di Cristiano Baldissera
Presentiamo alcune pagine del quaderno numero 11, uscito nel gennaio 2012, in cui Cristiano Baldissera, intervistando alcuni suoi vecchi compagni di scuola, ricostruisce la memoria delle occupazioni del liceo classico Marco Polo di Venezia, tra il 1995 e il 2001.
Le occupazioni nel liceo erano una tradizione consolidata le cui origini, agli occhi di uno studente di quegli anni, si perdevano nei decenni precedenti. Questa tradizione verteva su quattro fattori: un luogo preciso (la sede di palazzo Bollani del liceo Marco Polo); un tempo leggermente variabile di anno in anno, ma che coincideva pressappoco con l’inizio di novembre; un gruppo circoscritto di persone, gli studenti di entrambi i generi, appartenenti a tutte le classi e a tutte le sezioni, ma interni all’istituto; infine un rituale formalizzato, scandito da una serie di azioni, di parole, di luoghi e di ruoli che venivano tramandati di generazione in generazione tra gli studenti della scuola.
C’era una sorta di tradizione. Comunque sarebbe stato inaccettabile che il Benedetti occupasse e il Marco Polo no. C’era anche un problema di status symbol delle scuole [ride]. Mentre il Foscarini poteva permettersi di non essere in prima linea, il Marco Polo e il Benedetti erano le due avanguardie. Cioè se non occupavamo noi, il territorio comunale era spacciato, eravamo noi a dare più o meno il segnale d’inizio. (Valentina)
Non mancano nei ricordi degli studenti le figure di parenti stretti, come fratelli maggiori e zii, che avevano partecipato negli anni precedenti alle occupazioni del Marco Polo. Occupazioni in cui vi era stata anche una forte coalizione tra insegnanti e alunni, al punto che in un caso particolarmente memorabile, ricorda Marta: «addirittura il preside, quando era intervenuta la polizia, gli si era contrapposto».
Il mese di novembre coincideva sempre con l’accentuarsi delle manifestazioni di dissenso da parte degli studenti, che sfociavano poi nell’occupazione dell’edificio scolastico. Questo mese veniva a chiudere la metà del primo quadrimestre di studio e forniva quindi l’occasione agli studenti di tirare un primo bilancio dell’anno scolastico, nelle sue dinamiche interne e come riflesso di ciò che stava succedendo nell’ambiente politico nazionale ed internazionale. Queste caratteristiche del periodo fine ottobre – inizio novembre alimentavano il clima di fervore tra gli studenti, con un aumento delle comunicazioni di coordinamento locale e nazionale tra i rappresentanti di istituto, allo scopo di creare un movimento correlato ed il più possibile omogeneo. La scintilla che ad un certo punto metteva in moto tutta l’organizzazione giungeva sia dalle notizie apprese dai mass media sia dal passaparola.
Poi esplode. Allora tutti quanti dicono: «Pare che loro occuperanno, bisogna porsi la questione». «A Roma cosa fanno?». «Bisogna che ci teniamo in contatto con le altre città». Perché se è vero che il Marco Polo era spesso precursore delle occupazioni veneziane, è vero anche che Roma lo era a livello nazionale. Per cui: «Ah, guarda che a Roma dicono che i licei cominciano a muoversi». «Bisogna che facciamo un collettivo, un coordinamento studentesco [sorridendo] e ragioniamo». E allora gli studenti andavano dai rappresentanti e dicevano: «Oh, guardate che qua bisogna decidere cosa fare». Allora la cosa era: vai dalla preside, chiedi l’assemblea d’istituto per discutere quello che sta succedendo, la preside già diceva: «Guardate, non occupate!», noi dicevamo: «Noi non decidiamo, noi siamo rappresentanti, decidono gli studenti, per cui facciamo le votazioni, quello che sarà deciso si farà!». (Silvia)
Un ruolo di primo piano nell’organizzazione e nel collegamento locale e nazionale era riconosciuto ai centri sociali, poiché coloro che gestivano i centri sociali erano spesso gli stessi studenti usciti dalle scuole negli anni precedenti. Essi rimanevano in contatto con gli studenti interni alla scuola e garantivano la vitalità delle comunicazioni essendo inseriti in una rete di portata nazionale. Assodato che sia dall’esterno che dall’interno dell’istituto vi fossero spinte favorevoli alla messa in moto della protesta, i rappresentanti d’istituto facevano richiesta ufficiale per ottenere un’assemblea studentesca, dove presentare le proposte, aggiornare gli studenti sulle motivazioni e in ultimo luogo effettuare le votazioni che avrebbero decretato la volontà generale di mettere in atto, o meno, l’occupazione. Al liceo Marco Polo, in quegli anni, nel momento in cui si fosse giunti alla votazione, l’esito sarebbe stato pressoché scontato.
Era una formalità, perché si sapeva che più o meno tutti volevano andare in occupazione. Io penso di essere stata una delle poche rompiballe che pensava che se bisognava occupare doveva esserci un buon motivo, ma insomma in generale tutti volevano fare questa esperienza. Comunque ricordo che alcuni ragazzi di quarta [ginnasio] avevano paura di mettere il proprio nome in gioco e mi ricordo di aver detto ad un ragazzo «guarda che qualsiasi scelta tu faccia dovresti esserne fiero, tu devi essere fiero della tua scelta, non devi aver paura». (Marta)
La natura democratica di questo tipo di occupazioni, sebbene sottovalutata, riveste un ruolo fondamentale in queste vicende poiché esprime un senso di appartenenza e di riconoscimento – da parte degli studenti della scuola, e anche da parte di presidi e docenti che le accettavano – a un insieme di valori fondanti della nostra società, quali appunto quelli di democrazia e di partecipazione politica. I ragazzi, sebbene spesso immersi in una dimensione ludica e infantile, sognavano di esercitare una propria influenza sulla società.
A votazioni avvenute, quando l’esito era uscito dalle urne degli scrutatori, avveniva l’ufficializzazione con la proclamazione dello stato di occupazione. Poiché l’assemblea si svolgeva nelle ultime ore dell’orario scolastico e quindi si sarebbe conclusa comunque con il termine dell’orario di lezione regolare, il passaggio allo stato di occupazione, dopo la votazione, era immediato e altrettanto immediatamente ne venivano a conoscenza sia tutti gli studenti, favorevoli o contrari, sia l’intero personale della scuola, preside, docenti, segretarie e personale ausiliario. Dice Marta: «C’è una sorta di passaggio pacifico di potere dall’istituzione al ragazzo».
Gli insegnanti assieme al preside sigillavano i loro uffici e tutti gli ambienti ai quali non dovevano avere accesso gli studenti. Si trattava di operazioni svolte con una certa naturalezza data l’abitudine a questo fenomeno ricorrente. Alcuni insegnanti poi decidevano di restare nella scuola nei primi tempi dell’occupazione per comprenderne meglio le ragioni degli studenti e per monitorare lo svolgersi della prima organizzazione.
Tra l’entusiasmo dei più e il manifesto sconforto degli altri, gli studenti si dividevano tra le varie fazioni, apparentemente secondo quello che era stato il loro voto. Chi era stato contrario alla proposta, a parte casi particolari che vedremo a breve, si preparava a raccogliere le proprie cose, tornare a casa e non ripresentarsi più a scuola fino alla fine dell’occupazione, quindi per il tempo di circa una settimana. Ma lo stesso si apprestavano a fare gli studenti raggruppabili in un’altra tipologia e che rappresentavano la gran parte della popolazione studentesca. Erano quegli studenti che sebbene avessero votato a favore, lo avevano fatto solamente per prendersi una settimana di vacanza da qualsiasi attività scolastica che non fosse lo studio domestico.
Quelli che rimanevano, che diverse testimonianze riconoscono nella percentuale di poco meno di un terzo dell’insieme degli studenti iscritti, circa un centinaio di persone, si preparavano ad organizzare l’intera gestione dell’occupazione, la pianificazione dei ruoli e delle attività, in un’atmosfera di grande entusiasmo e di forte identificazione reciproca tra i membri del gruppo.
Dopo un primo momento caotico, seguito alla dichiarazione dello stato di occupazione in cui la maggior parte degli studenti e dei docenti lasciava l’edificio, il gruppo di ragazzi che rimaneva dentro l’edificio si apprestava a ricostituire uno stato di ordine e di controllo, tramite la definizione, per quanto possibile precisa e chiara, dei ruoli e delle attività. L’obiettivo era quello di prendere possesso della struttura, trovare una collocazione utile a chiunque avesse intenzione di assumersi compiti di responsabilità e organizzare un programma di corsi, lezioni, dibattiti, assemblee e attività di vario genere per l’intera settimana che si prospettava davanti. Nel prendere possesso dei luoghi, del tempo e di tutte le attività, l’atmosfera era permeata dall’euforia di vedere la propria scuola come un ambiente completamente nuovo, unita all’emozione degli studenti più giovani di fare una delle prime esperienze di vita autonoma fuori di casa.
Mentre si ipotizzava una durata dell’occupazione, si andava anche elaborando un piano dei lavori e delle attività, si preparavano collettivamente elenchi dei possibili temi da affrontare, si strutturava un orario delle discussioni, si tappezzava la scuola di cartelli informativi. Veniva raccolta una colletta per acquistare tutti i materiali necessari che non era stato possibile reperire all’interno della scuola o recuperare dalle case degli studenti. La colletta serviva anche per acquistare i giornali affinché gli studenti potessero rimanere informati sugli avvenimenti della scena politica generale e, in particolare, sull’andamento delle manifestazioni nel resto d’Italia.
Il ruolo principale di coordinamento e di riferimento per il gruppo di studenti era assunto in primo luogo dai rappresentanti d’istituto perché spesso essi avevano alle spalle precedenti esperienze di occupazione, ma anche perché erano di fatto i responsabili della scuola dopo l’esilio temporaneo del preside. Ai rappresentanti era inoltre attribuito un ruolo di collegamento con i rappresentanti degli altri istituti veneziani e all’interno di una rete più ampia di carattere nazionale. Essi erano il canale privilegiato di comunicazione tra il movimento degli studenti della scuola, il corpo docente e il preside. Il diritto di condividere le proprie idee e di proporre attività rimaneva comunque sempre aperto a tutti i ragazzi.
Un altro gruppo di studenti poi assumeva una funzione di riferimento, in particolare per gli alunni più giovani. Erano gli studenti con una maggiore anzianità, quelli che avevano già vissuto negli anni esperienze analoghe e perciò sapevano come gestire la situazione che nei primi momenti assumeva ancora una forma confusa. Alcuni ruoli in particolare subivano una certa forma di istituzionalizzazione nel corso della prima fase organizzativa, ciò accadeva per i membri del servizio di sicurezza, i responsabili della portineria e i responsabili dei corsi che proponevano le attività.
Come viene testimoniato da tutti gli intervistati, le attività organizzate che si svolgevano durante il periodo di occupazione erano le più varie. Esse spaziavano dall’organizzazione di attività sociali e politiche (lezioni, conferenze, assemblee), a quelle culturali e artistiche (corsi tenuti dai ragazzi, laboratori, concerti).
Un elemento caratteristico in tutte le occupazioni erano gli striscioni con slogan legati alle motivazioni della protesta, appesi fuori dell’edificio affinché fosse chiaro a chi stava all’esterno ciò che stava avvenendo all’interno. La fabbricazione degli striscioni, fatti perlopiù con lenzuola portate da casa dagli studenti, rappresenta una delle attività preferite dagli studenti del liceo classico: le attività creative manuali. Proprio quelle attività che erano assenti nel percorso di studi del liceo classico. Il periodo dell’occupazione era pieno di laboratori per creare manifesti, volantini, il giornalino, pupazzi satirici, murales. Decine di ragazzi che utilizzando qualsiasi tecnica creativa cercavano di produrre oggetti artistici legati ai temi della protesta.
Gli incontri-lezione, proposti in gran numero affrontavano un ricco ventaglio di temi: corsi di poesia e letteratura, corsi di chitarra, di teatro, di disegno, la visione di film e l’ascolto musicale di gruppo, la rassegna stampa dei giornali, oppure lezioni sulle stesse materie che venivano svolte all’interno dei normali corsi scolastici ma che assumevano un significato particolare per il fatto di essere tenute dagli studenti stessi.
Se si intendevano affrontare temi più specifici, e nella maggior parte di attualità, come ad esempio la riforma scolastica, la situazione del Petrolchimico di Marghera oppure la questione palestinese, allora venivano invitate persone autorevoli, considerate esperte degli argomenti presi in considerazione. In questo caso i relatori erano contattati direttamente dai rappresentanti degli studenti, oppure da singoli studenti che, per parentela, affinità o casuale conoscenza, vantavano un qualche grado di confidenza nei confronti degli ospiti.
(Tratto da Cristiano Baldissera, Compagni di classe. Le occupazioni del liceo classico statale Marco Polo di Venezia (1995-2001), Quaderni di storiAmestre, 11 (2012), pp. 21-25.)
Enrico dice
Mi sembra un lavoro interessante da consigliare a chiunque abbia vissuto simili esperienze. Volevo commentare il capoverso “La natura democratica di questo tipo di occupazioni, sebbene sottovalutata, riveste un ruolo fondamentale in queste vicende poiché esprime un senso di appartenenza e di riconoscimento […] a un insieme di valori fondanti della nostra società, quali appunto quelli di democrazia e di partecipazione politica”. Democrazia e partecipazione d’accordo, ma attenzione anche alla kefia, ai rasta, al reggae, al Che, e alle retoriche automatiche. Voglio dire lo spettacolo della politica e della contestazione ricoprono un ruolo importante, non solo come estetiche connesse a una certa partecipazione politica, ma spesso come dominio dell’estetica sulla politica.
saluti
enrico