di Maria Beatrice Di Castri
Riprendiamo il testo dell’intervento tenuto da Maria Beatrice Di Castri, insegnante in una scuola superiore, durante la manifestazione per la scuola organizzata dal Comitato Priorità alla Scuola in piazza Santissima Annunziata a Firenze. Per parteciparvi, Maria Beatrice ha aderito allo sciopero del comparto scuola indetto dal sindacato COBAS per lo stesso venerdì 26 marzo.
Non avrei voluto essere qui oggi. Non certo perché non faccia piacere la dimensione dell’impegno, ché anzi, il recupero della polis è aspetto fondamentale nella nostra vita democratica, ma perché, insieme ai colleghi che sono qui presenti, avrei voluto essere in classe con i miei studenti, e magari non solo per le prime due ore, per poi collegarmi online, ma per l’intera mattinata.
Ma oramai da quasi un anno periodicamente dobbiamo scendere in piazza, per richiamare l’attenzione sullo stato dell’istruzione pubblica. Ogni volta mi vengono in mente le parole di un’intervista estemporanea a Dario Fo, che avrebbe compiuto gli anni due giorni fa, il 24 marzo: a una manifestazione tenuta a Venezia contro la Lega – quella di Bossi, secessionista e “celodurista”, non quella nazionalista e “celodurista” di Salvini – disse più o meno: “Avrei pensato di scendere in piazza per tante ragioni, ma certo non avrei mai immaginato di dover difendere l’Unità d’Italia”.
Penso che nessuno di noi, che abbiamo partecipato a molte manifestazioni e iniziative per una scuola diversa e contro le (contro)riforme degli ultimi anni, avrebbe mai immaginato di dover protestare “solo” per far riaprire le scuole.
Esprimo qui dunque pubblicamente una sensazione che mi sembra si sia affermata come collettiva e senz’altro è condivisa in questa piazza.
Dopo un anno non ne possiamo più di vivere dentro una società rimodellata a misura di un’emergenza sanitaria che, proprio perché non ha avuto e non ha l’orizzonte breve di pochi mesi, va gestita con una pianificazione oculata del rapporto tra costi/benefici, e dunque non è più accettabile la logica dei diritti “l’un contro l’altro armati”, per citare Manzoni. La scuola è stata chiusa senza aver mai dimostrato – e ricordiamoci che in uno stato di diritto l’onere della prova spetta all’accusa, non alla difesa – che le scuole sono delle incubatrici del virus, idea avventizia e pregiudiziale, che i dati reali non comprovano affatto, anzi smentiscono. Chiudere la scuola è una scelta politica, sbagliata e ingiusta; una scorciatoia, mentre le scuole sono da settembre tra i luoghi più monitorati e con una disciplina attenta alle regole e ai comportamenti.
La scuola è un luogo dove si apprende in situazione: la relazione e l’interazione dei corpi sono fondamentali per il processo di apprendimento; la socialità non è un accessorio della formazione.
Vale per noi adulti, che certo apprendiamo diversamente da una conferenza online rispetto a un seminario in presenza, per gli universitari, per gli studenti della scuola secondaria superiore. La relazione è anche quell’aspetto che ricarica e ci aiuta, come discenti, a sopportare la fatica – perché lo studio è anche fatica – e l’organizzazione del quotidiano.
Con la famigerata DAD (che non è l’integrazione degli strumenti digitali nella prassi didattica) la profondità e la dimensione della rielaborazione si perdono in larga parte. Figuriamoci negli ordini di scuole che coinvolgono i ragazzi più piccoli. Apprendere è toccare, manipolare, non è solo flatus vocis, non è contemplazione unidirezionale di uno schermo. Apprendere è scambio reciproco, faccia a faccia, ripetizione, consolidamento, lettura ad alta voce, socialità, guardare cosa fa il compagno di banco: in una parola, è esperienza.
Costretti alla catena di montaggio di un computer, pur in un sistema misto che contempla momenti di interazione fisica, sempre però minacciati dall’eventualità di un’estensione della zona rossa, viviamo una spaventosa perdita di motivazione, accompagnata da una sensazione di scoraggiamento e di abbandono. Vale per noi insegnanti come per i ragazzi; ne sono testimoni loro, così come i tanti genitori preoccupati con cui ho avuto modo di dialogare in questi mesi.
Tutta la nostra società sta vivendo in una dimensione da disturbo post-traumatico da stress, che sembra ricalcare, con i debiti distinguo, alcuni scenari terribili di cui il libro di Naomi Klein Shock economy offriva un interessante campionario. Ma è soprattutto tra i più giovani che un’emergenza psichica/psichiatrica sempre più diffusa sta venendo a galla, e non può venire ancora ignorata.
Se non si torna presto in classe e non si mettono in atto strumenti compensativi del lavoro perso, e solo in parte minima surrogato dalla DAD, vi si assommerà un’emergenza socio-culturale importante, annesso un analfabetismo funzionale di “andata e di ritorno”.
Inoltre, non ne possiamo più di una neolingua che ormai ha incamerato i nuovi acronimi – dalla DDI, didattica digitale integrata, fino all’azzardo dell’aberrante DIP, didattica in presenza, di un documento dell’Associazione Nazionale Presidi dello scorso maggio – suggerendo surrettiziamente l’intercambiabilità tra presenza e distanza come variabili di uno stesso servizio erogato.
Un altro aspetto va poi sottolineato. L’accelerazione impressa a quella involuzione autoritaria della scuola che certamente viene da lontano – e annovera tra i suoi artefici personaggi che abbiamo a più riprese ritrovato sugli alti scranni della politica, e di cui si contorna anche l’attuale capo del governo –, ma a cui l’emergenza ha offerto una legittimazione ideologica formidabile: l’imposizione di un tecnocratico autoritarismo del “fare”, che con il pretesto delle precauzioni sanitarie, osteggia la possibilità degli incontri tra noi e delle discussioni nel merito delle questioni. Non siamo alla pervasività orwelliana dei dispositivi di controllo, ma il terreno è veramente scivoloso.
In nome del Covid passa di tutto, dal grottesco (le mascherine da tenere anche in una aula vuota) al paradossale (i consigli di classe da remoto quando essi contano partecipanti che corrispondono a meno di metà di una classe), al tragico (i collegi docenti blindati, con il timer e le ordinanze a catena); e intanto, mentre la solitudine e l’atomizzazione di studenti e lavoratori aumentano, e con esse il disagio, le disuguaglianze si aggravano, non si rinuncia a far svolgere le prove INVALSI in presenza…
Se siamo qui oggi, è sicuramente per far riaprire davvero le scuole, ma anche per porre in prospettiva delle priorità e dare un segnale di vigilanza su quello che diventerà la scuola, e con essa la società, del dopo-pandemia: per scongiurare che passi una concezione “smart” dell’istruzione pubblica attraverso l’imposizione normata della didattica online, a tutto vantaggio di pochi, e a danno a detrimento di (quasi) tutti.
Io credo che limitarsi con rassegnazione – o magari invocando una strana idea di “resilienza”, parola ormai abusata e candidata, nella neolingua, a diventare sinonimo di accettazione del disumano – ad aspettare semplicemente che la scienza faccia il suo corso sarebbe un errore.
I germi benefici della società post-covid si gettano fin da ora. Così della scuola post-covid.
Siamo ancora in tempo a evitare il peggio. Ma occorre vigilare e non demordere.
Nota. Le foto della manifestazione sono riprese dalla pagina facebook di Priorità alla Scuola Firenze; ringraziamo Giulia Giovinazzo per l’aiuto. Lo striscione che fa riferimento agli “affetti” allude alle dichiarazioni fatte dal ministro dell’Istruzione in carica, Patrizio Bianchi, nel corso di una intervista televisiva, a proposito del fatto che la scuola dovrebbe essere “affettuosa”.
Venerdì 26 marzo il Comitato Priorità alla Scuola ha lanciato una nuova mobilitazione nazionale e uno sciopero dalla didattica a distanza di tutta la comunità scolastica (genitori, bambini e bambine, ragazzi e ragazze, insegnanti). Le richieste rilanciate sui media e sui social e portate nelle manifestazioni sono: riapertura delle scuole di ogni ordine e grado – dai servizi per l’infanzia all’università –; rifiuto della riforma strutturale che sta passando in silenzio, ovvero una scuola fondata sulla didattica a distanza (da quest’estate “didattica digitale integrata”); l’impiego delle risorse del Recovery Fund e del bilancio dello Stato per rilanciare la scuola pubblica di qualità, laica, solidale, inclusiva.
Le manifestazioni si sono tenute in una settantina di città, in tutta Italia, in concomitanza con lo sciopero della scuola indetto dal sindacato COBAS.
Nel corso della mattinata del 26 marzo è uscita la sentenza del TAR del Lazio che ha invalidato le misure relative alla chiusura delle scuole contenute nel DPCM del 2 marzo 2021, proprio per l’inconsistenza delle giustificazioni scientifiche addotte a supporto, e invitato il governo a rivedere le norme in materia entro il 2 aprile 2021.
Nell’uovo di Pasqua ritroveremo scuole aperte? Se sarà così non sarà solo per una sentenza del TAR, tanto meno per la volontà del governo, ma per quanto un movimento nato in pieno lockdown ha smosso negli ultimi dodici mesi. (fb)