di Giannarosa Vivian
La nostra amica e socia Giannarosa Vivian ha letto un classico per questi tempi: La peste di Londra, di Daniel Defoe. Il libro che ha avuto tra le mani è la seconda edizione italiana, del 1942 (La peste di Londra. 1722, traduzione di Elio Vittorini, Bompiani, Milano; la prima edizione era uscita nel 1940).
Quando nel 1665 a Londra scoppiò una terribile pestilenza Daniel Defoe doveva avere all’incirca cinque anni. Quasi sessant’anni dopo, nel 1722, la racconta in un libro (A journal of the plague year) che sta a metà tra il romanzo e il resoconto, scegliendo come voce narrante un sellaio di Whitechapel. Per ripercorrere l’anno infausto dell’epidemia – il suo progressivo dilagare di zona in zona, le decisioni che vennero prese dalle autorità, le conseguenze sociali ed economiche – Defoe si avvale dei documenti dell’epoca, sulla base dei quali riporta con precisione numeri, luoghi, date, nomi. Si capisce però che attinge anche a un’altra grande fonte, cioè ai ricordi mantenuti vivi nel tempo grazie a storie che passano di bocca in bocca, di casa in casa, e che a lui capitò di ascoltare, chissà quante volte e in quante varianti diverse, per tutta la vita. Sono episodi, scene, dialoghi che vengono messi in scena talvolta nella forma classica del copione teatrale.
“Fu intorno al principio di settembre del 1664 che io seppi dai miei vicini come la peste fosse tornata in Olanda, dove già, e particolarmente ad Amsterdam e Rotterdam, aveva infierito l’anno prima; portata, dicevano alcuni, dall’Italia; altri dal Levante con le merci scaricate in porto dai legni di Turchia; altri da Candia: altri, infine, da Cipro. Ma che cosa importava di dove venisse? Importava solo che vi fosse di nuovo la peste in Olanda”. Così inizia il racconto del sellaio.
Le notizie giungevano a Londra tramite le lettere dei mercanti, correvano di bocca in bocca ma, non esistendo ancora i giornali, non si poterono diffondere di colpo e ovunque. Il governo, da parte sua, pur avendo ricevuto informazioni precise mantenne il segreto.
Tre mesi dopo. A fine novembre, primi di dicembre, due uomini morirono di peste nei pressi del Covent Garden: comincia la conta dei morti e delle relative parrocchie di appartenenza. La crescita dei numeri è lenta e discontinua. Sale, poi si ferma per settimane, poi il morbo riprende con virulenza, ma sempre nella parte nordoccidentale della città. Il freddo dell’inverno induce a credere che il pericolo sia passato.
Arriva il maggio del 1665, “ma ancora il tempo era fresco e si continuava a sperare”, e invece col caldo di giugno la peste è ormai diffusa.
Ognuno fa il possibile per nascondere la malattia, si teme che i vicini di casa fuggano, che la casa venga chiusa d’autorità e per questo si camuffano le morti sotto altre voci (febbre purpurea, febbre intestinale…).
Nel frattempo nella zona a sud del Tamigi, il Southwark, e in quella a est della City, si vive in relativa tranquillità. Il sellaio assiste con malinconia al “passaggio continuo di cocchi pieni di dame e gentiluomini, e uomini a cavallo che li accompagnavano, e carri e furgoni carichi di roba e donne, bambini, servi” diretti verso la campagna. Carri e cocchi fanno la spola, passano pieni e poi tornano vuoti a riprendere altra roba e altra gente. La frenesia del via vai è alimentata da voci allarmanti: i fuggiaschi troveranno steccati e barriere eretti apposta per bloccare le strade e impedire la circolazione.
Il sellaio prende in considerazione due possibilità: potrebbe restare a Londra e curare i suoi interessi e quelli dei servitori con le relative famiglie, la casa, la bottega, non ultimi i rapporti con i mercanti del Nuovo Mondo con cui è in contatto. Oppure potrebbe seguire l’invito del fratello maggiore, anche lui imprenditore tornato da poco dal Portogallo, che gli consiglia di lasciare Londra perché, a suo dire, il modo migliore di prepararsi alla peste è starne alla larga. Il sellaio si convince a chiudere casa e scappare come tanti suoi vicini, quand’ecco che il destino decide al posto suo: pare che in città non si trovino più cavalli. Partirà a piedi, allora, portando con sé come ricovero una tenda da soldati per evitare gli alberghi, e la compagnia di un servitore. Ma il servo scappa senza aspettarlo. Insomma “Iddio voleva che restassi a Londra”, conclude il sellaio.
Il fratello lo accusa si pensarla come i musulmani che ritengono tutto sia predestinato, e con questa idea si lasciano contagiare senza riguardi, e muoiono a migliaia mentre i mercanti cristiani, che sanno come riguardarsi, sfuggono al contagio. Il sellaio è preso da questo tira e molla, e intanto il tempo passa, l’epidemia si diffonde, i morti sono ormai settecento alla settimana. Quando finalmente si decide a partire è troppo tardi: la donna alla quale doveva lasciare in custodia la casa e i magazzini si è ammalata, e anche lui non sta bene. Siamo a metà luglio.
Dalle parrocchie occidentali della città la peste avanza verso est, verso le parrocchie suburbane più popolose e piene di poveri. Per il momento si salvano la City e il Southwark. Un mese prima i reali con tutta la Corte avevano abbandonato Londra e si erano stabiliti nei palazzi di Oxford. “È da supporre che la peste non li sfiorò nemmeno – commenta il sellaio – poiché non mi risulta che abbiano mai dato un segno qualunque di gratitudine e promulgato qualche riforma, per quanto la voce popolare attribuisca oggi quel flagello ai vizi ed eccessi loro”.
La gente ha tanta paura, e la paura la rende succube dell’“errore del tempo”: il culto dei sogni, le profezie, le divinazioni astrologiche, le superstizioni. Ovunque si riconoscono segni premonitori. Sarebbe state soprattutto donne ipocondriache – e qui il sellaio si dimostra figlio del suo tempo – a parlare di presagi: prima della peste vedono apparire nel cielo comete, stelle fiammeggianti, e lo stesso avverrà l’anno seguente, quel 1666 che sarà ricordato per il grande incendio di Londra. Si dirà in seguito che la cometa della peste era di color “languido e fosco” e si muoveva “con gravità e lentezza”, mentre quella dell’incendio era “sfavillante e di viva luce” e si muoveva “con arrabbiata rapidità”. E non poteva essere diversamente, dato che la prima annunciava “un flagello lento e inesorabile qual fu in effetti la peste”, la seconda “un castigo improvviso e breve qual fu l’incendio”.
Circolano in città libri e libercoli scritti apposta per spaventare il pubblico e predicono la rovina della città, tipo Sodoma e Gomorra. Fanatici pretendono di essere mandati da Dio a predicare la penitenza: “Quaranta giorni ancora, e Londra sarà distrutta”. Un tizio seminudo gira per le strade gridando giorno e notte “Oh il grande e terribile Iddio!”.
La gente racconta i sogni che fa, ode voci, vede apparizioni in cielo e in terra: dalle nuvole escono mani che impugnano spade di fuoco, angeli vestiti di bianco, spettri che camminano sulle tombe. Ma guai a dire che queste voci uno non le sente, o le apparizioni non le vede! Ben visibili ovunque sono iscrizioni del tipo “Qui abita un indovino”, “Qui potete conoscere la vostra sorte”, immagini di Bacone e di Mago Merlino. Ladri, ciarlatani, tagliaborse, truffatori di povera gente credulona; filtri, esorcismi, amuleti, pozioni magiche.
Da soli quattro anni è tornata sul trono la monarchia ed è stato restaurato il culto ufficiale della chiesa anglicana. Poiché i presbiteriani, gli indipendenti, e le altre confessioni minori avevano cominciato a “erigere altari contro altari”, il governo aveva proibito le loro riunioni e li avversava in tutti i modi. Adesso, nell’emergenza, si permette l’esercizio pubblico dei vari culti e la gente assiste alle funzioni sacre senza preoccuparsi di quale confessione religiosa si tratti: la pestilenza fa tornare per qualche tempo la concordia. “Qui mi permetto di osservare, e spero che non si vorrà farmene una colpa, come l’incombenza della morte riconcilii in breve gli uomini di buoni principii tra loro, mentre la tranquillità di una vita senza pericoli fomenti ogni sorta di discordie, rivalità, divisioni, pregiudizi. Un altro anno di peste, io credo, avrebbe appianato tutte le differenze sociali e religiose tra noi; sarebbe stato un altro anno di serrati rapporti con la morte, e avrebbe tolto via tutto il fiele, tutta l’animosità delle nostre competizioni, ci avrebbe ridotto a veder le cose in un modo diverso da quello in cui, purtroppo, le vediamo ancora oggi”. Così il sellaio.
Quando finalmente viene dichiarata l’epidemia, il Lord Mayor (il sindaco della City), gli sceriffi (funzionari di polizia locale), gli Aldermen (gli assessori comunali del tempo) e parecchi componenti del Common Council prendono la risoluzione di restare in città per mantenervi l’ordine, amministrare la giustizia, distribuire elemosine ai poveri. Per impedire la diffusione del male i magistrati emanano una serie di Ordinanze.
La prima Ordinanza. Vengono nominati ispettori per ogni parrocchia. Loro compito è vigilare sull’aspetto sanitario della zona, sapere in quali case ci sono malati, quanti sono e di quale malattia soffrono. Quando trovano una persona infetta, ordinano a un sergente di chiuderne la casa.
Davanti a ogni casa infetta sono collocati due guardiani, uno per il giorno, uno per la notte. Loro compito è controllare che nessuno entri o esca, e accudire i malati rinchiusi. Se viene mandato a fare qualche compera, il guardiano deve chiudere la porta e portarsi via la chiave.
Le visitatrici, donne di onesta reputazione, hanno il compito di controllare il corpo delle persone che muoiono, e riferire, sotto vincolo del giuramento, se sono morte di peste o di altre malattie.
Ad affiancare le visitatrici ci sono dei cerusici appositamente nominati. A differenza delle figure precedenti, per i cerusici si parla esplicitamente di un compenso in denaro. Paga il malato stesso o, se questi è indigente, la parrocchia.
Per le sole infermiere vale la regola della segregazione in casa per 28 giorni nel caso in cui abbiano servito in una famiglia infetta.
A questa Ordinanza ne seguono altre tre. Questo il contenuto.
Il proprietario di ogni casa è tenuto a notificare agli ispettori della parrocchia l’eventuale comparsa di segni particolari – bubboni, pustole, macchie rosse – sul corpo di uno dei suoi abitanti.
La persona malata, se si ritiene che sia peste, viene chiusa in casa finché sarà colta o dalla morte o dalla guarigione. Se guarisce, deve restare in casa per un mese, se muore sarà la casa a restare chiusa per un mese.
Prima di venire rimessi in uso, tutti gli effetti letterecci, tappeti, tendaggi delle case infette devono essere disinfettati dagli ispettori col fuoco e gli aromi necessari. Cosa succede se uno ha due case? Può scegliere in quale casa trasferire i sani e i malati, purché se vanno prima i sani dopo non ci vadano anche i malati, o al contrario non trasferisca i sani se prima ci abitavano i malati.
I funerali saranno celebrati senza pubblico. Quelli degli appestati vanno fatti dal tramonto all’alba.
Dalle case infette niente va portato via per essere venduto o impegnato.
Sulle case infette, in un punto ben visibile, viene segnata una croce rossa alta un piede (circa 30 centimetri), e le parole “Il Signore abbia pietà di noi”.
Le visitatrici, le infermiere, i cerusici e i becchini sono tenuti a portare in mano, quando passano per le strade, una verga o una bacchetta di colore rosso alta tre piedi.
Le vetture a nolo che trasportano persone malate vanno disinfettate e lasciate fuori uso per cinque o sei giorni prima di riprendere servizio.
La pulizia della strada è affidata a ogni capofamiglia che provvederà quotidianamente alla pulizia del tratto di strada corrispondente ai limiti della propria casa.
Le immondizie vanno raccolte ogni giorno da un addetto che annuncerà il suo passaggio col suono del corno, come si era sempre fatto.
Lo scarico delle immondizie va effettuato il più lontano possibile dall’abitato, e “nessun vuotacessi o altra persona dovrà permettersi di vuotare una fogna su un orto contiguo alla città”.
Proibito vendere pesce che puzza, carne guasta, grano ammuffito e frutta marcia. Proibito tenere porci, gatti, cani, piccioni conigli. I maiali che girano per le strade saranno sequestrati, i cani uccisi.
Divieto di circolazione per accattoni e vagabondi.
Rigorosamente proibite tutte le rappresentazioni di comici, saltimbanchi, giocolieri, cantastorie e ogni altra manifestazione che possa produrre un assembramento di persone sia in luogo chiuso che all’aperto.
Proibiti i banchetti e i pranzi nelle birrerie, taverne, osterie.
Divieto di vendita di bevande nelle bettole dopo le nove di sera.
La scelta di chiudere in casa sani e malati insieme era considerata crudele, e tanti protestavano che avrebbero potuto salvarsi dal contagio allontanandosi dagli infetti. La gente ricorreva a ogni stratagemma possibile per liberarsi dalla quarantena in casa. Il più diffuso era scappare da una porta di servizio o dal tetto mentre i guardiani stavano di guardia davanti al portone di casa. Oppure mandare i guardiani a fare delle compere, medicinali o cibo, o a chiamare il cerusico o i becchini, e approfittare della loro assenza per scappare. I guardiani chiudevano la porta a chiave e se la portavano via, è vero, ma la gente spesso possedeva una chiave di riserva, o riusciva a divellere la serratura: arrivò l’ordine di applicare catenacci e lucchetti all’esterno delle porte. Le arti usate per eludere la sorveglianza dei guardiani e scappare riempirebbero un volume, scrive il sellaio, che a questo proposito riporta alcune storie.
Nel caso – Dio non voglia! – dovesse ripresentarsi un’altra epidemia del genere, ecco alcune indicazioni che possono rivelarsi utili a chi legge.
Primo. Di solito l’infezione viene portata nelle case dalle persone di servizio, che girano per botteghe e mercati frequentati a loro volta da gente infetta.
Secondo. Nelle grandi città ci devono essere più lazzaretti e non uno solo. Tanti lazzaretti potrebbero ospitare migliaia di malati, un letto per camera e un malato per letto.
Terzo. Il contagio avviene tramite vapori o fumi, chiamati in medicina effluvia, i quali si sprigionano dal respiro, dal sudore, dalle piaghe. Bisogna dunque evitare i contatti con la gente, accantonare provviste di cibo e altro, vivere ritirati in casa propria.
Il sellaio non è stato saggio, lo riconosce, non ha fatto scorta per tempo. Adesso, che continua a uscire e girare per la città, assiste a scene orripilanti, gente tormentata dai bubboni che si impicca o si butta dalla finestra. Ascolta il consiglio di un amico medico che lo convince a chiudersi in casa e a rimanerci per qualche tempo. “Ci fece serrare le finestre e abbassar le tende dappertutto, e prima volle che disinfettassimo tutte le stanze con una fumata di catrame, resina e zolfo”. Ma la mancanza di viveri obbliga il sellaio a uscire ancora. Siccome in casa c’è il forno, compra due sacchi di farina, e per due settimane il problema del pane è risolto. Compra anche una grande quantità di orzo per fabbricare la birra, e burro salato e formaggio di Cheshire. Solo per la carne non riesce a fare provvista perché la situazione nei mercati è terribile: gente con la peste addosso crolla per terra all’improvviso e muore mentre sta tendendo la mano per pagare. Chi muore lungo la strada viene lasciato sul marciapiede fino a sera quando passeranno i monatti.
Tra tanti morti c’è chi si salva pur avendo a che fare con i cadaveri. È il caso del sacrestano aggiunto della chiesa di Santo Stefano. Un sacrestano aggiunto fa anche da becchino, il che significa passare per i vicoli col carro e la campana, e raccogliere i morti per le case. Come ha fatto a salvarsi? Teneva uno spicchio d’aglio o un po’ di ruta in bocca, e fumava tabacco. Sua moglie, che serviva da infermiera e curava molti appestati, usava come rimedio l’aceto per lavarsi la testa e i vestiti, che manteneva sempre umidi. E se la puzza degli infermi che assisteva era troppo forte, la donna si teneva un fazzolettino inzuppato di aceto davanti la bocca.
In città si fermano i commerci tranne quelli collegati all’alimentazione, sicché tutta una serie di categorie di lavoratori restano sul lastrico. Anche le famiglie agiate abbassano il tenore di vita, per cui non hanno più bisogno di cocchieri, commessi, segretari, domestiche, lacchè, portinai.
Non si verificano disordini né tumulti, tanto si sa che è inutile saccheggiare le ville dei ricchi, che sono scappati presto in campagna senza lasciare provviste nelle abitazioni, e ancora c’è modo di sopravvivere grazie agli alimenti e ai soldi distribuiti dai magistrati. In più è la stessa furia della peste a rendere docili le classi infime: più di trentamila persone povere morirono tra agosto e ottobre. Secondo i bollettini ufficiali il numero complessivo delle vittime fatte dalla peste fu 68.590, di cui la maggior parte in quei tre mesi del 1665.
Bunhill Fields Burial Ground (Londra, Islington). Antico cimitero dei Nonconformisti, ora giardino pubblico.
Nel 1665 ospitò fosse comuni di morti di peste.
Quando i medici ammisero che, se incubavano il male, anche le persone apparentemente sane potevano contagiare gli altri, la maggior parte delle famiglie si chiusero in casa per non venire a contatto con nessuno, mentre chi usciva aspirava sali, beveva antidoti, e si lavava con aceto di continuo, comunicando con gli altri sempre da distante. Ma i poveri? Per quanto rischiassero l’infezione, dovevano cercarsi un lavoro senza badare al pericolo. Che dobbiamo fare? – dicevano rassegnati – Non possiamo morire di fame. Tanto vale che ci porti via la peste.
Nel periodo peggiore dell’epidemia il sellaio decide di chiudersi in casa. Ma la salute è buona, e presto comincia a spazientirsi di “quella vita senza aria” sicché verso la fine della seconda settimana, non potendo più resistere, esce per imbucare una lettera al fratello. Camminando per strade deserte gli capita di assistere a un fatto curioso. In un angolo di un cortile un uomo parla con un tizio affacciato alla finestra, il quale a sua volta parla con un altro uomo che sta aprendo la porta di un ufficio. In mezzo al cortile giace per terra una borsa di cuoio con due chiavi che pendono, e delle monete. Dicono che la borsa è lì da quasi un’ora ma nessuno osa toccarla. Il timore di essere infettati si combina col rimorso di impossessarsi del denaro altrui. L’uomo della porta decide infine di prendere la borsa e di tenerla da parte per il proprietario quando tornerà a riprendersela. Va al pozzo e colloca vicino alla borsa un secchio d’acqua. Sparge sulla borsa un sacchetto di polvere da sparo, formando una coda lunga quasi due metri. Con un paio di molle da caminetto roventi dà fuoco alla polvere partendo dall’estremità della coda. La borsa resta bruciacchiata, le monete cadono dalla borsa dentro il secchio d’acqua che a quel punto viene portato in casa dell’uomo.
Altra storia. Nella sua ora d’aria il sellaio si dirige verso il Tamigi, gli interessa vedere come stanno le cose sul fiume e sui battelli. Incontra un povero barcaiolo che, unico non contagiato della famiglia, continua a lavorare e la sera dorme in barca per procurare il necessario ai famigliari, chiusi in casa e ancora vivi. Che tipo di lavoro potrà mai fare un barcaiolo di questi tempi, gli chiede il sellaio. C’è ancora gente che ha bisogno dei servizi che faccio con la mia barca, gli risponde l’uomo. In mezzo al Tamigi infatti sono all’ancora file di bastimenti, a due a due, a tre a tre, e molti altri sono agli ormeggi. Dentro ci sono le famiglie degli armatori e dei capitani che vi si sono asserragliate per paura del contagio. Necessitano di tutto, e lui compra roba, imposta lettere, fa quello che loro dovrebbero scendere a terra per fare. Come avviene la consegna? C’è una scialuppa che fa da tramite, lui ci lascia dentro la merce e loro la tirano a bordo. Il barcaiolo si approvvigiona di frutta e verdura fresca a Greenwich, burro polli e uova nelle fattorie lungo il fiume. Finisce che il sellaio, che si sente fortunato nel non avere moglie e figli di questi tempi, fa un gesto di generosità e gli regala dei soldi.
Un discorso a parte merita l’alto numero di donne che morirono di parto durante la pestilenza, di bambini nati morti e di aborti. Nell’anno della peste il totale dei numeri registrati sotto queste tre voci fu il doppio rispetto all’anno precedente. Ma la differenza, in proporzione, doveva essere molto maggiore se si pensa che la popolazione di Londra si era ridotta di un terzo.
Quanto ai rapporti tra londinesi fuggiaschi e abitanti dei comuni di campagna circostanti la metropoli, c’è da dire che gli abitanti dei villaggi sono cauti, guardano con sospetto e paura le comitive di sconosciuti che arrivano carichi di bagagli, soprattutto se privi di un certificato che ne attesti lo stato di buona salute. Vengono erette barriere, si rifiutano i granai e le capanne come ricovero temporaneo. Spesso intervengono le guardie per impedire che gli sconosciuti attraversino i centri abitati.
L’infezione non si diffonde tanto per via dei malati quanto per via dei sani, o perlomeno di chi apparentemente è sano. Un uomo se ne va in giro liberamente, parla con tutti per strada e nei locali pubblici tenendo in tasca un antidoto da usare in caso di pericolo: ha una ferita sulla gamba, e quando capita vicino a una persona infetta questa ferita gli manda un segnale: comincia a fargli male e diventa bianca. In questo caso lui pianta la compagnia e beve il suo cordiale. Spesso gli capitò di andarsene dicendo: “Amici, in questa stanza c’è qualcuno che ha la peste”. Si sarà salvato? Chi lo sa, vero è che nel pericolo bisogna diffidare più che mai delle apparenze. “Ognuno si guardava bene dall’avvicinare un uomo che avesse la testa bendata o il collo fasciato, ma se vedeva un gentiluomo vestito di tutto punto con la sciarpa intorno alla vita, i guanti in mano, il cappello in testa e la chioma ben pettinata non aveva timore alcuno di lui e con lui conversava liberamente”.
Prima di concludere il racconto il sellaio affronta il tema del commercio durante l’epidemia. Le nazioni mercantili europee – Francia, Olanda, Spagna, Italia – chiudono i porti alle navi inglesi. I mercanti inglesi d’altra parte hanno di comune accordo sospeso i traffici. Le navi non possono approdare, né le merci essere accettate in nessun luogo. Si temono i prodotti trasportati non meno che le persone, così che se una nave inglese riesce ad arrivare in un porto straniero e ottiene il permesso di scaricare, le merci vengono sballate ed esposte all’aria per molti giorni, quelle provenienti da Londra in particolare.
Spagna e Portogallo mettono in atto un severo ostracismo, meno rigidi sono i Turchi e le isole veneziane dell’Egeo. Nessuno però sa giocare d’astuzia quanto i mercanti. Un esempio valga per tutti: le navi che non possono essere scaricate a Livorno e a Napoli proseguono per l’Asia Minore dove non trovano difficoltà. I mercanti di Livorno e Napoli vengono informati, mandano persone di fiducia a prendere le merci, caricarle su altre navi che torneranno in Italia come se provenissero da Smirne o “Scanduria” (la “Scanderoon” di Defoe, cioè Alessandretta). In qualche caso però si fallisce: una nave che trasporta un carico di panno tenta di scaricarlo di nascosto, ma gli spagnoli fanno bruciare la merce e passano per le armi gli uomini.
Le voci allarmistiche – per esempio che a Londra morissero ventimila persone alla settimana – ebbero un effetto disastroso sul commercio, che ne risentì fino a molto tempo dopo la fine dell’epidemia. Per primi se ne avvantaggiarono i fiamminghi e gli olandesi, i quali approfittando della situazione soppiantarono gli inglesi quasi ovunque, comprarono le manifatture nelle città inglesi risparmiate dalla pestilenza, e trasportarono poi le merci in Italia e Spagna come fossero prodotti loro.
Un giorno della seconda metà del settembre 1665, a un anno dall’inizio, la furia del morbo sembrò ormai vicina a placarsi. Tale è il carattere avventato e imprudente dei londinesi – dice il sellaio – che, come prima avevano abbandonato la città in preda al panico, così ora tralasciano le precauzioni, cominciano a frequentare le persone infette, a bere e mangiare in compagnia, a visitare i malati gravi. La notizia che l’epidemia sta per spegnersi raggiunge le campagne, gran parte dei profughi riappare in città. Conseguenza: aumenta il numero dei decessi. Ma l’impennata è l’ultimo colpo di coda. Nella maggior parte dei casi il morbo aveva perduto il suo carattere maligno, e l’inverno si avvicinava a grandi passi purificando l’aria. La mortalità continua a decrescere “e fu meraviglioso come d’un tratto la città apparve di nuovo piena di gente e animata tanto che un forestiero non avrebbe notato la mancanza delle migliaia di persone spazzate via”. Solo il commercio con l’estero tarda a riprendere il suo vigore: solamente dopo molti mesi dalla fine dell’epidemia i Paesi europei decisero di riallacciare i rapporti con gli inglesi.
Tra i dotti si continuò a discutere a lungo, e ciò suscitò una certa perplessità della gente comune, circa il modo di disinfettare le case visitate dalla peste, così da renderle di nuovo abitabili. “Grande fu la varietà di fumi e profumi prescritti dai medici, e la gente che diede loro retta andò incontro a forti spese […] i poveri che si limitarono a tenere aperte le finestre giorno e notte e bruciar zolfo, catrame e polvere da sparo nelle stanze, non si trovarono per nulla peggio degli altri”. Per eccesso di zelo, parecchie case presero fuoco del tutto o in parte, a qualcuna saltò via il tetto per lo scoppio di una carica di polvere troppo forte. Lo scatenarsi dei tanti incendi offrì il destro ai ciarlatani per sostenere che il seme dell’infezione era stato estirpato dal fuoco. Idea assurda: la peste non tornò più neanche nelle parrocchie risparmiate dagli incendi.
La Corte tornò in città poco dopo Natale, ma nobili e gentiluomini che non avevano un incarico nell’amministrazione se la presero comoda.
Un giovedì mattina appare chiaro, dalle cifre riportate nei soliti bollettini settimanali, che il giro di boa è definitivo. La gente si stringe le mani per strada, apre le finestre e si chiama da una casa all’altra e si parla e si saluta. Chi ancora non sa niente esce a chiedere “Quale buona notizia?” e gli altri, pronti, rispondono che i decessi sono quasi duemila in meno, la peste sta per finire. Il morbo ha perduto la sua forza, chi è infetto riesce a guarire, suda abbondantemente, la febbre non è più tanto alta, la testa non duole. Tutti, credenti e non, parlano di intervento soprannaturale. Anche se a ben vedere, conclude il sellaio, come nel passato era successo per i figli di Israele dopo il passaggio del mar Rosso e lo sterminio degli egizi, altrettanto i londinesi che lodavano Dio il misericordioso presto si sarebbero dimenticati della sua opera e sarebbero tornati a essere quelli di sempre. Con questi versi “rozzi ma genuini” si chiude il racconto di quell’anno funesto:
Vi fu a Londra una peste spaventosa,
nell’anno sessantacinque, nostro evo;
si portò via centomila anime,
eppure io rimasi vivo.
Bunhill Fields Burial Ground (Londra, Islington). Monumento funebre a Daniel Defoe.
Mogliano Veneto, 29 marzo 2020
Nota. Lettura di Daniel Defoe, La peste a Londra. 1722, trad. it. di Elio Vittorini, Bompiani, Milano 1942 (prima ed. it. 1940). Il traduttore, nella sua Introduzione, avverte che si tratta di una versione ridotta rispetto l’originale, poiché “ci siamo permessi di operare alcuni tagli in quei tratti di arida esposizione che molte ripetizioni e ricapitolazioni rendevano pesante la lettura”.
La mappa di Londra e dintorni è tratta da questo volume (p. n.n.).
Anche le foto che illustrano la lettura sono di Giannarosa Vivian (giugno 2012). Questa la traduzione della iscrizione sulla base della stele di Defoe: Questo monumento è il risultato di un appello rivolto sul giornale “Mondo Cristiano” ai ragazzi e alle ragazze d’Inghilterra per raccogliere fondi destinati a un degno memoriale sulla tomba di Daniel De Foe. Rappresenta i contributi di millesettecento persone. Settembre 1870.
Elettra dice
Ciao Gianna, è proprio così i fatti si ripetono uguali e diversi a seconda del tempo in cui si vive, un esempio le mascherine vendute a prezzi spropositati!!! è una vergogna ma c’è sempre chi deve speculare a danno di altri. Vogliamo però continuare a sperare che le persone cambieranno. Un abbraccio Elettra
Maria Luisa Torre dice
Siccome è opera tua ho superato il disagio di leggere un testo che, a naso, non poteva che narrare le amare verità che contiene. E' proprio vero che "nihil novi sub sole"! Così va il mondo. Mi è venuto in mente il delizioso saggio di Cipolla sugli stupidi che è sempre una lettura corroborante. La grande domanda è: quanto durerà? Grazie e tanti auguri. Chissà se mangiare aglio fa bene, ma… un saluto affettuoso Maria Luisa
poci dice
ho letto con interesse massimo. aiuta a pensare. grazie Gianna. pensiero fisso: ma quale progresso… se ripetiamo tutto come allora?