di Guido Lanaro
Pubblichiamo l'Introduzione del decimo Quaderno di sAm, firmato da Guido Lanaro: Il popolo delle pignatte. Storia del Presidio permanente No Dal Molin (2005-2009) (inverno 2009-2010, 120 pp., con una prefazione di Ascanio Celestini).
Basta fare qualche passo lungo viale Roma, l’arteria che dalla stazione conduce in centro storico tagliando in due Campo Marzio, per osservare come il logo «No Dal Molin» campeggi su manifesti e volantini affissi quasi ovunque, dai muri agli alberi alle fermate del tram. Nessuno ci fa caso: evidentemente la questione è stata assorbita dalla città al punto da essere a tutti gli effetti un fenomeno integrato nella vita di chi ci abita.
Da oltre tre anni a questa parte i cittadini e le cittadine di Vicenza si oppongono strenuamente al progetto di trasformare l’area del Dal Molin, ex aeroporto militare nonché scalo civile, in un avamposto dell’esercito degli USA. Un progetto promosso e avallato, con una continuità politica altrimenti rara nella gestione della cosa pubblica, da governi di centro destra e di centro sinistra, deliberatamente sottaciuto alla città dai propri amministratori, e tacitamente accettato, per motivi di convenienza economica, da molti protagonisti della vita economica e sociale della città. Nonostante si tratti di uno scontro impari, le proteste della popolazione locale hanno imposto innumerevoli rallentamenti all’iter del progetto, tanto che i lavori nei cantieri per la costruzione della nuova base hanno potuto prendere il via solo nel febbraio 2009.
L’eccezionalità del caso Vicenza non sta solo nella disparità delle forze in campo. Il protagonismo politico della città, dopo essersi manifestato con forza nella resistenza al nazifascismo, è infatti sprofondato in uno stato letargico perdurato sino ai giorni nostri. La proverbiale laboriosità sopravvissuta alla transizione dall’economia agricola a quella in-dustriale, nonché motore del tanto decantato miracolo economico del nord-est, trova la sua sintesi nel motto «lavora e tasi». Il motto sintetizza anche un altro tratto tradizionalmente riconosciuto ai vicentini e ai veneti più in generale, ovvero quello di essere dei «polentoni», pignoli quando si tratta del proprio orto, ma disinteressati a tutto ciò che ne esula.
In un certo senso, l’immagine pubblica del vicentino medio è una sorta di stereotipizzazione ante-litteram di un fenomeno spesso chiamato in causa anche in relazione alla questione Dal Molin, oggi universalmente noto con l’acronimo «NIMBY» (not in my backyard, cioè «non nel mio cortile»). In realtà è sufficiente un’analisi anche superficiale delle cause alla base dell’insorgenza di fenomeni come quello di Vicenza per comprendere quanto strumentale e inappropriato sia questo termine. Se da un lato i movimenti territoriali, dei quali Vicenza rappresenta uno dei casi più eclatanti ed esemplari, poggiano su concetti quali il localismo, al contempo portano dentro di sé una concezione del dibattito pubblico e del governo che è tutto tranne che particolaristica, e che anzi va a toccare alla radice alcune contraddizioni insite nel concetto di democrazia. Spesso i movimenti che si battono per la difesa dei beni comuni sono accusati di particolarismo e individualismo. NIMBY, «popolo del no», «antipolitici», sono alcuni degli appellativi che i protagonisti delle lotte territoriali si vedono affibbiati. La tesi insinuata è che chi si batte per difendere la propria terra lo faccia perché accecato da una partigianeria miope e per nulla lungimirante, che nasce dalla prevalenza degli interessi personali e particolari su quelli (presunti) della comunità. Di conseguenza, questo tipo di discorso attribuisce ai cittadini o una malafede che li spinge a rifiutare un interesse collettivo a vantaggio del proprio personale, oppure, in alternativa, un’ignoranza che impedisce di percepire le esatte proporzioni dei valori in questione.
Quale che sia il presupposto, il risultato è unico, e cioè la delegittimazione delle rivendicazioni popolari. Chi si batte per la difesa del proprio territorio diventa un «intruso» nel dibattito politico e civico, uno che rifiuta di stare alle regole, e che pertanto va squalificato, messo fuori gioco, ridotto al silenzio, ignorato. In poche parole, rappresenta un’anomalia nociva ed insidiosa, da stigmatizzare e arginare prima che possa contaminare la parte «sana» della società, che viene definita «maggioranza silenziosa».
È interessante notare come in questi scenari le istituzioni, anziché assolvere ai loro compiti di rappresentanza, si propongano come attori principali e protagonisti dei conflitti. La politica non funziona più come spazio di mediazione in cui vengono assunte e recepite le istanze dei cittadini. Al contrario, le varie forze politiche tentano di assorbire le posizioni che emergono dalle proteste, addomesticandole per ridurle a un silenzio che possa permettere al potere costituito di fare il proprio corso. I numerosi tentativi di cooptazione e di assimilazione denunciano il tentativo da parte delle istituzioni di aggiudicarsi, oltre al monopolio del potere e degli spazi decisionali, anche un certo grado di controllo, per non dire monopolio, delle proteste.
Altrettanto interessante è il ruolo assunto in queste vicende dal potere giudiziario. La magistratura risulta quasi sempre uno degli strumenti principali con cui si tenta di contrastare l’azione di movimenti e comitati, nonostante questi si battano contro abusi e violazioni palesi ed espliciti. C’è un intreccio di complicità tra poteri politici, economici e giudiziari. In queste situazioni leggi, vincoli, normative, la Costituzione stessa, vengono violati in modo sistematico.
La notorietà di Vicenza e della lotta contro la nuova base, l’enorme partecipazione dei cittadini, e l’eccezionale solidarietà raccolta dal presidio e dal movimento sia a livello nazionale che internazionale, dipendono sicuramente dall’intelligenza e dalla determinazione con cui cittadini e cittadine hanno saputo opporsi alla nuova installazione, ma anche dal fatto che nella vicenda Dal Molin emergono tutte le contraddizioni brevemente riassunte qui sopra
Purtroppo casi come quello di Vicenza si vanno moltiplicando molto rapidamente in tutto il territorio nazionale, talvolta con una violenza e una rapacità ancor più feroci e subdole.
La mia analisi si concentra in particolare sul Presidio permanente, trascurando la storia, altrettanto importante e determinante nel quadro della lotta contro la nuova base, degli altri soggetti che concorrono, o hanno concorso, a dare forma al movimento No Dal Molin.
La scelta è dettata in primo luogo dal fatto che il Presidio permanente è la realtà di cui sono stato partecipe e di cui ho esperienza diretta; degli altri movimenti non posso che avere una conoscenza indiretta e parziale. In secondo luogo perché il presidio, più di ogni altro soggetto, è riuscito a catalizzare la partecipazione della cittadinanza, oltre che la simpatia e la solidarietà di migliaia di cittadini sparsi in tutta Italia.
Va da sé che il contributo di altre realtà del movimento è stato altrettanto determinante nel quadro della faccenda Dal Molin. La mobilitazione del mondo cattolico, dai parroci alle decine di associazioni presenti sul territorio (dalle cooperative sociali ai gruppi scout), è stata a mio avviso uno dei fattori determinanti e fondamentali nel risveglio della coscienza dei vicentini (che meriterebbe di essere indagato più approfonditamente). In ogni caso, trovo che il presidio abbia manifestato abbastanza chiaramente la sua centralità in tutte le fasi salienti della lotta contro la nuova base, dalla sua nascita fino al giorno d’oggi.
Se nel corso di questo scritto le vicende del presidio si intrecciano, a volte magari confondendosi, con quelle del movimento No Dal Molin nella sua interezza, non è dunque per un tentativo di emarginare o di ridurre alla subalternità gli altri soggetti, ma per una scelta consapevole di concentrarsi sulla storia e sulla natura di quella specifica realtà.
È sempre difficile raccontare storie che sono in corso e non hanno ancora trovato la loro conclusione. Si rischia di essere superati dagli eventi già pochi minuti dopo aver rimesso il tappo alla penna. Ci sono tuttavia dei momenti cruciali che più di altri segnano uno spartiacque tra ciò che è stato prima e ciò che verrà dopo.
Vicenza ha vissuto uno di questi momenti quando il sindaco Variati ha scelto il palcoscenico del Festival No Dal Molin (dove era stato invitato a un dibattito pubblico sul futuro dell’opposizione alla nuova base) per una dichiarazione inattesa forse nella forma, certo non nel contenuto. Tra lo sbigottimento dei presenti il primo cittadino ha dichiarato di aver fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per fermare i cantieri al Dal Molin. La base sarà fatta – ha detto. Per l’amministrazione è l’ora della responsabilità. Bisogna prenderne atto e lavorare per far sì che la città venga equamente ricompensata per il danno che subirà.
Sono parole inaccettabili: la logica delle compensazioni è aberrante, e viola qualsiasi tipo di dignità, di buon senso, di prudenza. Che legittimità può avere un governo, o un’amministrazione comunale, che abdica al suo ruolo di tutela nei confronti dei cittadini? Un’istituzione che non è in grado di proteggere la propria città dai soprusi e dalle sopraffazioni viene meno alla sua funzione principale.
Principi semplici, che proprio per essere stati smentiti troppo spesso nel corso degli ultimi anni, continuano a essere i punti cardinali del movimento vicentino contro la nuova base militare.
Il popolo delle pignatte si è opposto alla sua costruzione e nonostante tutto continuerà a farlo nelle strade, nelle piazze, sotto ai tendoni, senza sedersi nelle sale e nei palazzi a discutere di compensazioni.
È lo spirito con cui è nato questo libro: per ribadire che di fronte a certe scelleratezze non esistono compensazioni né mediazioni possibili.