di Walter Cocco
Il nostro amico e socio Walter Cocco prosegue nella ricostruzione della sua “città invisibile”: il mondo delle fabbriche e del movimento operaio di Arzignano e dintorni. Ci ha spedito le note scritte sulla biografia Vinicio Mettifogo presentandocele con un’avvertenza: “Potrebbe sembrar strano a chi conosce la mia predilezione per la storia di fabbriche e degli operai che le abitano che questa volta voglia parlare di un imprenditore. In realtà si tratta di un imprenditore che, prima di divenir tale, ebbe un altro ruolo, e tutt’altro che marginale, nella storia sociale e politica della Arzignano del secondo dopoguerra”.
Un intellettuale di estrazione operaia
Vinicio Mettifogo, classe 1925, era un tecnico, un progettista delle Officine Pellizzari e nel corso degli anni Cinquanta fu capogruppo comunista nel consiglio comunale di Arzignano e segretario del PCI locale. Proveniva da una famiglia operaia, il padre lavorava alla Pellizzari, ma date le sue spiccate capacità e l’attitudine allo studio egli iniziò a frequentare l’Istituto Rossi di Vicenza, cosa che comportava non pochi sacrifici per la famiglia. Il padre aveva anche ottenuto che Vinicio venisse assunto alla Pellizzari durante i mesi estivi, così poteva contribuire all’economia domestica e allo stesso tempo prendere dimestichezza con il mondo della produzione. Ben presto però, la morte del padre costrinse Vinicio, a diciassette anni, ad abbandonare gli studi e a entrare stabilmente nelle officine arzignanesi.
Si era in piena guerra e il consenso verso il fascismo mostrava le prime crepe; in particolare nelle fabbriche si andava rafforzando l’opposizione al regime che porterà alla sua caduta il 25 luglio 1943. È in questo periodo che Vinicio si avvicina all’antifascismo e comincia a frequentare un gruppo di oppositori a Ponte di Mella1. Le vicende che seguiranno all’8 settembre, la costituzione della Repubblica di Salò e l’occupazione tedesca renderanno la situazione in fabbrica sempre più difficile, specialmente per i giovani delle classi di leva 1924 e 1925 che avevano l’obbligo di arruolarsi nelle file repubblichine o finivano nei campi di lavoro in Germania. L’alternativa era la renitenza alla leva e andare in montagna con i partigiani. Nei primi mesi del 1944 il comando tedesco aveva già inviato un contingente di lavoratori della Pellizzari in Germania, ma ne voleva ancora e minacciò di estrarre a sorte i nominativi da deportare se nessuno si fosse fatto avanti, così ebbe origine lo sciopero del marzo 1944 che ebbe conseguenze drammatiche, come leggiamo nella testimonianza dello stesso Vinicio Mettifogo:
Lo sciopero fu proclamato, se così si può dire, il martedì 27 marzo 1944. In quella lontana mattina il lavoro neppure cominciò. Gli operai, tutti gli operai, si ritrovarono sulla strada. Ogni cosa avveniva dietro una strana atmosfera essendo andata perduta la consuetudine per questo tipo di lotta. Era infatti il primo grande sciopero, la prima aperta azione di massa, che la classe operaia di Arzignano ingaggiava dopo tanti anni di fascismo. E per molti di noi si trattava addirittura del primo sciopero in senso assoluto. I visi seri, i movimenti controllati, il parlar sommesso e conciso, testimoniavano la ferma determinazione collettiva. Nessun gesto non necessario, né una parola di troppo: in tutti, quasi un contegno solenne, una dignità mai conosciuta. Molti operai, usciti dalla fabbrica, tornarono a casa; altri si sparsero a gruppi e salirono le colline. La strada fu presto deserta. I nazisti sostituirono gli operai nel possesso della strada: le pattuglie tedesche si incrociavano a passo svelto, cadenzato. Verso mezzogiorno corse la voce che i tedeschi desistevano dal proposito di deportare una parte dei lavoratori in Germania e il lavoro riprese. Fu quando cominciarono gli arresti che l’officina rinvenne e tutti riacquistarono il senso reale di quanto stava accadendo. In questa situazione tesa, mentre la speranza di veder rilasciati i compagni arrestati alimentava mille immaginose possibilità, improvvisa e sconvolgente, piombò la notizia. Venerdì 30 marzo. Un cinico beffardo maggiore “esse esse” convoca tutti i lavoratori nel cortile dell’officina. Dall’alto della terrazza che corre normalmente all’ingresso, parlando un feroce tedesco, grida [che] fra gli arrestati, Carlotto Umberto, Cocco Luigi, Erminelli Cesare e Marzotto Aldo, sono stati condannati a morte mediante fucilazione. Dopo la breve pausa necessaria perché un altro graduato “esse esse” traducesse con tono inespressivo le sue impossibili parole, il maggiore riprende a parlare: – La sentenza è già stata eseguita! Poi ancora parlò, parlò a lungo ed era come se continuamente ripetesse: La sentenza è già stata eseguita! Respiravamo a fatica e il cuore batteva sconvolto nel tumulto della disperazione. Un plotone “esse esse”, forse cinquanta, era schierato a sbarrare l’uscita con le automatiche pronte a sparare. Se avessimo tentato un gesto di ribellione sarebbe stato il massacro. Lentamente, a testa bassa, trattenendo il pianto che serrava la gola perché i tedeschi non vedessero, rientrammo nei reparti. E fu quella la nostra più triste giornata. La vita dell’operaio, del proletario, non è generalmente ricca di avvenimenti singolari: si svolge secondo una trama semplice fatta di fatica, di preoccupazioni, di speranza, di lotta. Così, la vita di questi nostri compagni, si confonde per lungo tratto con la storia dell’officina, con la storia degli uomini che nell’officina lavorano e vivono. È la vita umana propria dell’uomo semplice. […] Umberto Carlotto, operaio aggiustatore meccanico del reparto Motori Grossi. Quella mattina sul Ponte del Fiume ammonì che al lavoro si sarebbe tornati quando tutti insieme si fosse deciso di tornare. Per questo fu fucilato. Luigi Cocco, operaio meccanico al reparto Motori a scoppio. Passando per la strada quella mattina così, scherzando, parlò alle filandiere: – Perché non siete già a casa a preparare il mangiare dei vostri uomini? Per questo fu fucilato. Cesare Erminelli, operaio fresatore al reparto “Emme Effe”. […] All’Emme Effe lavoravano e lavorano operai altamente qualificati dal punto di vista professionale e avanzatissimi dal punto di vista della consapevolezza politica. Cesare era uno di loro. Per questo fu fucilato. Aldo Marzotto, operaio tornitore al reparto “Emme Effe”. […] Aldo era direttamente legato all’organizzazione politica clandestina della classe operaia. Era un bravo operaio, Aldo Marzotto, consapevole dei suoi doveri di classe. Per questo fu fucilato. Giuseppe Rampazzo e Giovanni Salvato, operai, lentamente li uccise il campo di concentramento in Germania.
Questo scritto venne pubblicato nove anni dopo le vicende nel foglio Officina e realtà, giornale di fabbrica dei lavoratori del gruppo Pellizzari del 30 marzo 19532, una pubblicazione nata come supplemento del periodico Lotte del lavoro. L’articolo dal titolo Onore a chi cadde in cammino apparve senza alcuna firma, come tutti gli altri articoli, ma Vittoriano Nori ne ha attribuito la paternità a Vinicio Mettifogo3. Non so quali elementi avesse in mano per affermarlo, forse una confidenza dello stesso Mettifogo, di certo quest’ultimo per capacità e cultura avrebbe potuto scriverlo. L’articolo venne ripubblicato l’anno successivo dalla rivista La scuola di Arzignano (legata alla omonima iniziativa culturale e sociale promossa in quegli anni da Antonio Pellizzari), in un numero dedicato al decennale dell’eccidio4. Negli anni che seguirono, questa testimonianza divenne in qualche modo la “cronaca ufficiale” di quella vicenda perché molti autori che scrissero sui fatti della Pellizzari finirono con riprenderne o citarne i vari passi.
L’aver vissuto in prima persona quel dramma spinse il giovane Vinicio a una netta scelta di campo contro il fascismo e influenzò la sua successiva adesione al Partito Comunista. Nell’immediato dopoguerra egli chiese e ottenne di essere trasferito all’ufficio tecnico dove seppe molto presto dimostrare le sue doti di progettista, tanto che l’azienda lo agevolò quando decise di presentarsi da privatista alla maturità scientifica, esame che superò brillantemente, e altrettanto fece accordandogli i permessi per frequentare i corsi di ingegneria prima a Milano e poi a Padova. Le necessità economiche lo obbligarono nuovamente ad abbandonare gli studi regolari, ma questo non gli impedì di continuare a coltivare letture sia scientifiche che umanistiche. Nel frattempo la militanza politica entrò a far parte della sua quotidianità portandolo in consiglio comunale con le elezioni del 27 maggio 1951. Egli era uno dei tre consiglieri comunisti che, insieme ai quattro consiglieri socialisti e ad altri tre consiglieri indipendenti facevano opposizione in un consiglio dominato dalla Democrazia Cristiana (20 seggi). Erano gli anni della guerra fredda, dello scontro ideologico. In questo lembo di Veneto le forze in campo erano così sproporzionate che l’opposizione socialcomunista si riduceva a pura testimonianza, anche se raccoglieva le istanze della classe operaia della Pellizzari che rappresentava buona parte del suo elettorato. È in questo periodo che si consolida una insolita quanto stretta amicizia fra Vinicio Mettifogo e Antonio Pellizzari, il figlio del padrone della fabbrica che era già amministratore delegato e fondatore della Scuola di Arzignano. Molte sono le testimonianze delle lunghe discussioni fra i due dopo il lavoro. Al di là delle differenze sociali e politiche i due condividevano molti interessi e soprattutto condividevano i valori dell’esperienza antifascista e l’idea che la repubblica nata dalla Resistenza dovesse realizzare le riforme che garantissero una maggiore giustizia sociale. Le differenze tra loro probabilmente riguardavano le modalità, i tempi e il grado di redistribuzione delle ricchezze, ma sentivano di far parte dello stesso fronte. Va ricordato che Antonio Pellizzari nel 1946 era stato eletto in consiglio comunale come indipendente nella lista del Grifo, il listone unico che si opponeva alla Democrazia Cristiana e che raccoglieva l’elettorato del Fronte Repubblicano del Lavoro.
Il principio ispiratore su cui Antonio Pellizzari aveva fondato la Scuola di Arzignano era quello di fornire strumenti ai lavoratori per dotarsi di strumenti critici e di arricchimento culturale, così come il lavoro in fabbrica aveva dato un salario e una migliore condizione di vita materiale. Non si trattava di una concessione paternalista, come dichiarò egli stesso:
quando affermiamo la necessità di avvicinare il mondo della cultura al mondo del lavoro noi non pensiamo che il primo abbia solo da dare e il secondo solo da ricevere. L’idea che esista una cultura già tutta fatta e che quando si parla di educazione popolare si intenda semplicemente la diffusione di questa cultura fra le masse è un’idea da dilettanti che non sanno che cosa sia la cultura né cosa siano le masse. La cultura non può entrare nel mondo del lavoro se non trasformandosi essa stessa secondo lo spirito e le leggi del mondo. E trasformazione non significa – altro errore comune – semplice ‘volgarizzazione’ o ‘popolarizzazione’ della cultura, una traduzione in linguaggio per la piazza del sapere dei ‘dotti’, ma adeguazione a una nuova realtà. La cultura popolare non è un ‘regalo’ della cultura alle masse; quando è intesa seriamente, essa costituisce un problema per la cultura stessa, una prova della sua validità e del suo modo d’essere5.
I corsi ebbero una buona risposta da parte della popolazione, in particolare le lezioni di musica, nonostante essi fossero apertamente osteggiati da una parte dell’opinione pubblica conservatrice. Per contro anche fra i comunisti c’era chi vedeva nel progetto di Pellizzari una indebita ingerenza volta a erodere l’egemonia culturale del Partito tra i lavoratori. Non era questa però l’opinione di Vinicio Mettifogo. Nel già citato foglio Officina e realtà scrisse infatti un articolo dal titolo La Scuola di Arzignano6, l’unico firmato con la sigla V.M., nel quale esprime un giudizio positivo sull’iniziativa. Inoltre non avrebbe mai acconsentito che la rivista della scuola riproponesse la sua testimonianza sull’eccidio di Arzignano se non ne avesse condiviso l’attività. Un’ulteriore conferma ci viene da un altro episodio quando, nella stagione 1954-55 Pellizzari cercò di coinvolgere nella gestione della Scuola anche i principali partiti e sindacati – la sua idea era che la Scuola diventasse patrimonio della città e non solo emanazione dell’azienda –, ma ricevette un rifiuto unanime. Tuttavia c’è una grande differenza fra il messaggio inviato da Calearo a nome della Democrazia Cristiana:
Mi pregio informarla che il Partito da me rappresentato, non ritiene, data l’impostazione data alla Scuola, di poter aderire alla richiesta formulata. Tanto per opportuna Sua norma. Ringraziando distintamente saluto. F.to Calearo (della Democrazia Cristiana)
e quello firmato da Mettifogo per il PCI:
Noi seguiamo con attenzione l’attività che la Scuola di Arzignano viene svolgendo in un ambiente ostile, per tradizione, verso ogni iniziativa culturale. La Segreteria della Sezione ha avuto modo di esaminare la portata dell’invito che ci è stato rivolto a partecipare, con un nostro rappresentante, a un Comitato direttivo della Scuola. Pur ravvisando nell’intenzione di costituire un Comitato direttivo a larga base rappresentativa un tentativo per superare un’impostazione, nei metodi direttivi della Scuola, che non condividiamo, è stato deciso di non aderire all’invito in quanto i limiti “consultivi” imposti a poteri del Comitato sono per noi inaccettabili e, comunque, tali da non consentirci di assumere e condividere responsabilità le quali, nella sostanza, ci verrebbero attribuite solo nominalmente. Rimane tuttavia desiderio di questa Segreteria di augurare il più vivo successo e una partecipazione popolare sempre più larga alle manifestazioni della Scuola. Distinti saluti. F.to Mettifogo (del Partito Comunista Italiano)7.
Entrambi declinano l’invito, ma è evidentemente ben diverso il giudizio verso la Scuola.
Una doppia crisi: i fatti d’Ungheria e la morte di Antonio Pellizzari
Alle elezioni amministrative del 27 maggio 1956 la lista comunista conquista quattro seggi, uno in più rispetto alle precedenti amministrative, Vinicio è l’unico del gruppo ad aver esperienza come consigliere comunale e viene riconfermato capogruppo. Ma l’autunno del 1956 fu l’anno della rivolta d’Ungheria e dell’invasione sovietica. La mancata condanna dell’invasione da parte della direzione del PCI e il rifiuto di aprire un dibattito interno al partito dette origine a una frattura che costò molte defezioni tra gli iscritti. Che i fatti d’Ungheria non fossero vissuti come il “tentativo delle forze reazionarie di abbattere il governo del proletariato” neppure dai comunisti arzignanesi lo dimostra quando accadde in consiglio comunale il 17 novembre 1956. Durante la seduta, il sindaco Giuseppe Pizzolato ricorda i recenti fatti d’Ungheria e chiede all’assemblea di rendere omaggio “al sacrificio di migliaia e migliaia di donne e bambini che scontano oggi le conseguenze della brutale aggressione con la deportazione e con la distruzione del focolare domestico”8 e, per la maggioranza, il consigliere Pio Fracasso propone all’assemblea di votare un ordine del giorno di condanna dell’aggressione sovietica e di solidarietà con il popolo ungherese9. Vinicio Mettifogo dai banchi dell’opposizione controbatte all’iniziativa democristiana con il seguente O.d.G.:
Esprimiamo, nello spirito e secondo i principii dell’internazionalismo proletario, il nostro profondo dolore per la gravissima tragedia che ha colpito il generoso popolo ungherese; auspichiamo che le giuste rivendicazioni di base che hanno ispirato, pur tra contraddizioni e incertezze, l’azione rivoluzionaria delle masse operaie e contadine, degli studenti e degli intellettuali ungheresi, possano trovare piena e rapida soddisfazione, affinché la vita riprenda in Ungheria nella libertà, nell’indipendenza e nel socialismo […] esprimiamo l’augurio, che dovrebbe essere di ogni uomo responsabile, che nel mondo riprenda a ritmo intenso il processo di distensione per giungere rapidamente al disarmo e al ritiro di tutte le truppe straniere dai territori nazionali e alla soppressione dei patti militari (Nato e Varsavia); condanniamo infine la bassa ed ipocrita speculazione sui tragici fatti ungheresi che la destra economica conduce e ispira con lo scopo palese di fiaccare e disorientare la resistenza dei lavoratori italiani alle mire egemoniche ed illiberali10.
La dichiarazione non condanna esplicitamente l’invasione sovietica, ma mostra più vicinanza e solidarietà al popolo ungherese che al nuovo corso filosovietico, come venne notato dal consigliere democristiano Calearo nella sua replica11.
I fatti d’Ungheria aprirono una profonda crisi nella coscienza di Vinicio che si allontanò progressivamente dall’attività del partito. Il suo distacco divenne ufficiale il 25 luglio 1957 quando venne pubblicato nel periodico dei comunisti vicentini L’Amico del Popolo un comunicato lapidario: “La Sezione del P.C.I. di Arzignano sente il dovere di informare i lettori e la cittadinanza che il consigliere comunale Vinicio Mettifogo non fa più parte del P.C.I. e non fa più parte del gruppo consiliare comunista, pur essendo stato eletto nella lista del P.C.I.”12. Due giorni dopo, Vinicio presenterà le sue dimissioni con una lettera al Sindaco.
Il consiglio comunale del 19 settembre 1957 dovrebbe ratificare le dimissioni, ma la riunione prende un’altra piega, il gruppo socialista le respinge e invita Mettifogo a ritirarle, il gruppo democristiano e quello laico di Concentrazione Cittadina si associano alla richiesta e Sergio Pellizzari, il nuovo capogruppo del P.C.I. dichiara: “Il nostro gruppo si astiene dal pronunciarsi per non interferire nel voto dell’assemblea”13.
Non vi sono documenti (almeno a me noti) che ci informino sui retroscena della vicenda: è possibile che i socialisti avessero preso l’iniziativa non soltanto in consiglio, ma che avessero contattato personalmente Vinicio per convincerlo a non lasciare il ruolo di consigliere; per la Democrazia Cristiana era una buona occasione per assestare un colpo ai comunisti anche se nulla sarebbe cambiato negli equilibri in consiglio comunale, dato che aveva la stragrande maggioranza; per i consiglieri laici egli rappresentava l’anima non settaria dell’opposizione comunista e forse per gli stessi ex compagni di partito rimaneva una delle persone più capaci e non un nemico, nonostante tutto. Le dimissioni vengono così respinte e Mettifogo riprenderà l’attività di consigliere comunale unendosi al gruppo socialista tenendo il seguente discorso nella riunione del 30 dicembre 1957:
Signori del Consiglio Comunale, sono tenuto a ringraziarvi per il voto che in questa sede avete espresso respingendo le mie dimissioni, voto di cui mi è stata data notizia con una lettera del Sindaco.
[…] Ringrazio anche i miei amici e compagni socialisti per avere accettato la richiesta da me formulata di entrare a far parte del loro gruppo. […] Io non ho oggi impegni di partito ma tengo a riaffermare pubblicamente, da questi banchi, la mia fiducia nella capacità della classe operaia e delle forze laiche e democratiche della nostra Società di ritrovarsi unite, una volta superata questa parentesi di alacri indagini e appassionati dibattiti critici, per prendere il campo, allo scopo di realizzare una alternativa democratica, fondata sugli ideali risorgimentali e della resistenza, al regime clericale, che per il momento detiene ancora, almeno sul piano politico, posizioni egemoniche. […] Da questi banchi continuerò con lealtà a battermi per difendere quelli che ritengo essere gli interessi dei lavoratori e del mio paese14.
Così finisce la sua militanza nel Partito comunista e, nel volgere di poco tempo, anche la sua attività politica, nelle elezioni del 6 maggio 1960 Vinicio si presenterà nelle liste del P.S.I. ma non risulterà eletto e abbandona la militanza per dedicarsi all’attività industriale.
Mentre i fatti d’Ungheria mettevano in crisi le convinzioni di Vinicio, un altro dramma stava per esplodere. La Pellizzari, la fabbrica dove lavorava, di cui l’amico Antonio è da poco succeduto al comando dopo la morte del padre, rivela una crisi di liquidità senza precedenti. Antonio si trova costretto a tagliare alcuni comparti e a licenziare. E prima ancora è obbligato a chiudere forse il suo progetto più caro: la Scuola di Arzignano. Lo scontro sociale si fa durissimo e questo dramma minerà irreversibilmente le condizioni fisiche e psicologiche di Antonio portandolo alla morte prematura nel luglio del 1958.
Non abbiamo a disposizione documenti che possano testimoniare quanto la morte di un amico e la crisi della fabbrica in cui lavorava da quasi vent’anni possano aver influito sulle future scelte di Vinicio, ma non è difficile immaginare che la nuova situazione potesse spingere un tecnico, un progettista di valore a cambiare aria e a tentare di mettersi in proprio. E così Vinicio affitta l’ex filanda Povoleri in località Calpeda, a ridosso del castello di Arzignano. Nei primi tempi, per far quadrare i conti, lavora come progettista su incarico di terzi, ma nel contempo comincia a lavorare a un suo progetto di pompa idraulica e – per produrre le varie parti – si avvale della collaborazione di altri ex tecnici della Pellizzari messisi in proprio. Finirà col dar vita alla società Calpeda con un altro ex caporeparto Pellizzari: Giancarlo Ghiotto.
La filanda Povoleri in località Calpeda ad Arzignano dove nacque l'azienda che prende il nome dalla località
Per gentile concessione di Berica Editrice
Dopo la Pellizzari, la Calpeda
La Calpeda puntò sin da subito a produrre pompe rispondenti agli standard europei più elevati dotandosi di una efficiente organizzazione del lavoro che ne riducesse il costo unitario. Ne ottenne una produzione di nicchia di alto livello qualitativo capace di competere nei mercati internazionali. In pochi anni la Calpeda divenne una realtà industriale di tutto rispetto perché Vinicio si seppe avvalere di giovani tecnici di valore. L’uscita di Ghiotto15 dalla società non fermò la crescita aziendale e, qualche anno dopo, la fabbrica sopravvisse alla prematura scomparsa di Mettifogo avvenuta nel 1973. Sotto la guida della sorella Licia la Calpeda divenne uno dei caposaldi del distretto elettromeccanico di Arzignano – Montecchio Maggiore – Brendola sviluppatosi sulle ceneri della Pellizzari che, insieme al distretto della concia (che territorialmente in parte si sovrappone), furono protagonisti per l’ovest vicentino di quel “miracolo del Nord-est” nell’ultimo quarto del secolo scorso.
La sede della Calpeda a Montecchio Maggiore (altra ex filanda adattata)
prima del trasferimento in quella attuale a Montorso Vicentino
Per gentile concessione di Berica Editrice
L’allontanamento dalla vita politica e l’inizio dell’avventura industriale non significò per Vinicio l’abbandono delle sue convinzioni politiche, della sua vicinanza al mondo del lavoro e il ripudio delle sue origini. Non soltanto assunse un vecchio compagno del sindacato licenziato dalla Pellizzari per il suo ruolo di attivista, non esitò a riconoscere le richieste di aumenti salariali in anticipo rispetto alla sottoscrizione dei contratti nazionali, ma si dichiarò apertamente favorevole allo Statuto dei Lavoratori approvato in Parlamento nel 1970 e creò le condizioni materiali affinché i lavoratori della Calpeda costituissero il Consiglio di Fabbrica16.
In alcuni appunti scritti poco prima della sua scomparsa aveva scritto le seguenti parole in tedesco: “Geschichte – Historia Calpeda” seguite da “Weltanschauung für ewig”, parole che nel volume pubblicato in occasione del cinquantenario vengono messe in relazione alle fasi di sviluppo dell’azienda (Ivi, p. 16). Già il fatto che Vinicio si esprimesse con termini così complessi la dice lunga sul suo spessore culturale e la sua figura è ben diversa dallo stereotipo dell’imprenditore che si è fatto da sé di quegli anni.
Weltanschauung è un termine che non trova un corrispettivo letterale in italiano – è entrata così nei dizionari della lingua italiana, quello della Treccani per esempio – ma può essere tradotto come “visione del mondo” o “concezione del mondo”. E se nel suo appunto Mettifogo si riferisse alla storia della sua azienda come il tentativo di dare una risposta alla sua visione del mondo anche nel rapporto fra capitale e lavoro? Ovvero una impresa molto attenta alla innovazione tecnologica, alla produttività attraverso una efficiente organizzazione del lavoro, ma anche basata su nuove relazioni industriali fondate sul rispetto e l’attenzione verso gli interessi della classe lavoratrice? Una visione certo minoritaria fra la borghesia industriale, ma in qualche modo figlia delle infinite discussioni avute con Antonio Pellizzari e delle crisi personali che aveva vissuto. Purtroppo la prematura scomparsa di Vinicio non ci permette di andare oltre alle ipotesi. Non so se nell’archivio privato di Vinicio esistono altri documenti utili per rispondere agli interrogativi posti, sfortunatamente il tentativo di avere un incontro con i figli di Vinicio non ha avuto successo, forse andrà meglio a qualcun altro.
Vorrei infine concludere con il ricordo di Vinicio Mettifogo espresso da uno dei padri nobili della cultura arzignanese, il maestro Bepi De Marzi che, in un articolo in ricordo di Franco Dal Maso, scrisse:
Arzignano della ricchezza: la Valle del Chiampo delle 300 concerie: i contadini, i montanari divenuti imprenditori. I sindacati addomesticati dal benessere, il partito comunista ispirato dalla severa saggezza, dalla sapienza, dalla nobiltà di un genio locale allevato e specializzato nell’officina Pellizzari, Vinicio Mettifogo, che doveva inventare poi la Calpeda che proseguiva dalla grande industria meccanica17.
Per conoscere l’evoluzione tecnica e industriale della Calpeda è utile leggere il volume Calpeda, una storia lunga 50 anni18, un testo interessante che, seppur scritto ai fini celebrativi, non scade mai nell’agiografia. Il volume non cita esplicitamente il passato comunista di Vinicio, del resto al momento della pubblicazione (2009) erano passati già vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, e gli stessi eredi del PCI scioltosi nel 1991 con la svolta della Bolognina facevano a gara per prendere le distanze dalla loro storia passata.
- Vittoriano Nori, Arzignano nel vortice della guerra 1940-1945, Arzignano 1989, p. 147. [↩]
- La copia che ho consultato in Archivio Pellizzari, Biblioteca Civica Bedeschi, Arzignano (d’ora in poi AP). [↩]
- Nori, Arzignano nel vortice della guerra cit., p. 125 nota 10, p. 126 nota 11. [↩]
- L’articolo venne pubblicato con il titolo La resistenza ad Arzignano nel numero speciale de “La scuola di Arzignano”, a. III, n. 3, 18 marzo 1954; la copia che ho consultato in AP, ora si legge anche in Comitato Giacomo Pellizzari, Gli anni d’oro della cultura di Arzignano. La scuola di Antonio Pellizzari 1951-1955, a cura di Antonio Lora con Vittorio Bolcato, Roberto Negri, Cornedo Vicentino 2019, che riporta la riproduzione anastatica di tutti in numeri de La scuola di Arzignano presenti nell’archivio sopra citato. [↩]
- Intervento di Antonio Pellizzari al Terzo congresso nazionale dell’Unione Italiana della Cultura Popolare (Bari, 7-9 aprile 1955), pubblicato con il titolo Storia e fini di un’iniziativa culturale, in “La scuola di Arzignano”, n. 19, aprile 1955, ora in Gli anni d’oro cit. [↩]
- “Officina e realtà”, 30 marzo 1953, ho consultato la copia in AP. [↩]
- Entrambe le missive, indirizzate al direttore della Scuola di Arzignano in data 25 settembre 1954, sono state pubblicate integralmente in “La scuola di Arizignano”, 19, aprile 1955, ora in Gli anni d’oro cit. [↩]
- Verbale del consiglio comunale del 17 novembre 1956, in Vittoriano Nori, Arzignano impegno pubblico 1945-1990, Arzignano, 1990, p. 45. [↩]
- Ivi, pp. 46-47. [↩]
- Ivi, p. 48. [↩]
- Ibid., “Replica il consigliere Calearo (D.C.) dicendo di aver motivo di compiacersi con i comunisti arzignanesi perché non sono come i gerarchi romani che hanno definito attraverso la stampa i patrioti e combattenti ungheresi fascisti e reazionari. Ricorda che nella prima fase della rivolta magiara la Commissione Interna della Pellizzari, nella quale sono anche rappresentati i comunisti, ha inviato alla rappresentanza diplomatica ungherese in Italia un telegramma di solidarietà e di adesione ai combattenti magiari”. [↩]
- “L’Amico del Popolo. Organo della Federazione vicentina del Partito Comunista Italiano”, 25 luglio 1957; l’ho potuto consultare presso la Biblioteca Civica Bertoliana, Vicenza. [↩]
- Nori, Arzignano impegno pubblico cit., p. 51, le dimissioni non incassano nemmeno il voto favorevole del gruppo comunista, forse l’astensione da parte del gruppo interessato era una prassi e comunque non avrebbe cambiato l’esito della votazione. [↩]
- Ivi, p. 52. [↩]
- Dopo la cessione del suo pacchetto di azioni, Giancarlo Ghiotto si mise in società con il fratello Renzo e diede vita alla Lowara, società produttrice di pompe e diretta concorrente della Calpeda, anche questa in pochi anni avrà una crescita molto rapida e sarà l’altra industria chiave del distretto elettromeccanico che abbiamo descritto. Renzo Ghiotto, che aveva fatto parte del gruppo raccontato da Luigi Meneghello nei Piccoli maestri, era da poco rientrato dall’Argentina dov’era emigrato nell’immediato dopoguerra. [↩]
- Calpeda, una storia lunga 50 anni, a cura di Nicoletta Mai, Edtrice Millenium, Arzignano, 2009, p. 62. [↩]
- Bepi De Marzi, Franco Dal Maso ad Arzignano, nella casa che fu di Antonio Giuriolo, in “I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea”, Istrevi Ettore Gallo, Vicenza 2014, consultabile online. Giuseppe De Marzi, detto Bepi, è un musicista, compositore e direttore di coro arzignanese. Ha fatto parte dei Solisti Veneti ed è stato fondatore e direttore del coro “I Crodaioli” per il quale ha composto alcuni canti che hanno avuto una vasta diffusione internazionale. Franco Dal Maso, ginecologo di fama, divenuto primario del reparto di ginecologia ed ostetricia ad Arzignano negli anni ’70, lo rese uno dei centri di eccellenza per molti anni. Socialista, in prima linea nella difesa dei diritti civili, fu uno dei primi medici a sostenere la legge sull’aborto. [↩]
- Vedi nota 16. [↩]
ruggero dice
Gran bel lavoro. Andrebbe "scritto su tutti i muri" per tracciare l'enorme differenza che contraddistingue questa nostra contemporaneità figlia consumista/capitalista di quel miracolo del Nord-Est sorto sulle ceneri e le deviazioni di questi nobili esempi all'avanguardia (per allora e purtroppo anche per l'oggi). Lascia l'amaro in bocca, quanto la fiammata libertaria degli anni '70 del '900 e fa affermare, con il poeta, "la mia generazione, ha perso" (e fosse stata solo la sua!). Ma stimola anche in me un rigurgito di speranza, quella che "in questo mondo di ladri" tengano duro "un gruppo di amici (giovani!), che non si arrendono mai!" a dimostrazione che si può passare dalle stalle alle stelle senza per questo massacrare i propri ex compagni di "stalla". Buona giornata Ruggero Lazzari alias Roger dal Fosso