di Alberto Savinio
Continuiamo ad avvicinarci all’anniversario dell’8 settembre 1943. Durante i “quarantacinque giorni” del governo Badoglio, molte città italiane furono pesantemente bombardate dagli alleati; era la strategia del “moral bombing”: colpire la popolazione per deprimerne lo “spirito” e di conseguenza accelerare la resa. Il 7 settembre 1943 Alberto Savinio descrisse in un articolo sul Corriere della Sera quello che aveva visto durante una breve visita a Milano, bersaglio di tre pesantissime incursioni durante il mese di agosto. Immagini di distruzioni e di morte che si associano a ricordi più lontani, a introspezioni e divagazioni, con una conclusione sul dilemma di una liberazione che passava per i bombardamenti.
Mio padre passava lunghe ore in una poltrona tutta ricami e falpalà come una signora in abito da ballo, la quale quando rimase vuota di lui conservò in negativa sullo schienale e sul sedile la forma di quel corpo grave e severo. Era la «sua» poltrona e io nella mia mente infantile l’associavo al nome Rosaura. Più per riverenza che per divieto, nessuno all’infuori di lui sedeva nella poltrona «di papà». I mobili hanno vita più lunga degli uomini, sono i rappresentanti degli uomini quaggiù e i loro continuatori. Ogni mobile rimane a rappresentare un uomo, la sua distrutta forma corporea, la sua anima indistruttibile. Entrate di notte, di soppiatto, mentre la casa dorma, in una camera deserta di uomo; affilate l’orecchio e udrete i mobili, con voce o di legno o di stoffa, scambiarsi le loro memorie e i nostri segreti. Talvolta più mobili aggruppati assieme rappresentano e continuano lo stesso uomo, ossia uno di coloro che nella vita sono stati dei re. Riprendiamo le forme della visibile immortalità. La poltrona del padre continui a rappresentarlo in seno alla famiglia orfana di lui; nessuno abbia diritto di sedervisi, meno il figlio maggiore e solo in alte e sacre ricorrenze; questo io non lo dico per mio interesse personale: sono il secondogenito. In via Bagutta a Milano tutto il contenuto di una casa si è versato attraverso il portone nella via come un flusso di lava domestica, e in cima a quella colata rappresa una poltrona è rimasta ferma al termine della sua scivolata. È una poltrona armata di ferro, fornita di un pedale che all’estremo s’incurva a gondola. Guardo a lungo la strana poltrona e non riesco a determinare se è una poltrona da dentista o da paralitico. Se da dentista, i suoi troppi ricordi umani si elidono a vicenda e annullano in un non ricordo; se di paralitico, io immagino il paralitico che arriva in istrada orribilmente ridendo nella sua poltrona trasformata in toboga, e riacquistato il movimento per effetto dello choc si allontana a grandi passi da compasso nella notte infernale, in mezzo agli schianti, ai crolli e nella luce del fosforo brulicante come un luminoso mosto.
Mio padre nella sua poltrona fumava e leggeva. Fumava in un bocchino chiamato koch dal nome dell’inventore e formato a simiglianza di una piccolissima pompa ad aria compressa, che aveva l’igienica proprietà di raccogliere lo scolaticcio della nicotina dentro un tubetto di vetro che ogni mattina bisognava rinettare mediante batuffoli di bambagia imbibita di alcol. Non so se il Koch inventore del bocchino denicotinizzante fosse anche il Koch scopritore del bacillo della tubercolosi, ma, considerata la perfetta disciplina specializzatrice degli scienziati tedeschi, ho ragione di dubitarne.
Mio padre leggeva libri neri di prosa compatta che a me bambino facevano l’effetto di foreste impenetrabili, e dalla gravità del suo volto arguivo la difficoltà e profondità di quelle letture; ma più tardi conobbi che quelle scientifiche selve erano Les gaîtés de l’escadron di Giorgio Courteline e altrettali frivole letture. Pratiche religiose e gravità di portamento erano ancora nel tempo della mia infanzia i fondamenti della educazione, e anche le forme più frivole della vita erano paludate di dignità. Io in gioventù ho violentemente reagito a quelle forme credendole d’ipocrisia ma di poi mi sono ricreduto: me, che a ciascuna forma della vita conservo la sua apparenza vera, i miei figli non mi prendono sul serio.
Un giorno entrai quatto quatto nello studio di mio padre, approfittando di una sua momentanea assenza. Rosaura era calda di lui, lo studio nuvolato di fumo come un piccolo tempio dei suoi aromati combusti. Dalla sigaretta infilata nel bocchino koch e poggiata all’orlo del ceneraio saliva un fumo azzurro che indi a poco si arrotondava in anello intorno a un minuscolo e invisibile Saturno. Accanto a Rosaura, sul tavolino arabo incrostato di madreperla, posava aperto uno di quei periodici inglesi che nella costoro lingua si chiamano magazines. Il periodico era illustrato e dunque «parlava» al mio occhio. Nelle due pagine affiancate era riassunta in immagini la vita di non so quale importante uomo politico. Lo si vedeva bambino che giocava in sottanella presso una aiuola, poi in uniforme di collegiale, imbarazzato e tonto, il gomito poggiato a una mensola e un finto bulldog che lo guardava, poi uomo maturo vestito sportivamente e in procinto di battere con il bastone a martello il pallino del golf, poi chiuso in una spessa pelliccia mentre traversava un marciapiede bianco di neve per entrare frettoloso dentro un portone monumentale, infine ritto ma traballante in mezzo a una via tra gente che nei movimenti più impensati accorrevano a lui, un panamino a sghimbescio sulla testa, gli occhi fissi in uno sguardo vitreo, gli arti contorti in movimenti da manichino e impillaccherato dalla testa ai piedi, come se sotto la pioggia un veicolo gli fosse passato vicino spruzzandolo di mota. In quel tempo, come in una grossa battuta di caccia, re e imperatori cadevano fitti vittime di quegli individui stralunati e irsuti che i giornali latinamente chiamavano nichilisti, e grecamente anarchici. Quell’uomo politico era caduto vittima egli pure di un attentato e la macchina fotografica – miracolo dell’istantanea che in quegli anni era ai suoi primi trionfi – lo aveva colto nel momento stesso in cui, «insudiciato» dalla morte, stava per crollare.
Quel misterioso uomo politico finito tragicamente io non sono mai riuscito a scoprire chi fosse e ormai più non m’importa saperlo, ma dopo quasi mezzo secolo di vita ancora intatta è in me e fortissima quella prima impressione di morte, e che la morte «insudicia» quello che tocca. Anche Milano nelle due ultime visite fatte a lei l’avevo veduta nella prima estivamente vestita e posso dire «sportivamente», nella seconda nel suo mantello invernale, quando attraverso la doppia finestra della mia camera d’albergo in piazza della Scala guardavo nell’abbaino dell’illustre teatro le sartine che al lume delle lampadine pendule sulle loro teste cucivano, benché non fossero ancora se non le tre del pomeriggio, non so se il costume di Parsifal o quello di Lucia di Lammermoor. E quando nel meriggio del 26 agosto in una luce smagliante mi affacciai sotto la volta della stazione Centrale, anche Milano mi apparve come colta in istantanea dall’occhio spietato della machina fotografica, ritta ma traballante, gli innumerabili occhi delle sue case fissi in uno sguardo vitreo, gli arti contorti in movimenti da città manichino, impillaccherata dalla testa ai piedi, «insudiciata» dalla morte. In un libro che ho dedicato a te e che pochi giorni sono ho licenziato alle stampe, io dico a te, Milano, tutto l’amore «carnale» che un uomo può avere a una città; e ora, avendoti veduta «insudiciata» dalla morte, dovrei dire a te tutto il dolore «carnale» che… Ma no: silenzio! e quanto profetico mi suona ora il titolo di quel libro: «Ascolto il tuo cuore, città»!
Più sopra, ricordando le sartine che nell’abbaino della Scala cucivano non so se il costume di Parsifal o quello di Lucia di Lammermoor, dissi che le lampadine elettriche splendevano sulle teste delle cucitrici benché non fossero ancora se non le tre del pomeriggio. Negli orari delle ferrovie e comunque nel linguaggio amministrativo le tre del pomeriggio si chiamano le quindici, ma al tentativo, dirò meglio alla minaccia di chiamare anche sulla carta letteraria quindici le tre del pomeriggio, il mio animo di scrittore si ribella. Quale misteriosa incompatibilità è tra i modi della precisione e i modi letterari? Anche a una signora, se per insperata avventura avessimo a dare un appuntamento, non oseremmo mai darle appuntamento per le quindici, o per le diciassette, o, più insperabile avventura ancora, per le ventitré. Queste differenze le avvertiamo d’istinto, ma perché non studiarle e deporle nella grammatica ossia nel codice della lingua? Così d’altra parte bisognerebbe deporre nel codice della lingua che il sostantivo stamane e la locuzione da mane a sera non sono usabili se non in argomenti e ambiente di piccola borghesia e, come tempo, negli anni tra la fine dell’Ottocento e il principio del nostro secolo, e inusabili in qualunque altro ambiente o tempo. Non ci domandate perché: non sapremmo rispondervi.
Né sapremmo rispondervi se ci domandaste quale impressione ci ha fatto il corpo di Milano «insudiciato» dalla morte. Meglio: non vogliamo rispondere. Più che l’idea di liberazione, più che l’idea di salvamento, più che l’idea di vendetta che in verità non ci ha neppur sfiorati, l’idea che più insistente batte in questi tempi nella nostra mente è l’idea di educare il popolo italiano. Raddrizzare il suo corpo e rinettarlo, e soprattutto rinettare la sua anima affinché libera e illuminata essa possa operare nel bene, nella intelligenza, nella dignità. Insegnargli a combattere fino all’annientamento la cieca e bestiale autorità; insegnargli a compiere senza passione e senza servilismo il proprio dovere, ossia con libera coscienza; insegnargli a opporre una incrollabile e «muta» dignità al dolore, alla sofferenza, alla morte.
La morte «insudicia». Insudicia quello che era pulito, intorbida quello che era limpido, inlaidisce quello che era bello, intenebra quello che era luminoso, istupidisce quello che era intelligente, immiserisce quello che era ricco. Pure si dice che la morte è serenità, calma, è l’arte per parte sua. Ma anche questa è forma di retorica: la peggiore: la retorica dell’ottimismo. Quella calma, quella serenità non sono della morte, sì della vita che rinasce dalla morte: della vita che si è celata nella morte e, più forte, l’ha vinta.
Il primo giorno vidi Milano «insudiciata» dalla morte. Poi la notte calò e uno spettrale silenzio.
L’indomani, già Milano s’illimpidiva.
Nota. Sotto un titolo redazionale pubblichiamo l’articolo di Alberto Savinio, La morte “insudicia”, “Corriere della Sera”, 7 settembre 1943. Il testo è riprodotto in parte nel volume di Camilla Cederna, Martina Lombardi, Marilea Somaré, Milano in guerra, Feltrinelli, Milano 1979, p. 28 (in apertura della prima sezione di immagini, La città bombardata, brani da “In via Bagutta…” a “…un luminoso mosto”, da “Milano nelle due ultime visite fatte…” a “…«Ascolto il tuo cuore città»!”, da “Né sapremmo rispondervi…” fino alla fine dell’articolo “già Milano s’illimpidiva”). Non compare nella bibliografia in Savinio giornalista. Itinerario bibliografico, a cura di Rosanna Buttier, presentazione di A.P. Mossetto Campra, Bulzoni, Roma 1987.
Il titolo Ascolto il tuo cuore, città, evocato nell’articolo, è quello di un libro di Savinio che sarebbe uscito nel marzo-aprile 1944, presso Bompiani (dal 1984 è ripubblicato da Adelphi; notizie sulla lavorazione del libro si leggono ora nell’epistolario Valentino Bompiani, Alberto Savinio, Scrivere fino in fondo: lettere 1941-1952, a cura di Francesca Cianfrocca. Bompiani, Milano 2019, pp. 201-202, 214, 219, 221, 224; sarebbe stato “fermato dalle Autorità repubblicane”, p. 243). Alla prima bozza del 1943, Savinio fece aggiungere un’appendice composta da proprio da La morte “insudicia”, presentato sotto il titolo Pagine Aggiunte, e da alcune Note di Taccuino datate 27 agosto 1943. Una nota introduttiva dell’autore spiega ai lettori del volume: “Nell’estate del 1943 questo libro era per essere licenziato alle stampe, quando i bombardamenti di agosto mutarono la faccia di Milano. Per effetto di quel terribile mutamento, questo libro – questo «ritratto di città» ha acquistato un valore impreveduto. È il ritratto di Milano «di prima». È Milano quale nessuno rivedrà mai più. Tale la sorte fatidica dei ritratti e quella perché molti temono il ritratto. […] Le Pagine Aggiunte che seguono e le Note di Taccuino sono un accenno all’«altro» volto di Milano, un auspicio al volto che sarà”.
Nelle Note di Taccuino si leggono alcune righe dedicate all’“edificio di fronte a Brera che al piano superiore ospitava la mia bella e intellettuale amica Camilla Cederna” e al pianterreno la galleria d’arte Il Milione – tutto finito distrutto in un mucchio di calcinacci: “Guardo questa polvere che fu una casa abitata da uomini, piena di vita e di cose, e in mezzo alla quale è mischiata forse anche la polvere di Oggetti migratori e delle altre mie pitture che stavano nella galleria del Milione, ma la guardo senza rimpianto. Le cose che ho fatto non m’interessano più: solo quello che ancora non ho fatto m’interessa”. Le ultime due note contengono appunto l’auspicio, la stessa speranza di rinascita espressa nell’articolo (“Dovrei essere triste, e invece sono formicolante di gioia. Dovrei mulinare pensieri di morte, e invece pensieri di vita mi battono in fronte, come il soffio del più puro e radioso mattino. […] Sento che da questa morte nascerà nuova vita”).
Diventato parte di un volume d’autore, La morte “insudicia” non fu ripreso nella raccolta allestita negli anni Ottanta Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, introduzione di Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano 1989, di recente riedita come Scritti dispersi (1943-1952), a cura di Paola Italia, con un saggio di Alessandro Tinterri, Adelphi, Milano 2004.
Nel 1945 Savinio eseguì la litografia I miei genitori per “il Concilium Litographicum di Velso Mucci, dove compaiono le figure di «poltromamma» e «poltrobabbo», metamorfosi dei genitori incorporati alle loro poltrone” (citiamo da Associazione Archivio Alberto Savinio). Non è difficile trovarne delle riproduzioni in rete, noi rimandiamo a questa (le ombre proiettate dalle figure-poltrone e la luna sono dei testi, ricordi e commenti dissacranti di Savinio sui suoi genitori).
Savinio eseguì delle variazioni sul tema della «poltromamma» per le copertine di altre due sue opere uscite nel 1945: il volume Tutta la vita (Bompiani, Milano) e lo spartito Vita dell’uomo: tragicommedia mimata e danzata: riduzione per pianoforte (Ricordi, Milano).
Si veda Sandro Dorna e Charles Sala, Poltrobabbo e poltromamma: I miei genitori di Alberto Savinio, [con una cronologia a cura di Valeria D’Urso,] Umberto Allemandi & Co., Torino 2006, per una genealogia dei motivi iconografici presenti nella litografia, che Savinio avrebbe riproposto ancora in una tempera del 1947 (I miei genitori) e una del 1950 (Monumento marino ai miei genitori).
Come sanno i lettori di Savinio, gli arredi famigliari sono un tema ricorrente della sua prosa: “poltrone, divani, armadi e altri mobili” portati in scena “in ispecie di personaggi sensibili, parlanti e operanti”. Poltromamma è anche il titolo di un racconto uscito sulla Stampa del 22 luglio 1943 e poi inserito nel volume Tutta la vita: una poltrona di mamma su cui “fosforeggiano” rose di stoffa (Tutta la vita uscì presso Bompiani datato 1945, in realtà nel 1946; si veda ora l’edizione Adelphi, Milano 2011, con le note di Paola Italia, da cui le citazioni, le prime due dalla prefazione di Savinio, la terza dal racconto) (f.b.)