di Camilla Cederna
Si avvicina l’anniversario dell’8 settembre 1943. Per ricordarlo, quest’anno cominciamo da un articolo che Camilla Cederna pubblicò sull’edizione pomeridiana del Corriere della Sera datata 7-8 settembre 1943. Dopo il 25 luglio, il regime sembra alle spalle; modi di vestire e gesti che, fino a poco prima, sembravano – almeno a quasi tutti – ordinari e costitutivi della vita quotidiana, diventano ora oggetto di scherzo in pubblico. L’ironia della Cederna colpisce soprattutto le donne che hanno accettato di seguire “uno stile assurdo e alquanto disumano”, imitando “i loro superiori e gerarchi”. Scrivendo in quei giorni, uniformi nere e distintivi sembravano destinate a finire nelle discariche insieme alle macerie delle città bombardate.
Se verranno conservate certe fotografie ufficiali negli albums di famiglia potrà capitare che i bimbi un giorno, sfogliandoli, si domandino come mai la nonna o la mamma in quei tempi vestissero a lutto, e perché si fossero messa la cravatta del babbo, e, sulla testa, un bizzarro cappellino a barchetta che le rendeva davvero assai brutte. Possibile poi che fossero quelle medesime donne, in altre pagine intente a fasciare un neonato o ad annaffiare rotonde aiuole di rose con vaghi gesti e chiari vestiti?
Perplessi i bambini guarderanno le funebri fotografie, cercando di capire la ragione di tale corrucciata assemblea, strani personaggi vestiti di nero e la cara nonna anche lei con un viso insolito che non va d’accordo col copricapo bizzarro, un’aria scura e importante, il collo teso ad udire chi sa quali misteriose parole, tutt’altro che liete però a giudicare dall’espressione. Mah! I bimbi talvolta si contentano di risposte evasive e d’altronde non capirebbero bene cosa vuol dire fiduciaria provinciale; allora volteranno la pagina, cercando immagini di onde e di giochi o più gradevoli gruppi familiari. Ad un tempo che non è il loro appartengono le nere fotografie, a un tempo in cui la portinaia, vedendo uscire di casa la nonna in questione, l’andava paragonando, salvo il dovuto rispetto, ad uno scarafaggio, anzi in dialetto diceva: «La par un burdòch» e strano, pensava, dato che era ancora una signora piacente; peccato inoltre che, tanto mite di solito, quand’era in divisa, si desse un sacco di arie!
Grossi insetti parevano infatti, viste da lontano, le donne dentro all’opaca uniforme fascista, che con la lunga giacca, irrazionale modello da deserto in lana nera e il cinturone in vita, ingoffiva ogni figura nascondendone le grazie e svelandone gli occulti difetti. Confezionata con ruvida stoffa, tale divisa aveva soprattutto il compito di apparire austera, ma riusciva sovente a suscitar sorrisi nei circostanti: le graduate di qualche importanza, chi sa perché, erano quasi sempre signore di forme opulenti, e massicce risultavano allora certe vaste schiene in pendenza, prepotentissimi certi petti invano frenati dal taglio maschile della sahariana, il tutto sormontato dalla bustina, pensile e incerta su masse di ricci di permanente, su dovizia di trecce arrotolate. Malamente trattenuto da un’armatura di mollette, questo baldanzoso complemento d’abito cupo stava in bilico sopra svariate forme di cranio e minacciava di precipitare al minimo soffio di vento o allo scatto metallico del salito romano, assolutamente rifiutandosi di aderire ai capelli, di adattarsi in modo congruo ai molteplici capricciosi profili.
Ma grande era il fascino esercitato da questa divisa sulla maggior parte delle donne iscritte al partito, e specialmente su quante possedevano un grado. La prendevano insomma straordinariamente sul serio, quale sicuro elemento di prestigio e d’autorità e quando la rivestivano, avveniva in loro come per magia un mutamento radicale: a tante buone signore bastava infatti abbottonarsi la giacca e fare il nodo alla cravatta, perché subito cambiassero di tipo e d’espressione. Gli occhi, strano a dirsi, perdevano il loro solito sguardo per assumerne un altro posticcio, fiero e senza dolcezza, le sopracciglia si avvicinavano corrugandosi, mentre un piglio secco uniformava tutti i loro gesti.
E l’aria d’importanza! Quasi nessuna ce l’aveva innata, ma la prendevano a prestito per quelle determinate cerimonie ufficiali, un fare pomposo che forse comunicavan loro l’orbace e le controspalline e che si risolveva poi in occhiate poco indulgenti sulla folla all’ingiro, vestita in borghese o di tela a fiorellini. L’avevano acquistata probabilmente per un fenomeno di mimetismo, a furia di veder procedere i loro superiori e gerarchi con gli occhi fissi in avanti e un cipiglio di supponenza e di sicurezza che veniva dall’abitudine al comando e dalla pronta ubbidienza dei subalterni, e con molta diligenza avevano cercato d’imitare tale tipo consacrato dal giornale «Luce», facendo proprio uno stile assurdo e alquanto disumano. Qualcuna veramente c’era riuscita in pieno, e già prima d’uscir di casa poteva capitare che il marito e i teneri figli rimanessero vagamente impressionati dal suo aspetto mutato e solenne. Partivano così per delle visite agli ospedali, per il battesimo di un gagliardetto o d’una profuga russa, per incolonnare massaie rurali o madri prolifiche, con il petto all’infuori e un passo militaresco che non era il solito loro, e, sul posto, pur facendo probabilmente il loro dovere, si compiacevano d’un rude contegno, lanciando intorno sguardi severi, irrigidendosi e facendo irrigidire le compagne in geometrici e prolungati saluti.
Sacerdotesse d’una setta senza sorriso, camminavano come se solo per loro suonassero marziali fanfare, e in chiesa, impettite, durante la benedizione d’un labaro, non pregavano neanche, ché certo la divisa non era fatta per accordare orazioni. (Al battesimo d’una giovinetta d’Odessa assistetti anch’io un mattina, e l’altare brulicava di queste importanti signore che intimorivano la neofita e i chierici incaricati dell’incenso con continui ordini perentori: «Attenti! In ginocchio! Giù la testa! Voltatela a destra per il lampo al magnesio!» e anche l’insigne prelato vestito di porpora era divenuto un personaggio di sfondo, sommerso dal nero gruppo indaffarato, mentre la fanciulla si faceva sicuramente uno strano e poco evangelico concetto di siffatto elementare sacramento.) Eccezioni ce n’erano pure e qualcuna, specie tra le giovani, sembrava soltanto stranamente mascherata, sorridendo sotto la bustina e inalberando gai particolari fuori ordinanza quali ciondoli sul petto, altissimi tacchi e abbondante rossetto, ma le comandanti, le capogruppo certo le disprezzavano. Credo invece che le più anziane e dimesse, così bardate si trovassero a disagio, e camminavano impacciate guardando il prossimo come se chiedessero scusa.
Tristi abiti dunque, a giudicare anche da simili effetti; ora stanno scontando un periodo di sussiego e parata e chi sa dove sono, a quale ufficio sono stati adibiti, rendendo più libere e sciolte con la loro scomparsa le donne che usavano rivestirli.
Proprio in una di queste divise m’imbattei l’altro giorno, che, rigida e gonfia, con le spalline imbrattate di polvere e i fasci resi alquanto opachi dal fumo, giaceva sulle macerie di una casa crollata, e la sua proprietaria la stava raccogliendo insieme ad altri vestiti per trasportarla in un intatto appartamento d’amici. «Questa qui la possiamo proprio lasciare» suggerì la cameriera additandola, «tanto non serve più»; al che la padrona rispose he se ne potevano fare calzoncini pei bimbi. «Oh no» fece con una smorfia la donna, «punge troppo!» Ma la signora, per antico affetto, ostinazione o senso d’economia, la sollevò spolverandola, e si accinse a portarla sulle braccia insieme agli altri abiti salvati. Prima d’uscire dal portone però ebbe un attimo di esitazione, quindi, constatato il notevole traffico per via Borgonuovo, tornò in cortile e fasciò stretta la divisa dentro a una tenda fiorita, occultandola con ogni cura alla vista dei passanti, ché non ne sporgesse neanche un angolino, e parve allora trasportare una spoglia inanimata di cui, per pudore o rispetto verso il pubblico, si volessero nascondere le fattezze. Un rumore metallico segnò a un certo punto la caduta d’una piccola aquila di latta, che più che a un’aquila somigliava a un piccione arrostito, ma nessuno si chinò a raccattarla: solo per un momento luccicò sul selciato, poi un piede frettoloso la spinse tra i cocci e i rottami, ove si celò.
Nota. Camilla Cederna, La moda nera, “Il Pomeriggio”,7-8 settembre 1943. Il Pomeriggio era l’edizione del pomeriggio del “Corriere della Sera”; dal 3-4 agosto 1943 al 23-24 aprile 1945 uscì come testata autonoma. Riprendo il testo dell’articolo da Giornalismo italiano, III, 1939-1968, a cura e con un saggio introduttivo di Frano Contorbia, Mondadori, Milano 2009, pp. 195-199.
La Cederna ricordò quell’articolo molti anni dopo, nel volume Milano in guerra (Feltrinelli, Milano 1979) firmato insieme a Martina Lombardi e Marilea Somaré. È un libro bellissimo, circa 250 pagine di illustrazioni, molte delle quali non così note (almeno a me) e buone didascalie. Le immagini sono precedute da una ventina di pagine della Cederna (senza titolo): ricordi – sostenuti da documenti di famiglia, soprattutto lettere scritte dalla madre – che vanno dall’agosto 1943 alla Liberazione di Milano.
È qui che la Cederna ricorda la pubblicazione di La moda nera e i guai che gliene venirono dopo l’8 settembre: “I giornali, che a parte le pagine ridotte con molte colonne dedicate ai bombardamenti, a partire dal 25 luglio un certo svago lo procuravano, rievocando gli amori tra Claretta e il duce, l’arresto di un ex gerarca che tentava di espatriare con tre milioni e trentasette lingotti d’oro, la notizia che la Petacci aveva un ufficio in Palazzo Venezia e che i beni dei grandi fascisti sarebbero stati confiscati, ora sono diventati illeggibili. (Con raro tempismo sul “Corriere del pomeriggio” il 7 settembre avevo scritto un articolo, La moda nera il titolo, varie ironie sulle donne fasciste, fiduciarie o massaie rurali il contenuto. E la conseguenza? Denuncia dopo parecchi mesi al tribunale fascista di Sondrio, con prigione, processo, condanna a sette anni, traporto per competenza del processo a Milano, libertà provvisoria, e finalmente la guerra finisce)” (Milano in guerra cit., p. 8).
Ebbe anche la ventura di essere riportata alla ribalta da un articolo uscito il 25 maggio 1944 sulla Voce repubblicana, l’organo del fascio repubblichino di Milano. Sotto il titolo Viltà di un’arpia, l’autore prendeva di mira uno “dei tanti articoli scritti nei 45 giorni di badogliesca memoria, una gemma scaturita dalle incrostazioni madreperlacee di un cervellino di femmina, che per cause a noi ignote, forse per fregola iconoclasta, si scagliava contro il significato contingente e simbolico della divisa fascista in genere, quella della donna fascista in particolare”. E attaccava la “svergognata Cederna che, sorgendo dal buio degli sconosciuti, ha creduto di poter sporcare con la penna, ciò che è significazione esteriore e quindi compendio essenziale di tutta una dottrina” (è Camilla Cederna a riportare queste due citazioni dall’articolo repubblichino, ivi, p. 16).
Autore dell’attacco era Domenico Leccisi, che dopo la guerra sarebbe diventato famoso per avere trafugato la salma di Mussolini. Concludeva la Cederna: “O meraviglia. Per la prima volta venivo a contatto con lo stile degli articoli che avrei letto su di me anni e anni dopo, a proposito della mia difesa di Valpreda e Pinelli; e al momento della morte del commissario Calabresi” (ibidem). (f.b.)