di Filippo Benfante
Orso di peluche giallo, con parte del muso, petto e zampe bianche. Mancano gli occhi, che erano dei bottoni bicolori, neri e marroni. Non saprei dire quando abbia perso il secondo, ma nei miei ricordi gliene è sempre mancato uno. Sulla testa e sul dorso, tracce di bruciature lasciate da una stufa elettrica con resistenze a vista, colpa di un’asciugatura che per qualche ragione andava conclusa al più presto.
Alla scuola elementare, sarà stata la seconda o la terza? Tema: “Il tuo giocattolo preferito”. Qualche tempo dopo avrei scoperto che poteva andare peggio, per esempio “La tua domenica” o l’ancora più temuto “Tema libero”. Del giocattolo bisognava fare anche un disegno. Forse per questo, dopo momenti di quel mortificante imbarazzo dei bambini, ho deciso che sarebbe stato questo orso. Su due piedi gli attribuii non solo una supremazia tra i miei giochi giustificata solo dalle sue linee semplici, ma anche un nome che mai gli avevo dato – una consegna insinuata dalla maestra o lo zelo del refrattario diventato collaborazionista?
Tornato a casa, le solite domande su com’era andata, e mostrare il quaderno. La reazione di mia mamma fu – così nel mio ricordo – incredula e un po’ indispettita. Lei che conosceva bene i miei giochi si era accorta della mia prima – prima? – bugia “pubblica”: no invenzione, no licenza letteraria, ma bugia alla maestra.
Chissà se mia mamma ricordava, come ricordo ancora io, quella conversazione, quando ha messo in solaio l’orsacchiotto, insieme a molti altri: soldatini, lego, playmobil… la fatica di separarsi dalle cose dei bimbi. Oggi sono felice che siano andati quasi tutti allegramente dispersi nelle mani dei miei nipoti, prima che a me toccasse di svuotare e chiudere quel solaio. Resta solo lui. Una conferma di quella antica usurpazione? Sia come sia, per ora si trova nella stanza di mio figlio, sotto una montagna di altri pupazzi.