di Andrea Lanza
Il nostro amico e corrispondente da Toronto si trova a seguire per caso una manifestazione che si svolge nel centro della capitale dell’Ontario e scopre una mobilitazione in corso nel Punjab. Si torna a un tema che abbiamo già incrociato con le recenti letture del libro di Marco D’Eramo: liberalizzazione è un eufemismo della nuova lingua, sta per incremento dello sfruttamento e dell’oppressione a favore delle grandi multinazionali, con il sostegno degli Stati. Tanti piccoli gruppi, sparsi per il mondo, dichiarano che questo mondo non è ovvio né inevitabile.
1. Martedì 1 dicembre ho finito la mia lezione online verso le quattro, con il solito senso di frustrazione per la stentata interazione virtuale con gli studenti. Dal basso provengono incessanti suoni di clacson e un confuso vociare. È diverso dalla voce enfatica, amplificata dalle casse portatili, del predicatore di strada che spesso si mette all’incrocio qui sotto, ventisei piani più in basso, per esortare la gente a ravvedersi. Mi affaccio: c’è una lunghissima colonna di veicoli che tendono a bloccare il traffico. Dai finestrini e dai tettucci spuntano braccia, teste, cartelli e qualche bandiera. Non sono in grado di decifrare i segni.
Questi cortei motorizzati non sono eccezionali a Toronto. Dicono qualcosa su dove abitano i manifestanti: gli infiniti sobborghi della classe media, da cui ci si muove quasi solo in macchina. Difficile invece capire a colpo sicuro il senso della loro protesta. Diverse settimane fa, per esempio, mi era capitato di veder passare un’infinita fila di veicoli clacsonanti scendere su uno degli assi principali della città, verso Dundas Square: erano armeni che denunciavano la guerra in Nagorno-Karabakh.
Per via di alcuni grossi pickup scuri, mi convinco che in questo caso sia un corteo di quel crogiuolo piuttosto eterogeno che ho già visto concentrarsi nella vicina Dundas Square, la piccola Times Square torontina, il sabato pomeriggio, per denunciare la dittatura sanitaria, il soffocamento da mascherina e un assortimento vario di complotti. E che inneggia indomito a Trump.
2. Spazientito dai clacson, decido di anticipare la spesa al supermarket per vedere il corteo da vicino. Arrivato in strada, vedo un uomo col turbante sporgere dal tettuccio di una grossa macchina agitando il pugno. Dal tettino di un’altra macchina, fa capolino la testa di una ragazza con un sari verde e un piumino blu: in una mano ha un cartello che non riesco a leggere, nell’altra il cellulare con cui cerca di farsi un selfie.
Hanno molto poco dei trumpiani. Mi guardo allora intorno con maggiore attenzione. La strada risuona di clacson e grida. C’è gente, soprattutto composta di giovani, che cammina sul marciapiede con dei cartelli scritti a mano. “No farmers, no food” (“Niente contadini, niente cibo”). Mi dico che la spesa può aspettare e che posso seguirli verso la piazza del comune dove evidentemente stanno convergendo, nonostante continui a cadere una leggera neve e faccia freddo.
Giunto ormai ai bordi della piazza osservo i saluti reciproci, a mano aperta o a pugno chiuso, fra manifestanti a piedi e manifestanti in macchina. Mi si chiarisce a poco a poco il senso della manifestazione: i contadini cui si porta solidarietà sono quelli del Punjab indiano.
La manifestazione appare piuttosto disorganizzata: la colonna di macchina fatica a entrare nel posteggio sotterraneo, e non pochi preferiscono girare nelle strade intorno alla piazza, che risuonano incessantemente dei loro claxon. Ci deve essere anche qualche camion con la tromba cupa che rimbomba fra gli edifici. Leggerò più tardi che fin dall’inizio del pomeriggio colonne di veicoli erano giunte in downtown intasando volontariamente l’autostrada urbana che corre parallela al lago e alcuni incroci chiave del centro. Gruppi di manifestanti a piedi avevano anche inscenato piccoli blocchi stradali a Brampton, comune ai margini della conurbazione di Toronto, a una quarantina di chilometri dal centro, zona in cui si trova il maggiore numero di templi sikh nella città metropolitana.
In piazza c’è una piccola folla che fatico a stimare. Direi duecento persone. Come qui si usa, molte hanno scritto su dei cartoni lo slogan per loro più rappresentativo. “No farmers no food” è senz’altro il più diffuso. Ma leggo anche “I stand with the farmers of Punjab” [solidarietà ai contadini del Punjab], “A fight for farmers is a fight for democracy” [Una lotta per i contadini è una lotta per la democrazia], “Kisaan lives matter” [le vite dei contadini conta – coniato sullo slogan Black lives matter; Kisan in hindi and kisana in pubjabi significano appunto contadino], “Justice for farmers [Giustizia per i contadini], Modi sale for free [Modi svende gratis], “Shame shame Modi, farmes matter” [Vergogna vergogna Modi, i contadini contano]. Quasi tutti i cartelloni sono in inglese, qualcuno però è in una lingua che desumo essere il punjabi scritto, salvo errore da parte mia, in alfabeto gurmukhi (fra gli alfabeti usati per scrivere il punjabi, quello prevalente fra i sikh). Sul retro quasi tutti hanno scritto, seguendo evidentemente un’indicazione condivisa, “6 ft apart” (“6 piedi di distanza”, poco meno di due metri, secondo le regole canadesi di distanziamento fisico).
Altre persone brandiscono piccoli striscioni plastificati con il simbolo del trattore o bandiere stampate con il simbolo di un pugno chiuso rosso contornato da una sorta di corona di foglie e spighe, il tutto su sfondo nero. La gente forma come un enorme cerchio, qualcuno al centro usa in megafono, ma mi è quasi impossibile distinguere le parole di quello che viene detto.
“No farmers no food”: periodicamente la folla urla per molte volte di seguito lo slogan di una logica disarmante. Qualcuno sta anche cercando di montare un sistema di amplificazione migliore. Il buio è ormai sceso, e la neve fine fine non smette di cadere.
3. Solo a casa riesco a chiarirmi il quadro. Innanzitutto, il radicamento storico dei punjabi in Canada fin dall’Ottocento, quando il subcontinente, prima di essere diviso fra India e Pakistan, era, come il Canada, sotto la corona britannica. Nei decenni la comunità è cresciuta fino a superare i 700mila individui (2% della popolazione canadese), in maggioranza di religione sikh. La provincia canadese in cui i punjabi sono maggiormente concentrati è la Colombia Britannica, dove erano emigrati soprattutto per lavorare nel settore forestale. Oggi l’integrazione di questa comunità nella società canadese è comprovata dal fatto che costituiscano il terzo gruppo linguistico, dopo quelli inglese e francese, nel Parlamento federale. Punjabi-canadese è Jagmeet Singh, l’attuale leader federale del minoritario partito social-democratico Nuovo Partito Democratico, conosciuto anche per essere stato il primo a portare il turbante alla Camera dei deputati di Ottawa. Punjabi-canadese, e anch’egli sikh, è il liberale Harjit Sajjan, ministro della difesa. Nell’area metropolitana di Toronto vive una parte importante dei punjabi-canadesi dell’Ontario, che costituiscono poco più del 2% della popolazione della provincia, essendo poco meno di 300mila. Non stupisce allora che ci sia stata l’idea di manifestare, in una piazza simbolica della città, la solidarietà con le migliaia di contadini che nei giorni precedenti, in India, dal Punjabi, sono giunti a piedi a New Delhi, per essere accolti dagli idranti e dai lunghi manganelli in legno della polizia.
I contadini del Punjabi sono in rivolta contro una legge voluta dal governo Modi e approvata dal parlamento indiano con cui si liberalizzano i prezzi di vendita dei prodotti agricoli. Non viene smantellato il sistema di acquisto da parte dello Stato dei prodotti agricoli (a iniziare da riso e cereali), né la rete dei magazzini pubblici di stoccaggio, né le forme di credito pubblico fondamentali per i contadini. Tuttavia, che le agenzie pubbliche di credito, acquisto e rivendita siano spazzate via dai gruppi monopolistici mondiali con cui si troveranno in concorrenza non è affatto una possibilità remota. Alla prova dei fatti, delle cosiddette leggi del mercato, la retorica delle liberalizzazioni potrebbe nascondere per l’ennesima volta le incursioni dei colossi dell’agroalimentare globalizzato. La vita di milioni di piccoli contadini, nonché una parte importante dell’economia del subcontinente indiano rischiano di essere travolte dalle liberalizzazioni che stanno per entrare in vigore.