di Piero Brunello
Ancora sul Primo maggio: elogio di una canzone.
1. Il ritornello del celebre canto anarchico Stornelli d’esilio dice così: «Nostra patria è il mondo intero, / nostra legge la libertà, / e un pensiero / ribelle in cuor ci sta». La musica è di una canzone popolare toscana (La figlia campagnola), mentre il testo, pubblicato per la prima volta nel 1904, è di Pietro Gori (1865-1911). Con questa canzone Gori elaborò la propria esperienza e quella di tutti i compagni in esilio. Dopo aver dovuto lasciare l’Italia per Lugano, al tempo delle repressioni di Crispi, e quindi, pochi mesi dopo, anche la Svizzera all’inizio del 1895 (eventi che ispirano la sua ancor più celebre Addio a Lugano), Gori visse in Belgio, Germania, Inghilterra e Americhe.
La canzone entrò a far parte del repertorio dell’anarchismo e del movimento operaio in Italia, con qualche leggera variante (“libero” in luogo di “ribelle”). Il ritornello è sempre eseguito da un coro: maschile?
Negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale il ritornello “Nostra patria è il mondo intero” era sentito come un ideale e come uno slogan. Ecco due esempi del significato della canzone e dei sentimenti che poteva provare chi la cantava.
Il primo documento – la tessera del 1920 della Lega proletaria mutilati invalidi reduci orfani e vedove di guerra – protesta contro le celebrazioni ufficiali e militariste della guerra appena conclusa, e chiede di vendicare i morti con l’impegno a impedire nuove guerre, in nome dei diritti dei famigliari dei caduti in guerra e dell’intera Umanità: «Ricordi tu le maledizioni che morendo facevano i compagni sul campo della strage? […] Se ricordi il tuo dovere è quello di proteggere con mezzi e azioni le madri, i padri, le vedove e gli orfani dei caduti ; essi morendo ti hanno lasciato un dovere d’assolvere; la vendetta e la tutela dei loro disgraziati figli; e tu devi farlo; perché se non dimentichi le sofferenze della guerra, non puoi dimenticare i compagni caduti. Conosci tu il tuo mandato e il tuo dovere, per tutto ciò che hai sofferto, verso i tuoi figli ed all’Umanità intera? Devi impedire con tutta la tua forza che il militarismo prepari nuove guerre e nuove stragi; e così operando sarai degno cittadino della nuova Società del Diritto e degli Uguali». L’appello si conclude con un distico che ricorda la canzone di Gori: «La patria comune / È il mondo intero».
Il secondo testo è un articolo di Errico Malatesta uscito qualche mese dopo su Umanità nova con il titolo Amor di patria, in risposta a chi accusava anarchici e “sovversivi” italiani di non amare il proprio paese. «Per noi la patria è il mondo intero: per noi è nostra ogni gloria umana, è nostra ogni umana vergogna», scrive Malatesta affermando il principio internazionalista. E subito dopo: «L’Italia è parte del mondo, e per la sua liberazione noi pur particolarmente lavoriamo, non già perché essa vi abbia maggior diritto degli altri, ma perché qui la nostra azione può essere più efficace, ed anche perché qui è il maggior numero delle persone, parenti, amici, compagni che più intensamente amiamo». Certo, concludeva Malatesta con sarcasmo, i cosiddetti patrioti «vorrebbero che noi li lasciassimo tranquilli a sfruttare i lavoratori italiani, a mangiarsi e digerire in pace questa loro carissima patria, e ce ne andassimo a predicare il nostro internazionalismo ed il nostro anarchismo lontano, lontano, in Papuasia o … al Polo Nord. Allora forse troverebbe che siamo dei buoni patrioti anche noi».
Il canto ricomparve nella Resistenza. Era diffuso tra le brigate che operavano nell’altipiano del Cansiglio, nel Veneto. Nel romanzo I piccoli maestri di Luigi Meneghello, il protagonista e Simonetta accolgono i soldati inglesi a Padova cantando Nostra patria è il mondo intero: seppure con una diversa versione, anche in questo caso il canto si richiama ai diritti dell’Umanità. La strofa è diversa da quella degli Stornelli d’esilio, e dice: «Sono passati gli anni / sono passati i mesi / sono passati i giorni / e ze riva i inglesi». Ed ecco il ritornello: «La nostra patria è il mondo intèr… / solo pensiero – salvar l’umanità».
2. L’origine del ritornello non viene dalla politica, bensì dall’opera lirica, e precisamente da Rossini (1814), che riprendeva un’opera omonima di venticinque anni prima (1788), che a sua volta si rifaceva a un libretto di Carlo Goldoni (1779). Seguiamo quindi le tappe di questi passaggi, cominciando dall’inizio.
La prima volta che compare il verso «Nostra patria è il mondo intero» è nella “commedia per musica” Il talismano di Carlo Goldoni, pubblicato nel 1779. La scena iniziale si apre con una “campagna con tende e baracche ad uso de’ Zingari”; entra il coro e canta: «Oggi qua, domani là: / Nostra patria è il mondo intero / E fondato è il nostro impero / Sull’altrui semplicità».
Fonte: http://www.librettidopera.it
Poco più avanti il coro vanta di saper esercitare l’arte della “impostura” e di sapere “alterar la verità”: in altre parole gli zingari, che non hanno patria e sono sempre in viaggio, sfruttano la credulità altrui, predicendo il futuro.
La strofa venne ripresa tale e quale dal libretto Il turco in Italia, di Caterino Mazzolà, uscito a Dresda nel 1788, e poi stampato a Vienna l’anno successivo e a Napoli e Praga nel 1794 (ma con il titolo Il Musulmano a Praga). Anche qui, stessa ambientazione (tende di gitani), e stesso coro.
Ma fu l’opera buffa Il turco in Italia, musicata da Gioacchino Rossini su libretto di Felice Romani nel 1814, ad assicurare la fortuna del ritornello. Anche quest’opera si apre con il coro di un gruppo di zingari, che dicono di girare per il mondo approfittando della dabbenaggine del prossimo. La metrica è la stessa – una quartina di ottonari – ma il verso «Nostra patria è il mondo intero», che nelle versioni precedenti era il secondo della strofa, diventa il primo, assumendo quindi un maggior rilievo.
«La mia patria è il mondo», scrive Silvio Pellico nel 1838. E poco dopo: «Certo, anche dell’intero mondo posso dire ch’è nostra patria». Scrivendo questo Discorso ad un giovane sui doveri degli uomini, avrà avuto nelle orecchie il coro degli zingari? E, al di là di Silvio Pellico, quanto avrà influito sul cosmopolitismo del primo Ottocento l’inizio dell’opera buffa di Rossini?
Di sicuro Pietro Gori doveva avere in mente Il Turco in Italia quando scrisse il primo verso del ritornello degli Stornelli d’esilio. Del resto la consuetudine di Gori con l’opera lirica è nota: basti pensare all’inno del Primo maggio composto in carcere di San Vittore a Milano nel 1892 su musica del Va pensiero («Vieni o maggio ti aspettan le genti / ti salutano i liberi cuori», eccetera).
Pietro Gori, in conclusione, riprende l’inizio dell’opera buffa di Rossini, ma ne capovolge il significato. Accogliendo l’idea che gli zingari non hanno patria, Gori ribalta infatti lo stereotipo negativo associato a quell’immagine, trasformandolo in un ideale positivo: la fratellanza tra tutti i popoli, la solidarietà tra gli sfruttati, i diritti dell’Umanità.
Fonti
1. Sul testo del coro degli zingari da Goldoni a Rossini: Fiamma Nicolodi, Il turco in Italia: una riserva di memorie, in Affetti musicali. Studi in onore di Sergio Martinotti, a cura di Maurizio Padoan, Vita e pensiero, Milano 2005, pp. 155-167, con bibliografia.
2. Per il testo della canzone, cfr. Canzoni italiane di protesta (1794-1974), a cura di Giuseppe Vettori, Newton Compton, Roma 1974, p. 354; A. Virgilio Savona, Michele L. Straniero, Canti della Resistenza italiana, Rizzoli, Milano 1985, pp. 303-304.
3. Per la tessera della Lega proletaria mutilati invalidi reduci orfani e vedove di guerra, cfr. Gianni Isola, Guerra al regno della guerra! Storia della Lega proletaria mutilati invalidi reduci orfani e vedove di guerra (1918-1924), Le Lettere, Firenze 1990, pp. 166-167.
4. Le altre citazioni da Errico Malatesta, Amor di patria, “Umanità nova”, 24 agosto 1921, in Id., “Umanità nova”. Pagine di lotta quotidiana, prefazione di Luigi Fabbri, Edizioni del Risveglio, Ginevra 1934, I, pp. 192-195 (ristampa anastatica Carrara 1975); Luigi Meneghello, I piccoli maestri [1964-1976], Rizzoli, Milano 2007, pp. 230-231; Silvio Pellico, Discorso ad un giovane sui doveri degli uomini, Giovanni Silvestri, Milano 1838, p. 23.