di Renata Segre
Riprendiamo alcune pagine dal libro di Renata Segre, Preludio al ghetto di Venezia. Gli ebrei sotto i dogi (1250-1516), pubblicato qualche giorno fa dalle Edizioni Ca’ Foscari e disponibile online. Nel suo studio l’autrice ricostruisce la storia della presenza ebraica a Venezia prima dell’istituzione del Ghetto nel 1516. Smentendo “il mito” di uno stanziamento di ebrei a Venezia solo dal 1516, Renata Segre documenta come, a partire dalla fine del Trecento, Mestre fosse “centro nevralgico” della comunità ebraica insediata sulla Terraferma veneta. Attorno al castello e in quella che è l’attuale calle del Gambero operavano infatti banchi di prestito feneratizio, e avevano sede una sinagoga, un ostello e un cimitero ebraici. Queste vicende – è il caso di dirlo: di “una città invisibile” – sono ora riportate alla luce da Renata Segre grazie a una ricerca ventennale, e alla documentazione conservata nell’archivio dell’Antica Scuola dei Battuti a Mestre.
Alla stregua di Treviso, anche Mestre era divenuta città suddita veneziana nel Trecento; alla stessa stregua di Treviso, e dopo Padova, anche a Mestre i toscani (in questo caso, più precisamente, dei fiorentini) avevano dovuto cedere il passo, ritirandosi progressivamente da quell’attività di credito e di esazione dei dazi, di cui erano stati a lungo i protagonisti. Ma dalla nostra angolatura, Mestre, come già evidenziato, spicca per una sua particolarità: durante quasi un secolo e mezzo (almeno fin verso il 1509) fungerà da centro nevralgico – quasi capitale – della comunità ebraica insediata sulla Terraferma veneta1. Associando una posizione geografica di massima prossimità a Venezia al distanziamento per via dell’acqua da navigare, meglio riproduceva, anche plasticamente, lo scarto che Venezia aveva sempre inteso serbare nei confronti di questi infedeli2. Una visione teleologica, e pure teologica, cui non facevano difetto concretezza e lungimiranza: la presenza dei banchi ebraici, e delle attività indotte, sarebbe stata in grado di trasformare Mestre da borgo fortificato a difesa della capitale in una vera città popolosa, prospera e vivace, se Venezia l’avesse sinceramente desiderato.
Siamo all’inizio degli anni Novanta (quasi certo nel 1393)3; l’istituzione creditizia ebraica a Venezia non era ancora entrata in crisi, eppure il banchiere Moise, ottenuto il benestare del podestà di Mestre, aveva già firmato il capitolato per venirvi ad aprire un secondo banco, accanto a quello intestato a Bert da Norimberga. Si tratta dell’unico documento in fatto di condotta sinora reperito, e ha un doppio pregio: perché, se, da un lato, ragguaglia delle regole sul mutuo, con o senza pegno, negoziate da Bert – impossibile fossero troppo discordanti da quelle di Moise –, d’altro canto, prefigura in certi articoli del testo la creazione di un insediamento ebraico strutturato (e, per ciò stesso, presumibilmente duraturo). Contempla, infatti, il cimitero, il luogo di culto (definito propriamente «sinagoga»), e l’ostello per accogliere i viandanti, il tutto in un quadro di scrupolosa osservanza dei precetti religiosi in fatto di consuetudini alimentari e liturgiche4.
Il testo della condotta, forse perché pervenutoci incompleto, non identifica questo Moise; ora, lo possiamo certo riconoscere in quel «Moises de Francia qd. Josep, magister in pagina ebrea» che, a fine 1391, quando ancora tutti i quattro contraenti stavano a Venezia, si era accordato con Sarra, la vedova di Josef de Norimberga, per affidare a «Moise qd. Jacob de Viena et Alexandro qd. Josep de Magonzia»5 l’incarico di arbitrare le liti insorte tra loro «de iure et de facto»6. Così, se Sarra era la madre di Bert, alias Roberth de Norimberga7, prossimo a trasferirsi a Mestre per aprirvi il primo banco ebraico, il nostro Moise, presto suo collega nel castello a ridosso della Terraferma, aveva già avuto occasione di dare prova delle sue capacità non soltanto finanziarie, delineando in un atto pubblico, registrato a Venezia alla fine del 1391, il progetto di un insediamento ebraico composito e, soprattutto, egemone.
Fossero o no in concorrenza i loro banchi, in un settore «magister Moyses Franzos»8 non aveva certo rivali: nella gestione di ostelli per ebrei, di cui aveva già dato prova giusto tre anni prima di avviarne uno a Mestre. A Venezia, in contrada di Santa Sofia, di rimpetto a Rialto (forse sul Canal Grande, comunque, in posizione strategica), aveva preso allora in affitto per due anni un grande edificio con accesso alla riva del canale, per abitarvi con la famiglia «et aliis ebreis, ad suum beneplacitum»: si trattava di fornire servizi alberghieri ai viandanti e camere in affitto a chi in città soggiornasse più a lungo.9
Però, abbiamo visto, era anche (o prima di tutto) un maestro della Legge ebraica, un rabbino: non saremo allora lontani dal vero immaginando che la sua attività consistesse nel dirigere (se non addirittura gestire) un ristorante, sorvegliarvi la puntuale osservanza delle norme rituali in materia alimentare (casherut), anche fuori delle strutture domestiche, e perché no?, officiare le funzioni religiose in forma privata (quindi senza l’apposita licenza), concelebrandole insieme ad altri ebrei presenti in città.
Trascorso un anno e mezzo, oltre i due previsti dal contratto di locazione veneziano, Moise «ebreo feneratore» questa volta ne firmava uno, di nuovo per un biennio, ma a Mestre, dove, in presenza del podestà Nicolò Grimani, prendeva in affitto dal capitano della «bastita de casali», per 24 ducati l’anno, la casa con corte accanto alla sua,10 prospiciente la strada per la porta del Terraglio (e dunque verso nord, in direzione del Trevisano); per renderla subito abitabile, occorreva consolidare le pareti esterne e ripristinare il pozzo, spese già calcolate nel prezzo. Dell’immobile mancano dimensioni e piantina, ma, l’abbiamo appreso dal capitolato della condotta, era destinato ad accogliere gli ebrei di passaggio per Mestre, assisterli e ospitarli, mettendo pure a loro disposizione la sinagoga di casa sua, per la quale era già titolare di apposita licenza.
Di un’altra «chaxa granda [qual io ho] in Mestre in la qual sta i zudie che dà ad uxura» parla un testamento, ed è, probabilmente, quella in cui abitava e teneva banco Bert da Norimberga; purtroppo, non siamo in grado di posizionarla sulla mappa cittadina. Le fonti restano in proposito molto vaghe, limitandosi a dirci che talvolta operava in casa e talaltra sotto la loggia del Comune, se non addirittura in piazza. Di più sappiamo invece della proprietaria dello stabile, la vedova padovana del mestrino «ser» Marco Bonino, che ne faceva donazione post mortem al suo esecutore testamentario, Zorzi Bragadin del fu Andrea, senza purtroppo motivarla11. Solo gli aveva imposto alcune modeste condizioni: versare, vita natural durante, 50 lire l’anno al figlio Pietro, e riscattare un letto ben fornito «in man de zudie» per dotarne una «noviza donzella»12. La donna, si direbbe, navigava in cattive acque, e, a saldo di un debito che non era stata in grado di onorare, cedeva al patrizio veneziano l’immobile, datogli, a suo tempo, in garanzia. Nei successivi decenni, altri casi simili, soprattutto di parte femminile, conforteranno questa nostra impressione.
Per un certo tempo, è probabile che a Mestre i banchi, almeno quelli ufficiali, siano stati soltanto i due suddetti; poi, col progressivo trasloco fuori Venezia di ebrei e prestatori, accelerato nel 1395-1396 dall’approssimarsi della scadenza del 1397, l’attività creditizia si fece più competitiva, e meno lucrosa; e quel mutuo feneratizio gestito in ‘occulto modo’13, che aveva provocato le ire del governo veneziano, acquistava maggiore visibilità. Sicuro, nel varare il decreto del 1394, il Senato, con una certa disinvoltura, aveva esteso anche a Mestre il divieto del prestito feneratizio, senza curarsi di elencarla tra le città e i territori (Treviso, Marca, ecc.), per cui subordinava la decisione finale al parere dei locali podestà veneziani.
Forse non aveva dato sufficiente peso alla contrarietà che questa misura poteva creare sulla prima Terraferma – quasi alle sue porte –, oppure aveva deciso di trattare tutti i sudditi alla stessa maniera, facendo valere la sua esclusiva potestà in materia. In ogni caso, e se ne sarebbe ben presto resa conto, l’attività feneratizia, svolta dagli ebrei a Venezia, e adesso a loro proibita, rispondeva a un’esigenza che nessun provvedimento legislativo era in grado di sopprimere. Anzi, spostando fuori città il mutuo su pegno, specialità precipua degli ebrei, aveva reso la questione più intricata; con i banchi meno accessibili, e l’accresciuto flusso di clienti e di beni tra le due sponde della laguna, si dilatava l’attività del porto locale, mentre crescevano le difficoltà per le autorità preposte alla sorveglianza delle procedure finanziarie e della corretta custodia degli oggetti in deposito a Mestre. Nel 1402, il governo ammetterà l’errore, quando, pur ribadendo in modo ostinato il proposito già espresso nel decreto del 1394 («quod factum fuit ad finem solum quod non habuerent causam habendi domicilium» a Venezia), doveva convenire che, trasferendo gli ebrei fuori città, lungi dall’aver risolto il problema, ne aveva creati di nuovi14.
Rapido e singolare fu il processo per il quale, nel linguaggio corrente dei veneziani, le locuzioni, tra loro intercambiabili, in cui ricorresse anche una sola delle parole «Mestre, zudie/zudei», richiamavano, come primo e immediato significato, quasi ne fossero un sinonimo, il prestito feneratizio, e il pegno da portare o riscattare ai banchi ebraici di Mestre. Il borgo si trasformò rapidamente in un emporio, dove si potevano trovare oggetti ipotecati e merci di risulta dei lavori di strazzeria, prodotti tipici del banco ebraico, e tutti a condizioni migliori, offerte dalle compravendite a credito. La clientela della Terraferma era attratta da questo luogo di mercato, che, rispetto a Rialto, era concorrenziale, vantaggioso e accessibile in modo più facile ed economico.
Mancano sostanzialmente le fonti locali a documentare l’evidente crescita demografica ed economica di Mestre, fra Tre e Quattro cento; tuttavia, l’intensa attività rogatoria svolta da notai, di recente insediamento15, certificava l’emergere di nuove attività produttive e la nascita di una vivace società urbana. A compensare la perdita delle loro filze, sovviene, in qualche misura, la raccolta di carte amministrative dell’Antica Scuola dei Battuti, intestataria, già nel Trecento, di molti immobili, nei quali gli ebrei abitarono e operarono per oltre due secoli, fino praticamente ai tempi di Agnadello: proprietà in posizioni strategiche, attorno al castello, e lungo la «calle de Mezzo», divenute vero centro vitale dell’ebraismo mestrino16.
In quella che è attualmente la calle del Gambero, il primo inquilino della Scuola, di cui ci sia conosciuto il nome, fu ‘maestro’ Salomone di Samuele di Sansone, ebreo di Spagna17, quasi certo subentrato al feneratore Moise di Francia: affittava dal 1416, accanto all’«hospicio clavis» una «caxa alta murada» su due piani, nella quale per tre lustri conservò il banco, operandovi assieme al figlio Aron e al loro fattore Mayer18. Nel frattempo, era apparso sulla scena Anselmo19, firmando il contratto per un edificio, con corte e orto nel retro, adiacente all’albergo («hospicio») dell’Angelo; da subito vi aveva speso grandi somme in migliorie, per «far curare un necessario e far conzar alcune fenestre e una scafa e […] far salizar la cusina e la camara». Poi, con l’impegno di non tenervi banco, nel 1432, gli inglobò una porzione della casa di Aron, mentre nella parte restante, durante i sedici mesi del suo incarico, abitò il cancelliere del podestà e capitano del Castello, prima di riconsegnarla agli ebrei20. Assistiamo così al sorgere di un nucleo ebraico, quasi un agglomerato, tutt’attorno al banco feneratizio e alla sede – dalle molteplici funzioni (locanda, ostello, centro comunitario e religioso) – dell’impresa gestita da Anselmo, nei pressi di due alloggi per viandanti cristiani (appunto, i due suddetti alberghi della Chiave/Clava e dell’Angelo). D’altronde, proprio in quegli stessi mesi del 1432, in cui Anselmo ampliava la sua residenza, il governo doveva riconoscere la forza contrattuale che si erano ormai acquistata i banchieri mestrini, interrompendo per due anni l’attività di prestito pur di non accettare una maggiorazione di ⅓ del tasso annuo di 2.000 lire. Preoccupato del danno che ne derivava all’erario per i mancati introiti, e ai ‘veneti’ (ossia, ai veneziani) e ai sudditi per l’impossibilità di accedere al prestito mestrino, il Senato cedette, e, con la mediazione del podestà, si decise a fissare l’imposta a 2.500 lire21.
A favorire lo sviluppo urbanistico, era stata, d’altronde, Venezia, sin dagli anni Ottanta del Trecento, con alcune rilevanti iniziative edilizie, che nel successivo decennio avrebbero conosciuto una nuova accelerazione. Lo sviluppo urbano proseguì nel nuovo secolo, sotto la guida dell’architetto Pietrino da Bergamo, al preciso scopo di migliorare le vie di comunicazione, il porto e i ponti22. Del resto, lo richiedevano alcune circostanze locali: nel 1367, mentre era ancora un borgo (ma così continuerà a definirsi a lungo), Mestre aveva subìto un disastroso incendio23; la chiesa di San Lorenzo dovette essere riedificata dalle fondamenta, la cinta muraria e le torri di difesa rafforzate24, il servizio di guardia incrementato. Sempre nel medesimo intento, si accrebbero i poteri delle autorità veneziane in loco, trasferendo loro maggiori competenze in materia di giustizia civile e penale25.
Questo nesso, fondamentale, se non forse addirittura indissolubile, tra lo sviluppo di Mestre e l’attività dei banchi ebraici, l’intesa con il Comune (sanzionata dai podestà veneziani) per la creazione di un centro ebraico strutturato e plurifunzionale, affidato alle cure di un rabbino, che era altresì uno dei due banchieri locali, ne fanno un modello di insediamento ebraico originale, superiore al prototipo raffigurato da Michele Luzzati nella ‘casa dell’ebreo’, in cui un banchiere, sovente pure medico, con la sua famiglia allargata viveva, quasi rintanato in una torre, all’interno di una collettività cristiana26. Qui, invece, siamo di fronte al gruppo fondativo di una comunità vera e propria, in grado, con ogni probabilità, di assicurare regolarmente l’ufficiatura integrale delle funzioni religiose, per cui si richiede la presenza di almeno dieci uomini (il minian). Se credito, mercato e industria erano motivo di attrazione per la clientela cristiana del territorio, per la collettività ebraica della Terraferma – e sin oltre le frontiere dello Stato veneto –, l’ospitalità offerta da maestro Moise di Francia rappresentava il sicuro approdo del viandante, la garanzia di un tranquillo soggiorno alle porte della capitale.
La facilità di accedere, con un semplice traghetto27, a Venezia, da cui i feneratori erano stati scacciati, costituiva l’ultimo, ma non certo il minore, dei vantaggi che la struttura alberghiera mestrina offriva a quanti avessero necessità di recarsi nella capitale senza incorrere in divieti e denunce penali. Perché a Venezia, di ebrei si continuava a incontrarne, chiaramente distinti dal segno esposto in bella mostra sul petto: avevano questioni giudiziarie da sbrigare, problemi delle loro comunità da risolvere, conti da sistemare. Se non si era medici o non si veniva dai domini marittimi (le cosiddette Terre da Mar), il soggiorno era limitato a due settimane; ma c’era un sistema per ovviarvi, ampliando a dismisura il permesso. Bastava intervallarlo, scegliendo di preferenza una festività (di sabato, ve ne erano pur sempre due ogni quattordici giorni, senza contare le altre ricorrenze, non necessariamente solo ebraiche), e rifugiarsi nell’accogliente ostello mestrino, per poi tornare, altre due settimane, a occuparsi di pratiche lasciate in sospeso, e di affari in corso.
Nota. Tratto da Renata Segre, Preludio al ghetto di Venezia. Gli ebrei sotto i dogi (1250-1516), Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2021, pp. 78-85 (note 77-103), con minime modifiche redazionali per lo scioglimento delle abbreviazioni. Per consultare l’originale, cliccare qui.
- In una delibera del 1527 i pregadi vollero condensare la storia di centoquarant’anni di prestito ebraico a Mestre: «Li savii et religiosi progenitori nostri» il 27 agosto 1394 «licenciorno […] li hebrei feneranti da Venezia mandandoli a star a Mestre, ma avendosi sempre sforzato quelli malignamente romper li nostri ordini, fu neccessario metter molte parti, et precipue quelle del 1402, 1496, […] fino al 1508, che la prima volta con sue insoportabil versutie et fraude li furno conduti iterum per questo Conseglio a fenerar qui, et doppoi del 1520, 1523, 1525 sono stati continuamente confirmati per questo Conseglio a fenerar a Venezia, et cristianamente questa cosa è sopra ogni altra admiranda et notanda, che sempre che si ha trattà de remover li hebrei feneranti di Venezia se ha visto li prosperi successi al publico et all’iniunti, et sempre che è stata trattà di condurli a fenerar a Venezia si ha manifestamente visto il contrario» (Archivio di Stato di Venezia [d’ora in poi ASVe], Ufficiali del Cattaver [d’ora in poi Cattaver], b. 1, reg. 2, Capitolare, ff. 126v-128v, 18 marzo 1527; G. Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche raccolte da Giambattista Gallicciolli. Libri tre, 8 voll., Venezia 1795, 2, p. 306, § 940). [↩]
- Per illustrare la prossimità tra Mestre e Venezia si consideri che nel suo punto più stretto la Terraferma dista 2 leghe e ½ da Venezia, e questa, a sua volta, misura 1 lega per lungo e ½ per largo (Descripcion ou Traicté du gouvernement et regime de la cité et Seigneurie de Venise. Venezia vista dalla Francia ai primi del Cinquecento, a cura di Ph. Braunstein, R.C. Mueller, Venezia-Paris, 2015, p. 88). [↩]
- La fonte notarile registrava per la prima volta «Moise iudeo feneratore» abitante di Mestre, il 12 settembre 1393; la medesima definizione di «iudeo feneratore» a Mestre, riferita a Bert, compariva il 29 aprile 1394, benché, come apprendiamo dal capitolato di Moise, Bert lo avesse preceduto. Si deve a Mueller (Les prêteurs juifs de Venise au Moyen Âge, «Annales», 30, 1975, pp.1277-1302: p. 1301) il primo studio di questo prezioso documento – un’imbreviatura di tre facciate, priva della parte iniziale (forse un intero foglio) e della data –, che il notaio dichiarava di aver rogato benché scritto di altra mano: quindi, verisimilmente, trascritto dall’originale (ASVe, Cancelleria inferiore [d’ora in poi CI], Notai, b. 96, Pietro Gualfrini, fasc. s.d.). [↩]
- Purtroppo, il documento, pur registrando la presenza del podestà veneziano, e il suo vincolante assenso, non ce ne fornisce il nome, utile a datare la condotta. In ogni caso, il 22 maggio 1393 Nicolò Grimani era già subentrato nella carica a Fantino Marcello (ASVe, Senato Deliberazioni. Misti [d’ora in poi Senato Misti], reg. 42, f. 113r, 117v) e sarà lui stesso ad avallare il contratto di locazione a Moise della casa di Mestre. D’altronde, il notaio Gualfrini, con studio sotto i portici di San Giacomo a Rialto, fungerà da cancelliere del Grimani durante la sua podesteria a Mestre, qui rogando tra il 5 maggio 1393 e il 20 maggio 1394 (ASVe, CI, Notai, b. 96, Pietro Gualfrini, due fasc. di rogiti per 1390-1394). [↩]
- Mentre Alessandro era certo originario di Magonza, Moise veniva forse da Vienne (nell’attuale dipartimento dell’Isère, allora terra savoiarda, con un importante nucleo ebraico): insomma, un tedesco e un francese, ossia un ashkenazi e un zarfatì diversi per tradizione ed esperienza, eppure pratici di quei due mondi. [↩]
- ASVe, CI, Misc. notai, b. 9, non ident., rogante a Rialto, fasc. 98, prot. perg. 1390-1395, 20 dicembre 1391. Testimoni del rogito erano due sarti di Santa Sofia, vicini di casa dei contraenti, e presumibilmente loro buoni amici. [↩]
- Mueller, Les prêteurs juifs de Venise, p. 1300; ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 1, f. 93r, 12 marzo 1390 (il testo è pure in ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 2, f. 159v, in data 12 marzo 1393; e reg. 9, f. 78, da dove lo ha tratto H. Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die Deutsch-Venezianischen Handelsbeziehungen, 2 Bde, Stuttgart, 1887, 2, p. 315, doc. 45). Talvolta, quasi a voler accentuare l’origine tedesca, Bert preferiva il patronimico Lupus/Wulf/Volf a quello di Josef (per es., ASVe, CI, Notai, b. 96, Pietro Gualfrini, prot. 1393, 2 settembre 1393). [↩]
- ASVe, Sopraconsoli dei mercanti (d’ora in poi Sopraconsoli), b. 1a, reg. 1, Capitolare, f. 66v, 14 marzo 1402. In parallelo, Moise, sin dalla fine degli anni Ottanta, era socio in un banco trevisano, a riprova dei grossi interessi dei feneratori mestrini nella Marca, dove opererà a fine secolo suo figlio Lazaro, mentre, nel frattempo, il nostro ‘maestro’ si era trasferito a Padova, assumendovi la tutela e l’istruzione del figlio ed erede di Suskind del fu Asher di Francoforte (ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 1, f. 90v, 3 settembre 1389; ASVe, CI, Notai, b. 169, Marco Rafanelli, 23 settembre 1394, 15 febbraio 1397; A. Veronese, Donne ed eredità nel tardo medioevo: il caso di Treviso, in Donne nella storia degli ebrei d’Italia, Atti del convegno internazionale “Italia Judaica” (Lucca, 5-9 giugno 2005), Firenze 2007, pp. 77-84: pp. 79-80; A. Möschter, Juden im venezianischen Treviso (1389-1509), Hannover 2008, pp. 348, 367-70, doc. 11, 13 gennaio 1400). C’è il rischio di confondere talora i due Moise, entrambi francesi, distinti solo dal patronimico. [↩]
- «Domum magnum, cum omnibus suis hospitiis et albergis in ipsis consuetis, et solario»; a ben 160 ducati ammontava il fitto per il biennio, considerando la rilevanza dell’immobile, con accesso per terra e per acqua; e, di caparra, il locatore ne aveva già incassata ¼. In questi rogiti, soprattutto in fatto di locazioni a ebrei, i testimoni presentano un certo interesse: così, in questo caso, firmavano un prete di San Marzilian, un «incisor» (incisore?) di San Bartolomeo e un mercante tedesco di San Giovanni Crisostomo. Il contratto, piuttosto sbiadito, per essere scritto sulla copertina del fasc. stesso, presenta alcune difficoltà di lettura (ASVe, CI, Misc. notai, b. 9, non ident., rogante a Rialto, fasc. 98, prot. perg. 1390-1395, 3 luglio 1390). [↩]
- «Unam domum muratam copatam et solariatam, cum curte, iacente in terra Mestris, cui choeret ab una parte via publica per quam itur ad portam aterraglio, ab alia iura fratrum S. Iohannis Ierosolimitani, ab uno latere iura ser Bertucii Bocassio, ab alia quedam domuncula dicti locatoris» (ASVe, CI, Notai, b. 96, Pietro Gualfrini, prot. 1393, 30 dicembre 1393). [↩]
- Ignorato dalla storiografia veneta, quasi certo della famiglia del diplomatico Giacomo di Andrea (1306 ca-1376; P. Selmi, in Dizionario Biografico degli Italiani, s.v. «Bragadin, Giacomo»). Lo rintracciamo solo a inizio secolo, quando patrocinò i creditori del marchese Azzo X d’Este, per debiti da lui contratti mentre era relegato a Creta (ASVe, Giudici di Petizion (d’ora in poi Petizion), Sentenze a giustizia, reg. 17, ff. 65v-66r, 79r-80v, 22 agosto, 5 settembre 1409). [↩]
- ASVe, Notarile Testamenti (d’ora in poi Not. Test.), b. 832, Alberto Pertempo, quad. perg., 17 maggio 1399. Per un debito di 54 ducati verso l’Ufficio delle Rason, la casa in cui abitava la vedova andava venduta. [↩]
- ASVE, Senato Misti, reg. 43, f. 29r, 28 settembre 1394 [↩]
- «Cum non modico onere nostri dominii et finaliter erit cum non parvo dampno totius terre, nam occ[u]lte et diversimode faciunt usuras suas» (ASVe, Senato Misti, reg. 46, f. 55v, 7 novembre 1402). [↩]
- Non solo veneti della Terraferma, ma anche originari di altre terre italiane (Cremona, Gubbio, Messina) popolavano Mestre, come si evince dai nominativi di contraenti e testimoni dei rogiti notarili locali, di cui purtroppo si sono perse le carte (salvo alcune, poche, consultabili nell’Archivio di Stato di Treviso). [↩]
- Questo paragrafo urbanistico rielabora una serie di dati dell’Archivio antico dell’Antica Scuola dei Battuti, dove i pezzi archivistici – in massima parte registri contabili di entrate e uscite –, relativi agli ebrei dei secoli XIV-XVI, sono contenuti in particolare, nelle bb. 2, 163, 167-173, 470, 475-476, 516-518. Mi corre l’obbligo di ringraziare la Presidente dell’ente Laura Besio e l’archivista Stefano Sorteni per avermene permesso la consultazione. [↩]
- Medico, registrato in contemporanea a Venezia (San Cassian) e a Mestre, aveva la procura generale di Moise di Francia in ambito finanziario sin dal 23 febbraio 1401; il 26 aprile 1416 firmava la locazione con la Scuola (quasi certo per una sede diversa da quella in cui era situato il banco di Moise); poi, mentre il 31 gennaio 1430 Aron e Mayer davano la disdetta della casa, Moise trasferiva il banco a Padova (ASVe, CI, Notai, b. 167, Leone da Rovolone, fasc. 3, ff. 393r, 400v, 21 luglio 1400, 23 febbraio 1401; ASVe, Not. Test., b. 1231, Federico Stefani, ced. cart. 393, 11 luglio 1413; Archivio Storico Antica Scuola dei Battuti (d’ora ASASB), sezione antica (d’ora in poi s.a.), 516, ff. 8v-9r, 8v- 9r, 41v-42r, 52v-53r; R. Cessi, La condizione degli ebrei banchieri in Padova nei secoli XIV e XV, «Bollettino del Museo Civico di Padova», Estratto «per cura del dottor Alessandro Zammatto, Rabbino magg. degli Israeliti di Padova», 10(6), 1907, 11(1, 2), 1908, pp. 3-31: p. 19 nota 1; Archivio di Stato di Padova, Estimo 1433). [↩]
- Forse affittuario ancora da prima, già nel 1402 abitava a Mestre (ASASB, s.a., 516, f. 8v, 26 aprile 1416; ASVe, CI, Notai, b. 170, Marco Rafanelli, prot. perg. 1402-1403, 22 novembre 1402). [↩]
- Identificare gli ebrei di Mestre risulta sempre piuttosto difficile perché, per la loro natura, i registri contabili non riportano molti dati personali. Anselmo, comunque, era figlio di Mandolino/Menelino, da Treviso, poi a Venezia (San Cassian), e nel 1434 definito «nunc fenerator» a Mestre, forse a seguito della ricondotta. Nel duplice ruolo di prestatore e responsabile dell’ostello ebraico, può certo avergli giovato essere nipote del precedente banchiere, Moise del fu Jacob (Rappa) (ASVe, CI, Notai, b. 83 I, Bartolomeo Fasolo, prot. cart. 1419-1427, f. 46r-v, 28 novembre 1419; b. 214, Odorico Tabarino, fasc. 1429 more veneto-1438, f. 195r, 9 dicembre 1434; ASASB, s.a., 533, 29 marzo 1433). [↩]
- ASASB, s.a., 517, ff. 25r, 30r, 20 aprile 1433, 27 giugno 1435. [↩]
- ASVe, Senato Misti, reg. 58, ff. 157v, 166v, 31 ottobre, 9 dicembre 1432. [↩]
- ASVe, Senato Misti, reg. 44, f. 38v, ff. 57v-58r, 27-28 aprile, 2 agosto 1398. [↩]
- Tra il 26 e il 27 luglio 1367 un incendio «concremavit totum burgum Sancti Laurencii de Mestre» (Cassiere della Bolla Ducale. Grazie. Novus Liber (1299-1305), a cura di E. Favaro, Venezia, 1962, Reg. nr. 16, 2, p. 411, nr. 914); a seguito di un altro (30 gennaio 1403), altrettanto devastante, sotto la podesteria di Leonardo Sanuto, padre del diarista, si diede avvio, con nuovo slancio, a un massiccio piano di edilizia privata e sacra (ASVe, Senato Misti, reg. 46, f. 64r, 79v, f. 99r). [↩]
- Il restauro di San Lorenzo, deliberato il 19 novembre 1387, fu avviato il 29 luglio 1389. Ma già prima, i marmi della chiesa e del suo campanile erano stati riutilizzati nella costruzione della torre di San Lorenzo, nel «fortilicio» di Mestre (ASVe, Senato Misti, reg. 41, f. 28v; ASVe, Quarantia Criminal, reg. 17, f. 118v; ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 2, f. 19v-20v, 14 marzo 1384). [↩]
- Nel 1385, per la prima volta, venne nominato un ‘provvisore’ nella persona di Fantino Marcello di Marco, con l’incarico di gestire la polizia, alle dirette dipendenze del podestà, cui era riservata l’autorità in materia civile e penale; nel 1394 salirono a due i connestabili, obbligatoriamente veneziani, addetti alla difesa del forte (ASVe, Senato Misti, reg. 39, f. 130r, 11 agosto 1385; ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 3, f. 8r, 27 aprile 1398). [↩]
- M. Luzzati, Caratteri dell’insediamento ebraico medievale, in Gli ebrei di Pisa (secoli IX-XX), a cura di M. Luzzati, Pisa 1998, pp. 1-44: pp. 16 e 24. [↩]
- Il «tragetum de Mestre» era situato in un ampliamento dell’area di Rialto nel confinio di San Mattio, in prossimità dell’attuale campo delle Beccherie (già Beccherie Nuove), sorto sulle rovine della corte della domus magna dei Querini (W. Dorigo, Venezia romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica, 2 voll., Venezia 2003, 2, p. 850). [↩]