di Filippo Benfante
Pubblichiamo l’intervento tenuto da Filippo Benfante il 18 gennaio 2012, al terzo incontro del ciclo “Insegnare la storia, trasmettere la memoria, oggi” organizzato dall'Anpi di Venezia e coordinato da Ruggero Zanin.
1. Ho deciso all’ultimo momento quale sarebbe stato il titolo del mio intervento. In effetti un doppio titolo sarebbe stato utile anche per me: L’orco della fiaba, o gusto per il lavoro ben fatto. Marc Bloch concludeva così l’introduzione al suo Apologia della storia o Mestiere di storico, scrivendo che è “il memento di un artigiano che ha sempre amato meditare sul proprio compito quotidiano, il taccuino di un operaio che, pur avendo a lungo maneggiato tesa e livello, non si crede, per ciò, un matematico” (p. 35, citerò sempre dalla vecchia edizione Einaudi pubblicata a partire dal 1969 nella collana “Pbe”).
2. Anche questo ciclo di incontri ha un doppio titolo: “Insegnare la storia, trasmettere la memoria, oggi, ovvero: Il senso della storia come kit di sopravvivenza per le giovani generazioni”. Mi soffermerò sull'“insegnare la storia”, benché abbia più pratica del ruolo di studente che non di quello di insegnante, e sul “kit di sopravvivenza”. Lo faccio pensando alla scuola secondaria superiore, non solo perché è da lì che proviene l’invito a incontrarci oggi, ma anche per una ragione più personale: da circa un anno e mezzo mi guadagno da vivere lavorando come redattore per le nuove edizioni di alcuni manuali di storia.
Mi pare che ci siano due aspetti da tenere presenti.
1) Cosa insegnare? È il problema pratico che si presenta agli insegnanti che hanno a disposizione: un numero limitato di ore (in diminuzione, se non sbaglio); programmi ministeriali che – per quel che ho potuto vedere – aiutano poco a selezionare tra gli argomenti; manuali che ci aggiungono del loro presentandosi come enciclopedici.
2) Come suscitare interesse per la storia? È anche così interpreto la famosa domanda con cui si apre L’apologia della storia, un ragazzo (confesso di aver sempre immaginato un bambino) che chiede al papà: “spiegami a che serve la storia”. Cioè, “papà perché passi così tanto tempo tra libri, carte e ricerche”? perché non fai altro (giocare con tuo figlio magari)?
Allora, come suscitare interesse per una materia che in fondo si porta dietro tanti stereotipi negativi? Dalla polvere all’astrazione, dal “si deve imparare tutto a memoria” all’erudizione, dalla noia cronologica alle diffidenze per l’ideologismo e per i suoi legami tra storia e potere. Tra l’altro, quando ci si incontra in occasioni come stasera, quest’ultimo aspetto forse si tende a dimenticarlo: ci stringiamo attorno alla storia come rifugio e strumento di resistenza, ma in realtà la storia quasi sempre è stata, ed è, al servizio dei vincitori, serve a legittimare il potere, non a contestarlo. E se ci pensate, chiunque, di qualsiasi ideale, di qualsiasi parte politica, potrebbe far proprio il titolo di questo ciclo di incontri.
3. Alla prima domanda non provo nemmeno a rispondere: solidarietà agli insegnanti che il problema pratico lo devono risolvere sul serio ogni anno. Mi concentro sulla seconda che mi sembra altrettanto fondamentale: infatti, come pensare di far entrare in un kit di sopravvivenza qualcosa che non si sente importante, anzi indispensabile, per la propria vita? Partirò allora da un punto già sollevato da Elena Iorio: la passione per la storia, e ve ne parlerò da appassionato.
Per quanto mi riguarda, direi che la mia passione per la storia derivi dalla passione per lo sport, per il calcio e la pallacanestro in particolare. Non parlo delle virtù educative dello sport praticato, dico proprio lo sport seguito da tifoso (metto l’accento sulla passione, lascio da parte discussioni sulla parzialità e sui gusti). I tifosi sono tutti degli storici potenziali: il gusto per la rievocazione di partite e giocatori del passato, le maglie, l’archivio dei risultati, la cronologia, i cimeli, il collezionismo di riviste e di almanacchi. Se ci pensate è una piccola biblioteca e un fondo di documenti che molti hanno in casa (forse più facilmente quando c’era meno calcio in tv).
I tifosi sono anche legati a modelli di racconto storico: pensate ai presagi, di ogni tipo; o alla ricostruzione della sequenza delle circostanze che condizionano un risultato (quando comincia un’azione? e una partita? qual è "l'episodio" determinante); o ancora all’idea dei cicli e della storia che si ripete. Se ai mondiali il primo girone di qualificazione va male, niente paura, anzi auspici: nell’82 poi abbiamo vinto la coppa. Proprio qui, tra l’altro, sta una delle questioni fondamentali della discussione su memoria e storia: tutti vogliono ricordare il brutto girone del 1982; nessuno vuole ricordare tutti gli altri brutti gironi che non ci hanno portato a nulla (e che sono molto di più, e lasciamo stare l’eliminazione diretta del 2010).
Scusate la divagazione. È per dire che, con tutto il rispetto per la scuola e la sua fondamentale importanza, i luoghi di formazione e i fattori che influenzano la formazione sono molti, alcuni inaspettati.
4. Dunque, se me lo chiedessero, risponderei che per me il primo moto di passione per la storia è frutto di un caso. Poi specificherei: gli anni passano per tutti e oggi direi prima di tutto che si tratta di passione per la vita e l’umanità. Meglio che lo dica Marc Bloch: “Il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda” (p. 41).
Uomini e donne in carne e ossa, uomini e donne come noi: avendo sempre in mente che i morti che si studiano nei libri di storia sono stati vivi come noi. C’è un’altra citazione celebre, dalla dedica a Lucien Febvre che apre il libro: “A lungo e concordemente abbiamo lottato per una storia più ampia e più umana”.
Lo dico senza argomentare troppo, caso mai se ne riparlerà. Secondo me, tutte le volte che si può e in tutti i modi che si può, introdurre una dimensione individuale, tenerla presente nella fase del percorso di insegnamento e di apprendimento, è decisivo perché la storia prenda un senso nel kit di sopravvivenza. Intendiamoci su una cosa. Il professor Zanin poco fa ha mostrato i risultati del questionario fatto girare al primo incontro di questo ciclo. La domanda Chi è il vero “soggetto” della storia? prevedeva per risposta: i grandi uomini o i popoli o le classi sociali o i meccanismi tecnico-economici o altro (specificare). E persone come noi, come loro, i ragazzi che hanno risposto al questionario? Non illustri che si trovano impigliati nella storia? Forse ci pensava l’unico che in altro ha specificato “gruppi di individui”. Già qualcosa. Voglio dire che per dimensione individuale non intendo vite private di Hitler, Mussolini e gerarchi nazifascisti, cioè grosso modo l’unico prodotto che passa nelle trasmissioni storiche televisive.
Precisato questo, la dimensione individuale è quella che meglio, mi pare, permette di sviluppare sentimenti di “simpatia”, intesa nel suo senso sociale, di ricerca di affinità, propensione per la condivisione, base per la pacifica convivenza (in un passo Bloch auspicava che l’incontro con il passato fosse “fraterno”). Un approccio individuale permette anche di affrontare la dimensione etica, non parlo di morale ovviamente, ma penso alla "moralità" di cui parla Claudio Pavone nel suo famoso libro sulla Resistenza, Una guerra civile: la questione della scelta. E continuando a pensare ai temi che stanno a cuore all’Anpi che ha promosso questo incontro, mi viene in mente anche il libro di Sandro Portelli sulle Fosse Ardeatine, L’ordine è già stato eseguito, i cui capitoli si aprono con un pezzetto dell’elenco delle vittime: dare il nome di ciascuna vittima, non un anonimo collettivo (spesso una cifra forfettaria) ma singole vicende individuali finite tragicamente.
Mi piacerebbe che di queste cose si ragionasse anche pensando ad altre epoche e ad altri anni del corso scolastico. Non aspettiamo che arrivi il quinto anno delle superiori e il manuale in cui entrano nazifascismo e Resistenza. Pensiamoci anche per gli anni precedenti, per le altre epoche storiche. I nostri compagni del passato ci pensavano: ricorderete che valore aveva per Fenoglio la rivoluzione inglese del Seicento.
5. Un’altra cosa che dice Bloch è questa (l’ha appena ricordata Elena Iorio):
“È uno scandalo che, nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria, il metodo critico non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento […] la storia ha il diritto di considerare tra le sue glorie più sicure quella di avere così, elaborando la propria tecnica, dischiuso agli uomini una nuova strada verso il vero e, quindi, verso il giusto” (p. 122 ed. cit.).
La storia vale soprattutto per il metodo che ha elaborato, che vuol dire cercare le fonti d’informazione, diffidarne, criticarle, incrociarle, non accontentarsi di una sola versione, capire chi la fornisce e perché. Vuol dire anche amore per filologia e per l’erudizione (per me tutt’altro che una sanguinosa offesa).
Bloch parla di un metodo che si pratica nella propria vita: sia in “tempi ordinari” che, forse ancora di più, in tempi di crisi. Due dei suoi libri più noti – ne ha accennato Elena Iorio – nascono dalle esperienze che egli visse nelle due guerre mondiali. Mentre si parla di “senso storico come kit di sopravvivenza”, quale immagine e avvertimento più adatti di quella di Bloch che scrive l’Apologia della storia?
Altre due citazioni per continuare il discorso sul metodo.
1) “Ogni libro di storia degno di questo nome dovrebbe contenere un capitolo o, se si preferisce, una serie di paragrafi, inseriti nei punti-chiave dello svolgimento, il cui titolo potrebbe essere all’incirca: «Come posso sapere ciò che sto per dire?» Sono persuaso che, a leggere queste confessioni, anche i lettori non specialisti troverebbero un vero piacere intellettuale. Lo spettacolo della ricerca, con i suoi successi e le sue traversie, raramente stanca. Il bell’e fatto, invece, provoca gelo e noia” (p. 75 ed. cit.).
2) In un altro scritto (un progetto per una raccolta di articoli) dirà: “S’immaginano lettori capaci d’interessarsi unicamente alla storia fatta e finita. Invece la storia è una scienza in divenire, ed è per questo ch’essa è vivente. Nulla di più appassionante della storia così come si fa, e di più degno d’esser divulgato” (cito da M. Bloch, Progetto di pubblicazione d’una raccolta d’articoli (1933-1934) (?), in Id., Storici e storia, a cura di É. Bloch, introduzione di F. Pitocco, Einaudi, Torino 1997, pp. 304-305).
Allora perché no un po’ di ricerca storica? perché non pensare a insegnare anche “il mestiere di storico”, non solo “la storia”? È con questo spirito che storiAmestre da più di vent’anni collabora con le scuole e i servizi educativi, anzi è nata proprio dall’incontro tra persone appassionate di ricerca storica e alcuni insegnanti del Movimento di cooperazione educativa.
6. Chiudo con qualche considerazione alla rinfusa.
La prima parte da una domanda banale: dopo tutto questo discorso, dove la mettereste L’apologia della storia nella scuola? Nei manuali? Di norma, lo dico sulla base di questa mia modesta recente esperienza lavorativa, non ci sta: non c’è uno spazio previsto. Perché il manuale di storia, a differenza di quanto consigliava Bloch per evitare la noia, “si presenta come bell’e fatto”. La tentazione di passare all’argomento “ma il manuale di storia è un libro di storia?” è forte, ma mi limito a una questione più ridotta: “il manuale di storia è un libro”, cioè un libro solo; partendo da questa premessa riesce a far praticare il consiglio di incrociare e confrontare le fonti? Certo, tra i compiti degli insegnanti c’è quello di confrontare e saggiare i diversi manuali sul mercato prima di adottarne uno; ma i ragazzi? caso mai esercizi fuori dal manuale, attività “extracurricolari”? Lo dico con un imbarazzo, perché non è possibile che il discorso finisca sempre sul “di più”, sul fuori programma, come se a svolgere il programma non ce ne fosse abbastanza.
L’ultima cosa che voglio dire, e su cui mi interrogo, è questa: non è che si chieda forse troppo alla storia? Quando si pensa a un kit di sopravvivenza non tanto delle nuove generazioni direi, ma degli ideali democratici, della libertà, dell’aspirazione all’uguaglianza e alla pacifica umana convivenza, forse le altre discipline che si insegnano a scuola sono meno investite? meno della storia? e la filosofia? o la letteratura? o le scienze? Lo slogan dovrebbe essere “brave persone di tutte le discipline unitevi”. Ed è un bene chiedere aiuto e prestarsene mutualmente.
Venendo qui pensavo prima di tutto alla buona letteratura: sapendo che su tante delicate questioni che sono care all’Anpi, per esempio dai caratteri del fascismo alla Resistenza, dalle leggi razziali in Italia alla Shoah, la buona letteratura è arrivata a dire cose fondamentali molto prima della storiografia; e sapendo quanto la riflessione sulla storia deve alla letteratura.
Avendo ascoltato l’intervento del professor Cermel sulla costituzione italiana aggiungo ovviamente il diritto, possibilmente democratico (tocca sempre specificare). Torno su un punto del suo intervento, quando diceva che negli ultimi tempi (anni) abbiamo ascoltato insistite invocazioni di un pezzetto dell’articolo 1, cioè “La sovranità appartiene al popolo”; ma, ha fatto notare Cermel, questa è una citazione tronca, perché omette l'importante specificazione che dovrebbe tenere a bada ogni deriva populista, cioè che il popolo la sovranità “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ecco un esempio di applicazione di un metodo che appartiene al mestiere dello storico: 1) citare come si deve; 2) quando si leggono o ascoltano citazioni di seconda mano, meglio verificare sull’originale.
Post-scriptum
Aggiungo a queste note una minima bibliografia, tutte cose brevi che ho letto o riletto per pensare a cosa potevo raccontare il 18 gennaio, nello spirito già indicato da Elena Iorio, di offrire qualche consiglio di lettura, e quello richiesto dagli organizzatori, di mettere a disposizione qualche materiale buono anche per la didattica.
Comincio con il primo e terzo saggio di Gigi Corazzol in Pensieri da un motorino. Diciassette variazioni di storia popolare, “Quaderni di storiAmestre”, 6 (2006). Parlano di scuola e storia, risalgono ai primi anni Ottanta, ma direi che vanno ancora benissimo. E il vero consiglio è di leggere tutte e diciassette le variazioni.
Nel Quaderno da cui siamo partiti questa sera, cioè Bloch notes. Domande e riflessioni nell’anniversario della morte di Marc Bloch (1944-2004), “Quaderni di storiAmestre”, 3 (2005) segnalo in particolare il saggio di Luca Pes, Elogio della ricerca, pubblicato per la prima volta in “Altrochemestre. Documentazione e storia del tempo presente”, 2 (1994) e per questa nuova edizione completato da un bel Postscriptum.
Un altro articolo che tengo sotto mano quando penso a queste cose è quello di Sandro Portelli, Il processo al Novecento, “La rivista del manifesto”, 13, gennaio 2001.
Mi fa piacere segnalare ancora:
Alberto Cavaglion, Sui vuoti di memoria, in Vite di carta, a cura di Quinto Antonelli e Anna Iuso, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2000, pp. 217-223;
Sabina Loriga, Negli interstizi della storia, in Microstoria. A venticinque anni da L’eredità immateriale, a cura di Paola Lanaro, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 69-77.