di Piero Brunello
Ultima strenna del 2016. Presentiamo il testo dell’intervento che Piero Brunello ha tenuto al convegno “La militanza anarchica e libertaria in Italia nel secondo Novecento. Le fonti orali: questioni metodologiche” (Biblioteca Panizzi e Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, Reggio Emilia 19 novembre 2016). Il saggio è dedicato alla memoria di Amedeo Bertolo, morto il 22 novembre scorso.
Alla memoria di Amedeo Bertolo (1941-2016)
1. Comincerei da una piccola vicenda – del resto non esistono vicende piccole, giusto? Nei primi anni Settanta due ventenni, Elis Fraccaro ed Elettra Sivori, sentono parlare di un vecchio anarchico che è stato al confino, un perseguitato politico di nome Luciano Visentin. I due giovani abitano a Marghera, lui in un piccolo paese lì vicino. Lo vanno a conoscere. Elis me ne ha parlato più volte, ma è bello vedere nell’archivio dell’Istituto Internazionale di Storia Sociale di Amsterdam le lettere che Visentin, che allora aveva settantaquattro anni, scrive in quel periodo al suo coetaneo Hugo Rolland.
Visentin rimane colpito sia dal giovane (“da me è stato a trovarmi un giovane molto ben preparato”) sia dalla ragazza (“una buona e brava giovane. Parla poco ma sa riflettere”). Che cosa fa Visentin al primo incontro? Regala al giovane alcune copie di Controcorrente. A distanza di molto tempo Elis ricorda tra i libri in regalo al primo incontro due classici dell’anarchismo, o se si preferisce due libri di antiquariato, entrambi di Kropotkin: La Grande rivoluzione (Gruppo del Risveglio, Ginevra 1911) e Memorie di un rivoluzionario (Casa editrice sociale, Milano 1922). Più avanti Elis farà a sua volta conoscere a Visentin la rivista A e i compagni suoi coetanei che la promuovono. Visentin stava scrivendo i proprio ricordi. Approfondendo la conoscenza e la famigliarità, Elis registra un’intervista1.
Come si può definire tutta questa vicenda? Direi rito di iniziazione, che comprende a) l’incontro personale, b) il dono di scritti che rappresentano la continuità del movimento, c) la trasmissione della memoria dalla generazione dei nonni alla generazione dei nipoti per linee maschili.
È così che avviene tra gli anni Sessanta e Settanta l’incontro di giovani e anarchici anziani che hanno vissuto il periodo considerato “classico” del movimento.
Raccontando il proprio percorso politico, Nico Berti intervistato da Mimmo Pucciarelli ricorda di essersi avvicinato all’anarchismo andando a conoscere Tullio Francescato unico anarchico di Bassano. Che cosa fa Francescato? Gli dà “un po’ di giornali anarchici” (a memoria di Berti, copie di Umanità nova e “forse” di Volontà e “qualche libro e degli opuscoli di Pietro Gori”). Siamo nel 1961, Francescato aveva passato i sessant’anni e Berti ne aveva diciotto2.
Massimo Ortalli ha raccontato di quando si recò per la prima volta a Carrara in occasione del Congresso dell’Internazionale delle Federazioni Anarchiche nel 1968. Si presentò ben vestito. Fu accettato grazie alla presentazione di due compagni che non lo conoscevano ma che si fidavano di lui perché conoscevano suo padre e suo zio. A Carrara incontrò tre generazioni, ma tra “vecchie barbe” e “giovani cappelloni”, con chi si identificò? Con i primi. “Nella mia acerba ed entusiasta ingenuità – scrive Ortalli –, pensai che da vecchio avrei voluto essere come loro”3.
Nell’estate 1972 Claudio Venza e Clara Germani registrano lunghe interviste a Umberto Tommasini, friulano vissuto a Trieste a parte gli anni di confino, di esilio e della guerra di Spagna. Ne nascerà un libro: anche qui due giovani anarchici conoscono un vecchio anarchico, e questo coincide con la ripresa del movimento a Trieste. Oltre al dialogo a voce, importanti sono i giornali e “i numerosi opuscoli di propaganda” che Tommasini, come ricorda Venza, “diffonde costantemente”4.
L’intervista ad Amedeo Bertolo raccolta da Mimmo Pucciarelli ricorda una situazione simile a Milano, quando negli anni Settanta il gruppo di giovani prende a punto di riferimento l’anziano Pio Turroni, che lascerà la sua biblioteca, la sua raccolta di periodici e il suo archivio personale a quello che diventerà il Centro studi libertari-Archivio Pinelli5.
Emblematica, per citare un ultimo esempio, la riapertura della Biblioteca libertaria Armando Borghi a Castelbolognese nel 1973, quando giovani militanti incontrano vecchi anarchici come Nello Garavini, Aurelio Lolli e Giuseppe Santandrea, gli stessi che quella biblioteca l’avevano fondata durante la Prima guerra mondiale6. Giampiero Landi, uno dei ragazzi di allora, ricorderà la casa di Nello e Emma Garavini come “un luogo di incontro e di discussione per decine di giovani”: fu in quel periodo, nei primi anni Settanta, che Garavini portò a termine un’autobiografia7.
2. Prima di procedere dirò che ci sono molti modi per fare storia orale dell’anarchismo, così come sono molto vari gli impieghi della storia orale nelle scienze sociali. Mi limito a riportare qui tre esempi, tre modelli tra cui scegliere.
Paul Avrich (1931-2006), ebreo russo che insegnò Storia al Queen’s College a New York, raccolse per circa trent’anni testimonianze orali di anziani militanti anarchici nati perlopiù a fine Ottocento, quelli che avevano cioè dato vita alla “fase classica del movimento” tra la Comune e la guerra di Spagna. Nel libro Anarchist Voices. An Oral History of Anarchism in America8, Avrich pubblica 180 testimonianze: non sono interviste ma autobiografie che hanno al centro la militanza.
Nei primi anni Novanta Claire Auzias pubblica il libro Mémoire libertaires. Lyon 1919-19399 basato su interviste a diciotto militanti libertari sulla loro attività politica e sindacale, oltre che sulla loro vita famigliare, professionale, associativa e culturale a Lione tra le due guerre. A differenza di Avrich, Auzias non si propone di presentare storie di vita ma di ricostruire pratiche sociali, per cui nel suo libro ci sono paragrafi sulla limitazione delle nascite, sul vegetarianesimo, sulle pratiche educative, sui gruppi culturali e così via10.
Una decina di anni dopo Mimmo Pucciarelli e Laurent Petry intervistano sei esponenti dell’anarchismo europeo: a differenza di quelle pubblicate da Avrich, si tratta di interviste in profondità a uomini e donne con cui Pucciarelli scrive di aver condiviso un percorso e lunghe discussioni nell’ultimo quarto di secolo11.
Queste ricerche hanno in comune hanno alcuni aspetti, che Avrich nella sua introduzione mette bene in rilievo: a) le interviste sono raccolte con atteggiamento di simpatia se non di complicità politica; b) illuminano la varietà delle posizioni dell’anarchismo; c) restituiscono alla storia dell’anarchismo la sua tonalità umana, rispondendo alle deformazioni ostili e polemiche con cui il movimento viene rappresentato. Su questi aspetti avrò modo ora di riflettere, aggiungendo un’ultima osservazione relativa all’importanza dei rapporti faccia a faccia nella trasmissione dell’anarchismo: importanza dovuta al numero relativamente esiguo dei militanti, al retaggio cospirativo e alla fiducia nell’azione individuale come mezzo di trasformazione sociale. (Gli anarchici che s’incontrano parlano di conoscenze comuni e la domanda sottesa alle conversazioni non tanto è “in che cosa credi?” bensì “chi conosci?”). Voglio precisare che mi limiterò alle interviste raccolte sulla base dell’empatia, anche se il tema di “chi intervista chi” meriterebbe di essere esaminato approfonditamente.
3. L’anarchismo si presta particolarmente a essere raccontato per scansioni generazionali12, ma io vorrei soffermarmi sui giovani degli anni attorno al Sessantotto da cui sono partito: non è forse vero che da Tucidide in poi ogni storico dovrebbe raccontare la storia della propria generazione?
A metà degli anni Cinquanta Giovanna Caleffi Berneri scriveva che per l’anarchismo in Italia era “una menzogna parlare di movimento”, caso mai si doveva parlare di “una piccola setta”13. Dieci anni dopo – è Amedeo Bertolo a ricordarlo in un’intervista – a Milano i vecchi anarchici erano una quindicina in tutto che si limitavano a trovarsi la domenica mattina a parlarsi tra loro: “Una specie in via di estinzione”14. Qualche anno dopo ancora quegli stessi anarchici appaiono dei sopravvissuti. Visentin (lo sappiamo dalle lettere a Hugo Rolland) non vede più nessuno dei suoi coetanei: ogni tanto riceve la visita di Galliano Rossato, che l’aveva ospitato a Parigi prima degli anni di confino. Quando Claudio e Clara intervistano Tommasini, il movimento anarchico a Trieste “era ridotto a pochissime unità”, come ricorderà Venza a quasi trent’anni di distanza15. È in questo contesto che avviene l’incontro tra generazioni, quando i giovani che si affacciano all’anarchismo sentono che tutto ciò che d’importante è accaduto nella Storia è successo prima di loro e sostanzialmente si è chiuso con la Guerra di Spagna. Non è la prima volta del resto nella storia dei movimenti (e delle rivoluzioni, e non solo) in cui i giovani sentono di vivere un’epoca di prosa e rimpiangono la perduta età della poesia.
I giovani compaiono così sulla scena pubblica come nipoti che cercano nonni, perché i padri non ci sono (tutti parlano di “salto generazionale”16), e quei pochi che potrebbero avere l’età dei padri vengono ignorati o sentiti come fratelli maggiori o zii. Ecco come decenni dopo i giovani milanesi di allora presentano Pio Turroni: “In realtà era più un nonno che un padre”17. Giuseppe Pinelli, quarant’anni nel 1968, per i nuovi arrivati forse poteva essere una figura paterna, tuttavia viene visto come “il più vecchio dei giovani”: così lo ricorda Amedeo Bertolo che aveva ventisette anni, ma anche Paolo Finzi all’epoca diciottenne18. Elis fu portato a casa di Luciano Visentin da Nani Fiorin, che aveva sposato una nipote di Teresa moglie di Luciano. Ora Fiorin era dell’età di mezzo, ma Elis lo ricorda con l’affetto che si porta a “un vecchio zio”, non a un padre19.
L’incontro con i nonni spiega un tono di indulgenza da entrambi le parti: spiega in altre parole perché in quel rapporto non ci siano stati i conflitti e le tensioni che caratterizzano il rapporto tra padri e figli. Amedeo Bertoli ricorda che Pio Turroni era “certamente un nonno burbero, più da scappellotti virtuali che da caramelle”20. Ma gli scappellotti del nonno non sono i litigi con il padre. Anche in caso di disaccordo, ricorda ancora Bertolo nell’intervista a Pucciarelli, “il nostro cuore batteva per i vecchi”21. Per esempio a me sembra che Anarchik che nasconde una bomba sotto il mantello – personaggio del fumetto creato per Gioventù Libertaria di Milano nel 1966 – sia sì un intervento ironico “sullo stereotipo anarchico della vulgata reazionaria”, così il suo autore Roberto Ambrosoli quarant’anni dopo22, ma sia allo stesso tempo l’immagine di un nonno: si sa per esperienza, ma è anche un tema molto studiato, che a differenza dei rapporti tra padre e figlio quelli tra nonno e nipote sono rapporti di scherzo.
Si sa anche che l’etnicità si trasmette da nonno a nipote. Che qualcosa del genere succeda anche per l’anarchismo? Non è detto. Del tutto diversa appare per esempio la situazione negli anni Settanta e Ottanta, cioè per i fratelli minori di quei giovani di cui ho parlato. Le recenti interviste realizzate da Luigi Balsamini a ventun militanti dell’Organizzazione anarchica marchigiana, attiva negli anni Settanta, mostrano una socialità maschile tra coetanei, che si sviluppa soprattutto nelle lotte studentesche di quegli anni23. Una socializzazione tra coetanei è anche quella che emerge dai ricordi di Dino Taddei, nato nel 1968 – siamo a Milano nei primi anni Ottanta, Dino è quindicenne e il suo è un bricolage politico che prende forma nei gruppi scout o in giri in bicicletta per i quartieri della periferia operaia24.
Rimanendo ai giovani degli anni Sessanta e Settanta, rimarranno nipoti tutta la vita? Riusciranno a elaborare il senso di una perdita? E in che modo lo faranno? E soprattutto diventeranno padri? A me sembra infatti che le differenti scelte ideologiche e organizzative intraprese dalle varie componenti dell’anarchismo negli ultimi quarant’anni in Italia siano dovute da un lato alla diversità di sentire il rapporto con i nonni e con la loro eredità e dall’altro lato, e ancora di più, alle diverse risposte alle richieste di paternità e al ruolo di padre. Conosciamo bene tra l’altro la difficoltà di essere padri in un paese in cui il cattolicesimo ha particolarmente coltivato l’educazione sentimentale della donna madre e fondato simbolicamente il rapporto tra autorità civile e cittadini su quello tra Madre e Figlio25. Ecco un campo di analisi che la storia orale dell’anarchismo potrebbe illuminare (anche senza volerlo).
4. Nel movimento anarchico il genere autobiografico e in generale il racconto di sé sono relativamente poco presenti e soprattutto sono scoraggiati. Malatesta, che avrebbe potuto scrivere un’autobiografia altrettanto se non più avvincente di quelle di Piotr Kropotkin e di Louise Michel non lo fece mai, resistendo alle molte richieste che avrebbero potuto assicurargli buoni diritti d’autore26. Motivo? Almeno un paio: il primo è la riservatezza richiesta al militante, il rifiuto del leaderismo e il sospetto per chi si vanta di quello che ha fatto, perché quello che conta è l’Ideale e l’impegno collettivo; il secondo motivo è quello tipico dei movimenti cospirativi e cioè che ci sono cose che la polizia non deve sapere. Accanto a questi motivi, che un po’ tutti condividono, ne propongo un altro alla discussione, e cioè che il racconto di sé viene scoraggiato dalla litigiosità che caratterizza il movimento. Gli anarchici litigano tra di loro, e credo che questo clima non sia favorevole al discorso di sé. Come si sa, non è la voce che presiede al racconto, ma l’orecchio di chi ascolta.
Non è che in Italia manchino le autobiografie, ma sono un’esperienza ristretta. L’editore Galzerano pubblicò nel 2009 Intervista agli anarchici. 1. Nico Berti. Il libro doveva essere il primo di una serie ma che io sappia non ha avuto seguito. Andrea Dilemmi, che ha pubblicato l’autobiografia dell’anarchico veronese Giovanni Domaschi, ha calcolato che “dal secondo Ottocento alla Resistenza le memorie scritte da militanti anarchici di lingua italiana (alcune delle quali, peraltro, ancora inedite) non superano la ventina”: poche, conclude, se si calcola il grande peso dell’anarchismo, non solo in Italia ma anche nei luoghi di esilio oltre che nelle Americhe27. Non ho fatto una verifica. Penso che il giudizio sia fondato soprattutto se si fa un confronto con il ruolo dell’autobiografia richiesta per essere ammessi nel Partito comunista (ancora nel 1971, in occasione del cinquantenario del congresso di Livorno, il PCI invitava i propri militanti a scrivere le proprie memorie). Eppure ho l’impressione che si tenda a sottostimare l’autobiografia nell’anarchismo, credo in ossequio allo stereotipo del militante dedito all’Idea: se il militante non dovrebbe parlare di sé, allora le autobiografie sono eccezioni. Eppure la ricostruzione che Emanuela Minuto fa dell’anarchismo degli anni Cinquanta è fondata su “le memorie, le testimonianze, le interviste” – osservazione che mi sembra esprimere una polemica sommessa ma riconoscibile nei confronti del Dizionario biografico degli anarchici italiani che si fonda invece su fonti di polizia28. E io stesso per preparare questo intervento mi sono imbattuto in interviste, testimonianze e autobiografie che non sospettavo.
Presentando la storia di vita di Umberto Tommasini (che ho già ricordato all’inizio), Claudio Venza ricorda che “si tratta di una conversazione fra un anziano militante e un paio di giovani di recente adesione allo stesso gruppo anarchico”. I giovani volevano disporre di una “genealogia rispettabile” in ambito locale; Tommasini risponde alle aspettative dei giovani con la testimonianza che «ha avuto perciò un evidente valore di “testamento politico”», tanto che Venza parla di un “carattere implicitamente didattico dell’autobiografia”. Una riprova? Tommasini non accenna mai a un progetto di attentato a Mussolini che pure l’aveva visto coinvolto attivamente negli anni 1937-39 e di cui invece sono testimoni le carte di polizia. Perché questo silenzio? Secondo Venza per “il rifiuto del militante di non contribuire al rafforzamento dell’immagine stereotipata degli anarchici disorganizzati e, in quanto tali, imprudenti, approssimativi, e alla fin fine impotenti”29.
Una dinamica del genere si instaura nel caso della già ricordata testimonianza di Visentin. Qui le autocensure sono di due tipi: una riguarda le circostanze che l’avevano portato a conoscere Teresa (ascoltando la cassetta si capisce che Visentin non aveva voglia di parlarne e taglia corto), e qui il silenzio sembra dovuto a motivi di riserbo personale; il secondo argomento di cui Visentin non parla sono le sue sottomissioni al regime fascista sottoscritte tra il 1939 e il 1941 e conservate nell’archivio dell’amministrazione del Confino politico. Avrebbe potuto parlarne con un giovane che si aspettava la storia di un uomo tutto di un pezzo? Non sappiamo che cosa comportasse per Visentin quel segreto. Di sicuro non era quella l’occasione in cui avrebbe potuto parlarne. A distanza di molti anni Elis Fraccaro scrive: “Non poteva farlo, non avrei capito”30.
5. Il mondo degli anarchici – e il mondo della militanza politica in generale – è un mondo di amicizie maschili. Luigi Balsamini, che di recente ha raccolto e pubblicato la trascrizione di interviste a militanti dell’Organizzazione anarchica marchigiana, lamenta la difficoltà di raccogliere testimonianze di donne pur di una generazione segnata dal femminismo (solo quattro interviste su ventuno)31.
Le donne si vedono poco nel movimento anarchico – non solo nei rapporti di polizia ma anche negli scritti dei militanti. La polizia tende non prendere sul serio le donne almeno fino a quando non può farne a meno; ma gli stessi militanti distinguono nettamente tra attività pubblica (considerata politica) e dimensione privata (considerata estranea alla politica).
Trascuriamo pure il caso rappresentato da Gianna Manzini, la quale scrive un libro per ricordare il padre anarchico in cui la madre è assente, e per parlare della madre dovrà scrivere un altro lungo racconto: in fondo marito e moglie erano separati, anche a causa del ripudio dell’anarchico da parte della famiglia di lei32. Prendiamo una coppia come Armando Borghi e Virgilia d’Andrea, uniti per quindici anni nella vita, nella militanza e nell’esilio. Anche in questo caso, per citare Francesca Piccioli biografa di Virgilia D’Andrea, nessuno dei due nelle loro testimonianze dà conto dell’intersecarsi “dell’attività politica con le vicende sentimentali”33, né finora l’hanno fatto adeguatamente che io sappia gli storici, i quali credo dovrebbero cominciare a scrivere biografie di coppie più che di singoli, almeno in casi come questi.
Claire Auzias osserva che nelle interviste tutto esclude le donne: la militanza, la lotta, lo straordinario, le strade e le piazze, tutto rinvia all’uomo. Eppure nell’intervista è la donna che rimedia alle défaillances dell’uomo; date, luoghi, nomi propri e titoli di libri sono infatti di dominio delle donne, che puntualizzano le interviste in sordina34. Ciò che le interviste possono fare non è solo prendere in considerazione le donne militanti o includere la presenza delle donne nella militanza maschile, come fa Claire Auzias, ma mettere in discussione lo schema stesso che fonda la distinzione pubblico-privato. La definizione di campo politico è androcentrica, e la preferenza che assegna allo Stato e alle élite politiche esclude “altri ambiti della vita sociale come la comunità, la famiglia, le reti di parentela ecc., che sono assegnati e principalmente gestiti da donne”35. Spazi sociali informali sono molto importanti per l’avvio e lo sviluppo di lotte sociali, eppure sono in genere trascurati dall’analisi dei movimenti; senza contare che in caso di regime totalitari le solo reti capaci di sopravvivere sono quelle informali gestiti da donne36.
Prendiamo il caso di Luigi Fabbri e di sua moglie Bianca Sbriccoli – lui il militante che sappiamo, lei che non disse mai di essere anarchica –, i quali furono molto legati e vissero assieme tutta la vita. La loro figlia Luce scrisse una biografia del padre in cui, in uno dei pochi passaggi dedicati al rapporto tra i genitori, scrive: “mia madre l’aiutava mantenendo in ordine la documentazione, copiando, classificando e, soprattutto creando in casa l’atmosfera serena ch’era nel suo carattere, apparentemente soave, ma, in realtà, molto fermo”37. Ma è proprio così? Era quello il ruolo di Bianca? Subito dopo Luce riporta un aneddoto: «Malatesta diceva a mio padre: “tu sai quanta fiducia io abbia in te. Ma se avessi bisogno d’una sola persona a cui confidare un segreto importante, sceglierei Bianca, perché tu lo diresti solo a lei, ma lei non lo direbbe neppure a te”. Che cosa ci dice questo aneddoto? Ci dice non solo della stima di Malatesta per Bianca ma soprattutto dell’importanza che Bianca ha nel tenere in vita la rete di amicizie maschili del marito (Malatesta era come un padre per Fabbri). Chi studia le reti di relazione lo sa, ma lo si sa anche per esperienza, che “se gli uomini sono maggiormente implicati in rete amicali maschili, sono le donne che le mantengono e le approfondiscono”38.
6. In una intervista raccolta da Franco Schirone nel 1979, Raniero Coari Rossi, tra i fondatori della Federazione Anarchica Giovanile Italiana (FAGI) nel 1965, ricordò un suo intervento al convegno della Fai del 1967 in cui diceva di aver letto Lettera a una professoressa e che quel libro era “una cosa importantissima”. Un compagno di Imola gli rispose che non se ne doveva parlare perché era roba da preti. Dal contesto si può intuire che la risposta veniva da un compagno più vecchio (“da parte nostra si riconsiderava sempre tutto, in primo luogo forse perché eravamo giovani e poi perché era il momento di rimettere seriamente tutto in discussione”). Raniero aveva diciannove anni39.
Viene in mente quel proverbio arabo citato da Marc Bloch nell’Apologia della storia che dice “Gli uomini somigliano al loro tempo più che ai loro padri”. In genere le interviste agli anarchici, ma anche le stesse autobiografie o testimonianze, si concentrano sulle divisioni interne al movimento: e infatti ogni corrente ha i suoi documenti, il suo archivio, le sue edizioni e i suoi storici. Era quello che scriveva Paul Avrich quando notava che la forza delle interviste consiste nel dimostrare la grande varietà di scuole e di tradizioni dentro l’anarchismo. Ma facendo così si ignora il proverbio citato da Marc Bloch. Le foto di una manifestazione di anarchici dei primi anni Settanta rivelano l’aria generazionale e il clima di quel periodo. (Per riferirsi alla gamma di ideologie diverse tra di loro ma unite dai medesimi scopi – “rovesciare il capitalismo, emancipare i lavoratori, stabilire un’eguaglianza sociale ed economica” – c’è chi preferisce parlare di “cultura radicale”40.) Quindi le interviste ad anarchici dovrebbero non solo soffermarsi sulle divisioni interne al movimento, come di solito si tende a fare, ma chiarire anche che cosa lega un militante alla propria generazione e alla propria epoca. Basterebbe chiedere, nelle interviste, dei romanzi preferiti, dei film e della musica. Forse si può andare ancora più in profondità. Camillo Berneri ha scritto: “La storia del fascismo rimane un mistero se non si considera che in Italia l’80% dei militanti politici erano, psicologicamente, dei fascisti, nel senso di non tollerare l’opinione avversa. […] questo è un aspetto della lotta politica in Italia che per pietà dell’antifascismo il Salvemini ha trascurato ma che rimane, psicologicamente, la chiave di volta del fenomeno fascista. […] credo che, senza giungere a certe affermazioni eccessivamente educazioniste di Malatesta e di Fabbri, sarebbe bene promuovere ed alimentare un educativo esame di coscienza. Tema di intro-spezione: che cosa vi è in me che mi avvicina ad un fascista?”41. Da testamento politico la ricerca si trasforma allora in una introspezione dialogica a cui partecipano sia l’intervistatore sia l’intervistato. Berneri poneva questo interrogativo nel 1935. Ancora oggi la sua domanda resta scomoda.
Un ringraziamento particolare a Elis Fraccaro
- Elis Fraccaro, Prefazione, in Piero Brunello, L’anarchico delle Barche. Notizie su Luciano Visentin, calzolaio (1898-1984), storiAmestre, Mestre 2005, pp. 5-9. [↩]
- Intervista agli anarchici. 1. Nico Berti, a cura di Mimmo Pucciarelli, Galzerano, Casalvelino Scalo (SA) 2009, pp. 14-15. [↩]
- Massimo Ortalli, Sessantotto – 4. Congresso dell’Ifa tra vecchi e nuovi anarchici, “Umanità nova”, 16 marzo 2008, disponibile online (ultimo accesso 18 dicembre 2016). [↩]
- Umberto Tommasini, L’anarchico triestino, a cura e con un saggio introduttivo di Claudio Venza, presentazione di Paolo Gobetti, Edizioni Antistato, Milano 1984, p. 123. [↩]
- Amedeo Bertolo, Éloge du cidre, in Laurent Patry, Mimmo Pucciarelli, L’anarchisme en personnes, Atelier de création libertaire, Lyon 2006, pp. 185-186 (l’intervista alle pp. 149-221). [↩]
- La Biblioteca libertaria Armando Borghi ha una nuova sede, “A. Rivista anarchica”, 323, febbraio 2007, disponibile online (ultimo accesso 18 dicembre 2016). [↩]
- Gianpiero Landi, Nello Garavini: un uomo, “Il Castello”, 3, marzo 1985, disponibile online (ultimo accesso 18 dicembre 2016). [↩]
- Prima edizione Princeton University Press, Princeton 1995; cito dalla seconda edizione AK Press, Oakland Canada 2005, la cit. alle pp. XII, 3. [↩]
- L’Harmattan, Paris 1993. [↩]
- Il suo modello – è lei stessa a dirlo – sono le ricerche di History workshop, cioè della scuola britannica di storia orale (Paul Thompson per fare un solo nome). [↩]
- Patry, Pucciarelli, L’anarchisme en personnes cit., in particolare Mimmo Pucciarelli, Récits de vie et anarchie, ivi, pp. 7-10; vedi anche Mimmo Pucciarelli, Claire l’enragée. Entretien avec Claire Auzias, Atelier de création libertaire, Lyon 2006. [↩]
- Lo fa Carlo De Maria nel suo recente saggio Premessa. Metodo biografico e scansioni generazionali nello studio del socialismo anarchico italiano, in L’anarchismo italiano. Storia e storiografia, a cura di Carlo De Maria, Giampietro Berti, Biblion, Milano 2016, pp. 91-108, ma tutti i saggi del volume seguono questa impostazione. [↩]
- Giovanna Caleffi Berneri, Note autobiografiche indirizzate a Ugo Fedeli, s.l., s.d. [Parigi, marzo-aprile 1954] cit. in Carlo De Maria, Giovanna Caleffi Berneri. Un seme sotto la neve. Carteggi e scritti. Dall’antifascismo in esilio alla sinistra eretica del dopoguerra (1937-1962), Biblioteca Panizzi, Archivio famiglia Berneri-Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2010, pp. XXII-XXIII. [↩]
- Amedeo Bertolo, Foto di gruppo con Pinelli, in Amedeo Bertolo, Camilla Cederna, Pier Carlo Masini, Corrado Stajano, Pinelli, la diciassettesima vittima, BFS Edizioni, Pisa 2006, p. 12 (la testimonianza alle pp. 11-14). [↩]
- Claudio Venza, Note metodologiche sull’uso delle fonti orali, in Voci di compagni schede di questura. Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia dell’anarchismo, Quaderni del Centro studi libertari-Archivio G. Pinelli, Milano 2002, p. 77 (il saggio alle pp. 75-84). [↩]
- Di recente Pasquale Iuso, Il problema dell’organizzazione nei primi decenni della Repubblica, in L’anarchismo italiano cit., p. 270, che rinvia agli studi di Giampietro Berti. [↩]
- “Bollettino Archivio G. Pinelli”, 39, giugno 2012, p. 3 (editoriale non firmato). [↩]
- Paolo Finzi in “L’Internazionale”, dicembre 1979, poi in Id., Come ricordo Pino, “A. Rivista anarchica”, 151, dicembre 1987-gennaio 1988, disponibile online (ultimo accesso 18 dicembre 2016); Bertolo, Foto di gruppo con Pinelli cit., p. 11. [↩]
- Fraccaro, Prefazione cit., p. 5. [↩]
- “Bollettino Archivio G. Pinelli”, 39, giugno 2012, p. 3. [↩]
- Bertolo, Éloge du cidre cit, p. 199. [↩]
- [Roberto Ambrosoli], aNarChik “Il nemico dello Stato” (storia di un fumetto), in https://anarchicipistoiesi.noblogs.org/post/2009/03/21/anarchik-il-nemico-dello-stato-storia-di-un-fumetto/ (ultimo accesso 18 dicembre 2016). [↩]
- Luigi Balsamini, Fonti scritte e orali per la storia dell’Organizzazione anarchica marchigiana (1972-1979), inventario del fondo archivistico a cura di Matteo Sisti, BraDypUs, Bologna 2016, pp. 137-309. [↩]
- Dino Taddei, Baby Block, Zero in condotta, Milano 2015. [↩]
- Cfr. Luisa Accati, Il mostro e la bella: padre e madre nell’educazione cattolica dei sentimenti, Raffaello Cortina, Milano 1998; Giovanni Levi, Storia d’Italia e antropologia cattolica, in From Florence to the Mediterranean and Beyond. Essays in Honour of Anthony Molho, ed. by Diogo Ramada Curto, Eric R. Dursteler, Julius Kirshner, Francesca Trivellato, Olschki, Firenze 2009, pp. 545-556. [↩]
- Su questo cfr. Errico Malatesta, Autobiografia mai scritta. Ricordi (1853-1932), a cura di Piero Brunello e Pietro Di Paola, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2003. [↩]
- Giovanni Domaschi, Le mie prigioni e le mie evasioni: memorie di un anarchico veronese dal carcere e dal confino fascista, a cura di Andrea Dilemmi, Cierre, Sommacampagna (VR) 2007, p. 129. [↩]
- Emanuela Minuto, Assenze. Giovani anarchici negli anni Cinquanta, in L’anarchismo italiano cit., p. 180. [↩]
- Venza in Tommasini, L’anarchico triestino cit., le citazioni rispettivamente alle pp. 131, 135, 134. [↩]
- Fraccaro, Prefazione cit., p. 9. [↩]
- Balsamini, Fonti scritte e orali cit., pp. 6-7. [↩]
- Rispettivamente: Ritratto in piedi, Mondadori, Milano 1971; Sulla soglia, in Sulla soglia. Racconti, Mondadori, Milano 1973. [↩]
- Francesca Piccioli, Virgilia D’Andrea. Storia di un’anarchica, Centro Studi Camillo Di Sciullo, Chieti 2002, p. 165. [↩]
- Auzias, Mémoires libertaires cit., p. 13 [↩]
- Olivier Fillieule, Travail militant, action collective et rapports de genre, Université de Lausanne, Travaux de Science Politique, n. 36, 2008, p. 12, accessibile online (ultimo accesso 18 dicembre 2016). [↩]
- Ivi, pp. 12-14, 16-17, 22. [↩]
- Luce Fabbri, Luigi Fabbri: storia d’un uomo libero, introduzione di Pier Carlo Masini, BFS, Pisa 1996, p. 126. [↩]
- Fillieule, Travail militant cit., pp. 26-27. [↩]
- Intervista a Raniero Coari Rossi, Livorno, luglio 1979, in Franco Schirone, La gioventù anarchica negli anni delle contestazioni 1965-1969, Zero in condotta, Milano 2006, pp. 28-29 (intervista alle pp. 22-29). [↩]
- Marcella Bencivenni, Italian Immigrant Radical Culture. The Idealism of the Sovversivi in the United States, 1890-1940, New York University Press, New York and London 2011, p. 2. [↩]
- L’Orso [Camillo Berneri], Rilievi, “L’Adunata dei Refrattari”, New York, XIV, n. 40, 5 ottobre 1935, cit. in Carlo De Maria, Camillo Berneri. Tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2004, p. 117 n. [↩]