di Claudio Pasqual
Pubblichiamo l’intervento che Claudio Pasqual aveva preparato per l’incontro Mestre per noi (settembre 2013), ma che per ragioni di tempo non ha potuto pronunciare.
1. Finché rimase un paesone, ancora per quasi tutto l’Ottocento, Mestre non ebbe un ospedale, e i suoi malati più gravi erano curati a Venezia, ai Santi Giovanni e Paolo. Eppure a Mestre durante quel secolo si discusse a più riprese, nel 1839, 1858, 1867, 1878, di aprire un ospedale, ma ogni volta non se ne fece nulla, anche per scarsità di fondi. La svolta arrivò a inizio Novecento, all’epoca della prima urbanizzazione, che trasformò Mestre in una piccola città, a un ritmo già allora vertiginoso: basti dire che i suoi abitanti arrivarono a raddoppiare in soli vent’anni, da 12.000 nel 1901 a 23.500 nel 1921.
Correva l’anno 1900 quando il Comune decise l’istituzione di un ospedale civile: furono stanziate 30.000 lire per la sua realizzazione e si deliberò di intitolarlo a Umberto I, così come accadeva allo stesso tempo per piazza Maggiore (si era all’indomani dell’uccisione del re). Poiché il denaro pubblico non era sufficiente, il sindaco conte Jacopo Rossi promosse presso i privati un “Comitato esecutivo per la costituzione di un ospitale in Mestre”, formato da dodici personalità, che attraverso donazioni, campagne di sottoscrizioni, organizzazione di esposizioni artistiche, balli popolari e spettacoli teatrali di beneficenza, riuscì a raccogliere 50.000 lire in tre anni. Dunque furono in primo luogo i ceti dirigenti locali a mobilitarsi, i vertici della società mestrina, in modo autonomo e collaterale alle istituzioni, ma trovando un buon seguito fra la popolazione, evidentemente persuasa dell’utilità di un ospedale per la città. Gli abitanti di Mestre avrebbero continuato a sostenere l’istituto nel tempo, e con generosità, se si pensa che nel 1936 l’ammontare delle donazioni fu calcolato in due milioni e mezzo di lire.
2. Il sito per il costruendo nosocomio fu individuato in località Castelvecchio – in età medievale qui era sorto il primo castello di Mestre –, un’area ancora agricola fra piazza Umberto I a est e i Quattro Cantoni a nord-ovest, lungo l’omonima antica via, che veniva dal Terraglio e, scavalcando con un ponte ad arco il ramo superiore del Marzenego, portava in piazza al duomo di San Lorenzo. L’incarico di progettare un edificio “sufficiente a ben piazzare circa 40 malati” fu affidato all’ingegnere mestrino Eugenio Mogno. A dimostrazione dell’urgenza attribuita all’opera, i lavori cominciarono nel 1903 su un fondo della famiglia Tozzi prima ancora che fosse perfezionato il passaggio di proprietà al Comune. Quando terminarono, nel 1906, fu senza eccessivi intoppi nuovamente per l’intervento della munificenza privata. Protagonista questa volta fu una sola persona: Pietro Berna. Fu lui a sbloccare l’impasse nelle trattative fra il Comune e i proprietari del terreno, questione di soldi, acquistandolo per quarantamila lire e facendone subito dono all’istituto. Di professione farmacista, cattolico osservante ed esponente di spicco del “partito” clericomoderato locale, figura di primissimo piano nella vita pubblica cittadina, quattro volte sindaco di Mestre e per un quarto di secolo in Consiglio e Deputazione provinciale, anche come presidente, alla guida di vari enti e commissioni, il suo nome è ben noto ai mestrini per via dell’omonimo Istituto, fondato nel 1921 dalla sorella, la maestra Maria, due anni dopo la morte di Pietro, su esplicita disposizione testamentaria del fratello. Il quale all’ospedale teneva parecchio, se nelle sue ultime volontà, datate 1909, e anche in successive disposizioni alla sorella, definiva l’orfanotrofio privato da lui voluto “un Istituto veramente reclamato dopo l’Ospitale”, dettando peraltro, nel caso il suo progetto abortisse, che l’intera propria sostanza passasse “ad altra opera, come sarebbe il nostro Ospitale”. Per i meriti, il prestigio e l’influenza di cui disponeva, non gli fu dunque difficile subentrare al Rossi, dopo la morte di questi nel 1904, nella presidenza del Comitato esecutivo e dare personalità giuridica al costruendo ospedale, ottenendone l’erezione a ente morale con decreto regio del 30 aprile 1905; sicché fu quasi naturale che egli divenisse presidente del primo consiglio di amministrazione dell’istituto, il 1° aprile 1906.
3. L’Umberto I fu inaugurato il 16 aprile 1906. Era dotato di trentadue posti letto in quattro cameroni, di tredici stanze per dozzinanti, sala operatoria, due refettori, cucina, altri servizi. All’avanguardia era l’impianto di riscaldamento a termosifone. Questo primo edificio, diventato in seguito il padiglione Pozzan, in onore del professor Tullio, medico primario alla fondazione, morto nel 1933, è quello che occupava il centro del complesso ospedaliero prima della demolizione, con annesse la casa delle suore e la chiesetta neogotica costruita nel 1908 grazie a una donazione di Maria Berna. Al momento però aveva attorno solo campagna, nei pressi c’erano anche due case coloniche di proprietà dell’ospedale.
Molto presto quel primo fabbricato si dimostrò insufficiente per una città in crescita e già nel 1915 l’ospedale fu dotato di un secondo padiglione, intitolato a Cesare Cecchini, già sindaco di Chirignago, assessore a Mestre e consigliere di amministrazione dell’ente, a ringraziamento del lascito di centomila lire da lui disposto per la costruzione. Il padiglione Cecchini si affacciava sulla via Castelvecchio laddove la strada faceva un’ultima curva prima della dirittura verso il teatro e la galleria Vittorio Emanuele (oggi Matteotti); il suo ingresso, all’incrocio tra la via Antonio da Mestre, aperta nel 1925, e la via Ospedale, come fu ribattezzato l’ultimo tratto di via Castelvecchio, abbellito nel 1933 da una loggia, fu fino agli anni Sessanta l’ingresso principale del nosocomio mestrino.
4. Subito dopo la guerra i ricoveri e i degenti effettivi raddoppiarono, da 70 a 150 a inizio 1920. L’ospedale serviva non solo Mestre ma anche il circondario; e a Mestre avrebbero presto dovuto affiancarsi Porto Marghera e il suo Quartiere Urbano. Così nel 1919 fu progettato un terzo padiglione, dove collocare il “reparto sanatoriale”. Per questo ampliamento fu acquistato nel 1922 un terreno sulla riva del Marzenego, con la duplice caratteristica di trovarsi in una zona bassa, umida e di matrice argillosa, e di confinare con il macello comunale (il quale si trovava, assieme al deposito delle filovie, e lì rimase fino al 1970, dove adesso sorge il complesso del Centro culturale Candiani). L’edificio fu ultimato nel 1935, ed è il padiglione De Zottis, nell’angolo nordorientale dell’area ospedaliera, ben visibile dal parco pubblico incuneato tra il Marzenego e la via Einaudi, e dalla diramazione della stessa via Einaudi che conduce a piazzale Candiani.
L’operazione tuttavia scatenò accese polemiche ma soprattutto sollevò per la prima volta, e precocemente, il tema di una diversa collocazione per l’ospedale cittadino. Ad aprire la discussione fu nel 1924 Paolino Piovesana, nella sua triplice veste di primario ospedaliero (dal 1920), presidente dell’Associazione Antitubercolare e di sindaco fascista della città. La sua contrarietà alla presenza di un tubercolosario a ridosso del centro cittadino divenne l’occasione per lanciare l’idea di un ospedale decentrato. Ovviamente l’argomento igienico-sanitario non poteva essere il solo e nemmeno il più forte. Piovesana infatti, prevedendo un’espansione del centro cittadino nel settore dell’ospedale – nel 1920 era stata aperta a ovest del complesso la via Circonvallazione –, paventava un nosocomio incapsulato in un’area fortemente urbanizzata, intrappolato tra le costruzioni, con tutti i problemi di ordine logistico e funzionale che ne potevano derivare. Dalla sua c’era l’esempio di altre città venete, che avevano allontanato le loro strutture, e per farlo c’erano i soldi, compresi due milioni per l’edilizia scolastica che si potevano stornare, potendosi con poca spesa adattare a scuole i padiglioni dismessi – curiosamente, quest’idea è tornata alla ribalta oggi, per gli edifici storici dell’ex Umberto I dopo il fallimento del progetto delle torri. Il nuovo ospedale si sarebbe potuto costruire lungo il Terraglio, il sindaco aveva già individuato un’area nella campagna oltre Villa Tivan e Borgo Pezzana.
L’opposizione al progetto, che si coagulò immediatamente attorno a un “comitato contro il trasferimento dell’ospedale”, aveva alla testa due ex sindaci, il socialista Ugo Vallenari e il democratico Aurelio Cavalieri, ma lo scontro non fu politico, almeno non prevalentemente: il fronte del no era trasversale, comprendendo notabili locali e anche uomini di provata fede fascista, come il medico Leonardo Mareschi. I contrari mettevano in campo da un lato l’attaccamento dei mestrini a un’opera sentita come un’irrinunciabile conquista cittadina, dall’altro la disponibilità di ampi spazi liberi per l’ampliamento in loco del complesso ospedaliero. Il loro sospetto era che dietro la proposta si nascondesse un “partito degli immobiliaristi” e in effetti, quando il 17 aprile 1925 la proposta di trasferimento fu bocciata in Consiglio comunale con 23 voti contro 6, i favorevoli erano tutti proprietari di terreni liberi a ridosso del centro di Mestre, Piovesana compreso, oppure tecnici o impresari del ramo costruzioni, come Domenico Toniolo, personaggio che per i mestrini non ha bisogno di presentazioni (tra le altre cose, insieme ai fratelli fece costruire la già ricordata galleria e il teatro che porta tuttora il nome della famiglia). E certamente questi interessi stavano alla base di una precisa visione della città, che pensava a un uso diverso, più moderno, delle aree centrali, capace di sospingere in alto i valori immobiliari. Se in Consiglio il fascista Renato Amori, con pomposa retorica, declamò una “Mestre grandiosa” da fare senza tante fisime burocratiche, un editoriale uscito sul Gazzettino il 30 aprile, anonimo, ma sicuramente ispirato da Piovesana, accusava apertamente i consiglieri di aver fatto perdere a Mestre l’occasione di diventare un “grande centro commerciale e industriale”, sull’onda “dell’avvenire radioso” prospettato dal nuovo porto industriale di Marghera; di non saper riconoscere “le condizioni necessarie e sufficienti perché Mestre diventi la grande città che tutti intravvedono”; concludendo che “se poi non abbiamo veramente fede in questo grande avvenire di Mestre […] allora è giusto che l’ospedale resti dov’è, che le strade nuove sieno fatte dopo che quelle vecchie saranno riparate” e via proseguendo con gli strali polemici.
5. Certamente esisteva un problema di capacità ricettiva dell’ospedale, con una popolazione mestrina che crebbe vertiginosamente già fra le due guerre, passando da 25.000 a 70.000 abitanti. Il Piano Regolatore Rosso del 1937 prevedeva un ampliamento fino a 750 posti per un bacino ipotetico di 150.000 abitanti, ma come si sa non fu mai approvato e l’ospedale conobbe nel periodo pochi e ridotti interventi: un dispensario antitubercolare, un padiglione per malattie infettive, una nuova cella mortuaria.
La previsione del Piano Rosso si rivelò sottostimata: la terraferma veneziana arrivò ad avere nel 1975 210.000 abitanti. Una funzione di supplenza era svolta da alcune cliniche private, la Villa delle Rose a Marghera, la Villa Salus delle Suore Mantellate Serve di Maria (dal 1951), il Policlinico San Marco (dal 1960). Il problema del potenziamento delle strutture sanitarie pubbliche comunque rimaneva. Il primo Piano Regolatore Generale per Mestre, del 1962, offriva una soluzione che riprendeva la vecchia idea del trasferimento dell’ospedale, individuando una vasta area lungo la circonvallazione Est, via Martiri della Libertà. In questo modo si sarebbe anche sciolto il nodo dell’impossibile coesistenza con il macello, che restava sempre al suo posto, nonostante fosse stato stabilito, sin dagli anni Venti di sloggiarlo e rimpiazzarlo con nuove strutture sanitarie. Ancora nel 1960 il direttore sanitario Marcello Forte deplorava “una situazione non più tollerabile: le sale di abbattimento del bestiame sono quasi a ridosso del padiglione ove si trovano i malati del reparto di medicina, emanazioni incomode, esalazioni, sviluppo in modo assai notevole di mosche oltre all’incomodo dato dalle urla del bestiame in posta nei recinti del macello stesso”.
Ma a Mestre, specialmente in quegli anni lì, in quanti casi tra pianificazione urbanistica e realizzazioni concrete non si dette corrispondenza? Mentre il Piano Regolatore era in dirittura d’arrivo, procedendo per proprio conto l’amministrazione ospedaliera aveva fatto costruire il padiglione con il nuovo ingresso su via Circonvallazione e il pronto soccorso, inaugurati in quello stesso 1962; e di conseguenza fu anche possibile posare la prima pietra, il 29 aprile 1966, del “monoblocco”.
6. Quel che avvenne dopo mostra come Mestre sia anche una città di vichiani ricorsi. Perché a trent’anni di distanza la cosa di cui sopra pressappoco si ripete. Mi riferisco alla faccenda del “monoblocchino” dell’Umberto I, che personalmente trovo parecchio scandalosa. Per capirlo, bisogna inquadrare il fatto nella più ampia vicenda del nuovo ospedale dell’Angelo. Negli anni Settanta l’orientamento a trasferire il nosocomio in altro luogo è ormai condiviso in tutte le sedi. In un primo tempo si è provato su terreni a Carpenedo, scomodando persino Carlo Aymonino per il progetto, datato 1980, senza tener conto della presenza dell’ultimo lembo di un antico bosco planiziale, il Tinto, e dovendo poi rinunciare per l’opposizione vittoriosa di ambientalisti e Italia Nostra. Solo nel 1988 viene finalmente individuata l’area di Zelarino dove sorgerà l’ospedale dell’Angelo e l’anno dopo il Comune, giunta Casellati, ne fa acquisto per la bella somma di tre miliardi e 120 milioni di lire. Poi tutto si ferma, e del nuovo nosocomio non si parla più, sembra non doversi più fare. Così a fine anni Novanta l’azienda sanitaria avvia la costruzione del monoblocchino, “come struttura in grado di surrogare la mancata realizzazione del nuovo ospedale di Mestre”. Accade però nel frattempo che quest’ultimo torni a essere fattibile, per via del project-financing e altro ancora: nel 2002 il Comune trasferisce la proprietà del terreno di Zelarino alla Ulss, con conclusione dei lavori prevista per il 2006. Il taglio del nastro del monoblocchino cade il 9 aprile 2003; all’inaugurazione il direttore generale della Ulss 12 Veneziana Antonio Padoan parlò di “periodo ponte” e il presidente della Regione Galan disse testualmente: “Mi auguro che non si speculi sul fatto che spendiamo 20 miliardi di lire per la struttura oggi inaugurata, dal momento che fra circa quattro anni questo ospedale non ci sarà più. Abbiamo però deciso che in questi quattro anni anche i mestrini, i veneziani e quanti ricorrono alle cure di questo ospedale potessero disporre di strutture all’altezza della nostra storia e tradizione. Il Veneto nel campo della sanità non disinveste, non taglia, anzi produce ulteriormente; è stata condotta ovviamente l’operazione con intelligenza”. Dei politici, si dice, non è il caso di fidarsi, e invece questa volta Galan s’è sbagliato di poco: il monoblocchino ha chiuso dopo cinque anni nel giugno 2008 ed è venuto giù nell’autunno 2009; più facilmente di altri edifici, ha rivelato il tecnico responsabile, perché la struttura non era in cemento armato (la vera intelligenza dell’operazione?).
7. Nella primavera 2008 l’ospedale dell’Angelo è pronto; nel maggio comincia il trasferimento; il 14 giugno, quando chiude l’ultimo reparto, il pronto soccorso, finisce anche la secolare vicenda dell’Umberto I. Il vecchio complesso l’Ulss lo ha venduto ai privati, e precisamente a due società trentine, il Rovere e DNG, di proprietà dell’ingegner Flavio Zuanier. Viene elaborato un ambizioso progetto di riqualificazione per quest’area centralissima di Mestre, per il quale nel 2010 il Comune e Zuanier hanno stipulato una “Convenzione urbanistica per l’attuazione del piano di recupero di iniziativa pubblica per l’area del compendio Umberto I”, che prevede la costruzione di tre torri alte novanta metri a uso direzionale-commerciale e residenziale, sedicimila metri quadrati di aree verdi comunali a parco, il recupero e la destinazione degli ex padiglioni ospedalieri (Pozzan, Cecchini, De Zottis, Casa delle suore) a nuove funzioni pubbliche.
Nel frattempo, si erano messe in moto le ruspe: in sei mesi, fra giugno e dicembre 2009, era stato raso al suolo quello che c’era da buttar giù dell’Umberto I. Lavoro scientifico, preciso al metro cubo, nei tempi prestabiliti, senza incidenti e infortuni. Orbene, dal momento in cui la ditta di demolizioni Mestrinaro ha terminato il suo lavoro, il tempo si è fermato e tutto è rimasto come quel giorno. Sono quasi quattro anni che l’area dell’ex Umberto I giace così, in stato di abbandono. È subentrata la crisi – questa la spiegazione – e il progetto delle torri è stato mandato in soffitta. Tra sporadici articoli di giornale, con dichiarazioni di impegno e ipotesi di soluzione poco convinte e convincenti da parte dei politici, e il costante mugugno dei residenti, l’ultima proposta, del maggio di quest’anno, avanzata dalla proprietà e favorevolmente commentata dall’Amministrazione, è un protocollo di intesa con l’impegno, in cambio di un aumento delle cubature, di cedere al Comune i padiglioni storici (conservati) e sedicimila dei cinquantamila metri quadrati del compound Umberto I, sui quali realizzare un grande parco e un parcheggio pubblico. In Comune hanno ricominciato a macinar progetti. Per dirne uno, nel De Zottis si potrebbe sistemare la scuola primaria Vecellio di Parco Ponci, che si intende demolire; sempre che, anche di questo si dibatte, la nuova sede non si faccia al posto della media Manuzio di viale San Marco, anch’essa da buttar giù… Alla firma del protocollo però non si è ancora arrivati; a Ca’ Farsetti c’è stato un irrigidimento quando si è scoperto che la proprietà vuol vendere ma le sole offerte ricevute sono state di gruppi della grande distribuzione, intenzionati ad aprire dei megastore in centro città, come consentito dalla nuova legge regionale sul commercio. La giunta, scrivono i giornali, ha giurato che mai e poi mai concederà l’autorizzazione a opere di tal fatta. La proprietà dal canto suo si è fatta sentire con dichiarazioni tranquillizzanti circa le proprie reali intenzioni. La città rimane in attesa della prossima puntata.
Nota bibliografica
Per questa rapida ricognizione nella storia dell’ospedale Umberto I ho consultato due lavori di Sergio Barizza: Storia di Mestre, Il poligrafo, Padova 1994, pp. 65-73 e 317-318 – che ne segue la vicenda al tempo di Mestre comune, dalla fondazione agli anni Venti – e Un ospedale, una città. Le vicende storiche dell’ospedale di Mestre specchio del cammino verso la costruzione della città, in Il nuovo ospedale di Mestre, a cura di Mariagrazia Raffele, fotografie di Daniele Resini, Marsilio, Venezia 2007, pp. 197-221 – che prosegue il racconto fino alla chiusura del nosocomio. Per i fatti seguiti al giugno 2008, mi sono avvalso degli articoli apparsi nelle edizioni online della stampa quotidiana locale, Il Gazzettino e La Nuova Venezia.
Claudio Pasqual dice
Grazie per le informazioni che ci ha dato. Il mio scritto, elaborato per altro a partire dalla traccia di una conferenza, era limitato alla ricostruzione della storia dell’Umberto I. La vicenda dell’Angelo è sicuramente altrettanto degna di attenzione, spero che un giorno si possa prendere in mano.
Mario Manente dice
Interessante e puntuale storia dell'Umberto 1. Purtroppo manca tutta la storia che dal 1979 con un convegno organizzato dai sindacati di tutti i dipendenti ospedalieri è partito l'iter per il nuovo ospedale. Ricordo che l'allora ass. alla sanità MELOTTO ha riconosciuto Mestre priorità regionale per la costruzione del nuovo Ospedale stanziato 50 miliardi. E quindi più di vent'anni di incontri riunioni manifestazioni raccolta di firme (33.000 in soli 25 giorni). E infine il progetto di finanza. Questo per fare un po' di luce sulle cose mancanti. Grazie
Guido Chiarin dice
Più che un commento, la mia è una curiosità relativa alle Suore del policlinico S.Marco, ossia a quale ordine religioso appartenevano e sino a quale anno esse diedero il loro servizio al sudetto policlinico. Ho letto da qualche parte che si trattava delle suore Mantellate Serve di Maria, per favore, potete confermarlo? Grazie
Claudio Pasqual dice
Nel 1953, anno della morte di Gusti Da Pozzo, oltre all’Umberto I° era attiva a Mestre sul Terraglio, avendo aperto nel 1952, la casa di cura Villa Salus, ospedale privato oggi classificato dal SSN; non risulta esservi attualmente un reparto di pneumologia, non so all’epoca. Altro nosocomio cittadino è il Policlinico San Marco, anch’esso privato, ma aperto solo dal 1960. È dunque assai probabile che Da Pozzo sia stata ricoverata proprio all’ospedale Umberto I°.
Giorgio Boccolari dice
Possibile che Gusti Da Pozzo (autrice del libro Il mestiere di morire) morta nel '53 ma ricoverata in un ospedale di Mestre nel '52 e affetta da TBC sia stata ricoverata all'Umberto I° e solo dopo trasferita a Saccasessola?
Claudio Pasqual dice
Gentile Carolina,
allo stato della ricerca non mi risultano né un centro psichiatrico né un cimitero in quella zona. Mi sembra improbabile che realtà come queste potessero aver trovato posto nel territorio di Bissuola.
carolina dice
Qualcuno di voi sa se nel 1850 c’era una struttura psichiatrica dove attualmente ce ristoart al parco bissuola?
Antecedente a quella data 1700/1800 addirittura un cimitero?
Umberto Vio dice
Ma visto come sono andate le cose, io avrei riconvertito il monoblocco in: parcheggio la parte interrata, uffici del comune, un paio di piani e direzionale ed abitativo il rimanente. Il giardino trasformato in un bel parco pubblico. Il luogo è inoltre dotato di ottimi collegamenti, non come l’attuale ex “Carbonifera” praticamente senza servizi pubblici.
Un luogo che ha conosciuto sofferenza, ma anche gioie non andava raso al suolo e lasciato là per tutto questo tempo.
Mestre perde un’altra occasione per riusare quello che c’è.
Cordialmente Umberto.
Dario dice
Molto interessante e dettagliata questa storia dell’ospedale di Mestre.
Complimenti a Claudio Pasqual!
In questi ultimi giorni, il progetto è stato riaperto…. vedremo che succederà ora.