché delle prassi politiche degli Stati-nazione che sono seguiti.
Non sono infatti ideologie che rimangono inefficaci, né parole che rimangono inascoltate. Tutto questo in passato è spesso servito, e spesso serve tuttora, a legittimare l’esclusione, la violenza e il conflitto, all’interno e all’esterno della nazione, in tutta Europa e oltre.