di Mirella Vedovetto
La scheda preparata da Mirella Vedovetto inaugura la nuova rubrica del sito di storiAmestre: letture.
Una mattina, si erano concluse da poco le mie ferie di agosto, mentre andavo a lavorare mi era venuto il desiderio di leggere qualcosa che parlasse del mondo del lavoro dal punto di vista dei lavoratori: un’inchiesta, interviste, un racconto biografico… Ho chiesto un consiglio e mi è stato suggerito Operaie di Leslie T. Chang, edito in italiano da Adelphi nel 2010 (l’edizione originale è del 2008).
Ho iniziato a leggerlo a settembre. Sono arrivata a metà e poi l’ho lasciato sul comodino per diverso tempo, senza più aprirlo. Solo in questi ultimi giorni, a fine novembre, l’ho ripreso in mano e finito.
Il consiglio è stato buono anche se la lettura si è rivelata difficile: prima di tutto per il fatto che l’autrice racconta storie reali di uomini e donne, soprattutto donne, sottoposti a condizioni di lavoro e di vita massacranti; un altro motivo di difficoltà era dato dal sentirmi coinvolta nelle vicende raccontate. L’inchiesta racconta storie ambientate in una città industriale della Cina ma la distanza, culturale e geografica, si è rivelata molto più breve di quanto avessi immaginato. Spesso l’ho dimenticata. Persone che conosco mi hanno raccontato di orari di lavoro impossibili da sostenere, di ferie inesistenti, di ritmi non umani e della precarietà del posto di lavoro. Anche io, in seguito ai vari lavori precari che ho svolto negli anni, mi sono trovata in realtà difficili da sopportare. Non sono estranei nemmeno il senso di solitudine, la mancanza di condivisione con i colleghi, la competizione che emergono dall'inchiesta.
L’autrice è Leslie T. Chang, nata negli Stati Uniti da una famiglia di immigrati cinesi, che ha vissuto per alcuni anni in Cina come corrispondente del Wall Street Journal. In quel periodo ha incontrato di persona, in maniera ricorrente, le donne di cui racconta le vicende lavorative e di vita. Le vedeva dopo il lavoro, nei bar o a casa, si sentivano al telefono o per email. È stata anche ospite della famiglia di una delle ragazze protagoniste del libro, nel villaggio di campagna da cui era partita per Dongguan, il luogo dove si svolgono queste vite di operaie.
Dongguan è una città industriale dove migrano milioni di persone dalle campagne di tutta la Cina. È un agglomerato di industrie in continua espansione, la maggior parte delle quali producono per marchi occidentali. Due i motti che la rappresentano: “edificare la città, costruire le strade, riqualificare le montagne, incanalare i fiumi” e “un grande passo all’anno, una nuova città in cinque anni” (p. 51).
È nota anche come centro di prostituzione. Le migranti arrivate a Dongguan, troveranno lavoro soprattutto come operaie nelle fabbriche ma potranno anche fare le prostitute nei karaoke bar (dove si può lavorare molte meno ore, guadagnando molto di più).
L’autrice a Dongguan aveva la possibilità di entrare in contatto con milioni di ragazze, ognuna con la sua storia, ogni storia con la sua importanza. Una prospettiva paralizzante, afferma. Le persone con cui infine stabilì un legame più solido furono quelle che “percepivano l’importanza della propria storia e capivano come mai volessi conoscerla” (p. 35). La sua inchiesta racconta in maniera più approfondita e articolata la storia di due ragazze, ma sullo sfondo appaiono decine di altri incontri e testimonianze.
In Operaie l’autrice include anche la ricostruzione della storia della sua famiglia, “a mano a mano che le mie conoscenze aumentavano scoprivo delle analogie” (p. 123): anche suo nonno infatti, un secolo prima, era un emigrato, negli Stati Uniti e della famiglia rimasta in Cina a lei non era mai stato raccontato molto.
Torna al villaggio che il nonno aveva lasciato da giovane nel 1916 e questo le permette di ricostruire, attraverso le testimonianze delle persone che incontra, pezzi del passato della sua famiglia e della Cina del XX secolo.
Accanto all’indagine sulle operaie migranti, svolge così anche quella sui suoi antenati.
Di seguito mi soffermo solo su alcune delle tematiche che emergono dalle storie di vita raccontate nel libro. Sono le parti che ho annotato durante la lettura. Tralascio le conclusioni e le considerazioni dell’autrice e numerosi aspetti approfonditi nell’inchiesta (concentrata in 398 pagine nella versione italiana). Si parla infatti anche dei modi in cui le migranti cercano e selezionano un possibile marito, delle condizioni di lavoro dei migranti, delle scuole dedicate all’apprendimento dell’inglese; si accenna inoltre all’arretratezza della burocrazia e dei sistemi di trasporto e ad altro ancora.
Quelli di seguito sono gli argomenti sui quali mi sono soffermata perché in trasparenza mi hanno ricordato, per lievi sfumature e in una condizione meno estrema, la realtà a me conosciuta. Mi hanno dato modo di rileggere esperienze vissute in prima persona o raccontate da persone a me più o meno vicine.
Migranti
I giovani che migrano a Dongguan “sono l’élite delle campagne. Sono giovani, meglio istruiti e più intraprendenti di quelli che restano al villaggio” (p. 21). Secondo un’indagine demoscopica, i motivi principali che spingono questi ragazzi a partire sono, oltre all’aspetto economico, il desiderio di “conoscere il mondo”, di “crescere a livello personale” e di “acquisire nuove competenze”. Spesso il motivo principale per cui partono non è la povertà, ma l’“assenza di cose da fare: i terreni sono piccoli e gestiti senza difficoltà dai genitori, le cittadine più vicine offrono poche opportunità professionali”. I racconti di molti migranti iniziano così: “A casa non c’è niente da fare, quindi sono andato via” (p. 23).
Nonostante la popolazione di Dongguan sia formata da migranti che trascorrono la maggior parte del loro tempo nelle fabbriche, la politica li ignora, non tiene sotto controllo le condizioni di lavoro, ne affida la gestione “all’autodisciplina delle aziende” (p. 41).
A metà degli anni Novanta nelle città industriali della Cina meridionale iniziano a diffondersi riviste dedicate ai migranti. Vi si leggono consigli su come cercare lavoro, su questioni legali, su come rapportarsi agli altri, vengono raccontate storie di persone che avevano avuto successo nella loro carriera lavorativa o avevano subito umiliazioni e fallimenti. Nemmeno in queste riviste si accenna mai a un intervento da parte del governo. Si raccontano storie di “angoscia e smarrimento. Descrivevano un mondo in cui ci si frodava a vicenda e non si faceva nulla per aiutare chi era solo e disperato. Non caldeggiavano interventi sulle leggi o nei comportamenti, né facevano menzione del Partito Comunista. Parlavano di come sopravvivere nel mondo reale” (p. 69).
La campagna rimane la terra cui fare ritorno se la vita da migrante non andrà bene. È il luogo dove rimangono a vivere i genitori con i fratelli più piccoli o la moglie o dove si lasciano i figli ai nonni. Al villaggio si può fa ritorno anche in occasione del capodanno, unico periodo di ferie in cui vengono sospese le attività lavorative.
Il ritorno è un viaggio straziante in treno. Può durare anche intere giornate e si rischia di non trovare posto, infatti le persone si spostano tutte negli stessi giorni in occasione di queste festività.
A differenza degli anni Ottanta e Novanta, le migranti non tornano più ai villaggi per sposarsi e creare la propria famiglia. Sempre più spesso rimangono a vivere nella città di adozione.
L’emigrazione rappresenta la principale fonte di reddito dei villaggi: chi lavora nelle fabbriche manda alla famiglia rimasta in campagna parte del proprio stipendio e quando tornano ai villaggi per le festività, sono i giovani a dominare la vita del villaggio proprio grazie all’autorità acquisita attraverso il denaro.
I genitori rimangono in contatto con i figli a Dongguan tramite sporadiche telefonate. Cercano in qualche modo di influenzare le scelte dei ragazzi, si oppongono come possono ai loro continui cambiamenti di lavoro, temono che rimangano disoccupati e non possano più mandargli parte dello stipendio. “I genitori dei migranti non ci azzeccavano mai” (p. 122), non conoscono e non capiscono le dinamiche del lavoro in città. Spesso i figli mentono, non dicono ai genitori che si spostano da una fabbrica all’altra perché si opporrebbero. I giovani a Dongguan sono in continuo movimento, cercano migliori condizioni di lavoro, vogliono fare carriera.
Sistema scolastico
Le necessità dell’economia cinese mutano tanto rapidamente che il sistema scolastico non riesce e non tenta nemmeno più di tenersi al passo. In città prosperano gli istituti privati. Si tratta di corsi che non trasmettono un quadro completo di conoscenze ma insegnano agli allievi quel tanto che basta per sapere cosa dire durante i colloqui e farsi assumere in assenza di una vera qualifica.
Il sistema scolastico tradizionale è basato sulla competizione, sui voti. Solo l’11% degli studenti riesce ad accedere all’università dopo aver superato i numerosi esami di selezione. Gli altri studenti accedono alle scuole professionali, nei villaggi di campagna, e le vivono come un parcheggio in attesa di avere l’età per poter migrare a lavorare nelle fabbriche. Anche se le cose stanno cambiando, scrive Chang, l’istruzione rimane uno degli aspetti più arretrati della società cinese.
Le numerose scuole private a Dongguan sono frequentate dai migranti con la volontà di migliorare il proprio potere contrattuale. In particolare questi corsi si incentrano sul migliorare le capacità oratorie e di vendita: “tutti ci occupiamo di commercio” ricordavano continuamente gli insegnanti “e cosa vendiamo? Noi stessi” (p. 179).
Queste classi sono frequentate soprattutto da donne. Lo studio per loro rappresenta un modo per emergere dalla massa. La Cina riesce anche a “fabbricare persone” (p. 180), nota l’autrice. Vengono insegnate numerose regole di comportamento: come muoversi, come bere, come rivolgersi ai colleghi e ai datori di lavoro, come mangiare, ecc.
Ricerca e annunci di lavoro
Molti degli annunci di lavoro a Dongguan sono solo specchietti per allodole. Le discriminazioni, la regola. Nell’annuncio di lavoro si specificano: sesso, altezza, età e altri dettagli. Per esempio che non verrà preso in considerazione chi è figlio unico. Anche le mansioni ricercate sono estremamente specifiche e si valuta solo chi abbia maturato esperienza nel ruolo. C’è una rigida distinzione tra i sessi nelle fabbriche: a ogni sesso il proprio ruolo.
Proprio per raggirare queste richieste così specifiche le migranti si fanno strada, nel lavoro, con le bugie: durante i colloqui è sempre meglio dire di aver esperienza per il ruolo ricercato, “in questa società quelli troppo onesti vengono fatti fuori” (p. 184), si dice.
Diplomi falsi e documenti falsi sono normale amministrazione. Spesso si falsifica la data di nascita in modo da poter cominciare a lavorare anche prima dell’età legale o per abbassare l’età anagrafica. A trent’anni non puoi più sperare di migliorare la tua condizione lavorativa.
Individualismo e ambizione
Dalle storie di vita raccontate da Chang emerge una forte volontà, da parte delle migranti, di fare carriera. Possono migliorare solo contando su loro stesse. I libri che andavano per la maggiore erano quelli di self-help, di automiglioramento.
Morire poveri è peccato, recita una delle protagoniste del libro, Chunming, durante un suo discorso a delle nuove reclute della società di vendita piramidale in cui lavorava. La stessa ragazza tiene un diario di cui si possono leggere numerose pagine nel libro (una delle parti più toccanti, almeno per me). In quelle pagine Chunming pianifica “la propria fuga dal mondo della fabbrica attraverso un rigido programma di automiglioramento: leggere romanzi, esercitarsi nella calligrafia e imparare a parlare […]. Temeva soprattutto di rimanere bloccata dov’era. Il suo nemico era il tempo, a ricordarle che un altro giorno era passato e non era ancora arrivata dove voleva; il tempo era insieme anche il suo alleato, perché Chunming era ancora giovane” (p. 56). L’obiettivo del programma di Chunming è quello di “diventare un’altra persona”: questa è l’unico modo per fare carriera.
Solitudine e divisione
Min, una delle protagoniste dell’inchiesta, a un certo punto da operaia riesce ad andare a lavorare nell’ufficio della stessa fabbrica. “Scoprì che una persona poteva dire una cosa e pensarne un’altra, e che lei doveva imparare quest’arte. ‘In ufficio sono tutte carine però magari parlano alle spalle’ […] ‘Non puoi avere nemmeno un’amica, una sola, in questo posto’. L’aver superato una barriera di classe inasprì la sua solitudine. Le operaie della catena di montaggio le erano vicine per età ed esperienza di vita, ma lei non apparteneva più a quel mondo. Le colleghe dell’ufficio erano più anziane, molte già sposate, e non avevano nulla in comune con lei” (p. 85).
Tra colleghi impera la diffidenza e manca un senso di comunità. La vita in città è solitaria e incentrata solo su se stessi, sulla propria tensione al miglioramento. L’opposto della vita comunitaria che si conduceva nei villaggi.
L’unico strumento che in città permette di rimanere in contatto con altre persone è il telefonino. Se si perde il cellulare si rimane completamente soli, mantenere i contatti infatti è complicato, le amiche vere sono pochissime, e perdersi di vista la cosa più facile.