di Piero Brunello
Ricordiamo l’anniversario del 22 marzo 1848 pubblicando un saggio di Piero Brunello uscito per la prima volta nel 2011 nell’annuale “L’Esde. Fascicoli di studi e di vultura”, rivisto per l’occasione.
Il 22 marzo 1848 l’Arsenale di Venezia cadde nelle mani degli insorti veneziani; poco dopo il governatore militare austriaco firmò la capitolazione, impegnandosi a trasportare immediatamente le truppe non italiane a Trieste.
Campane a festa dal campanile di San Marco; sventolare di stoffe cucite a mo’ di tricolori italiani, a volte con le bande verticali, a volte orizzontali; simboli e bandiere con il leone della Serenissima ripescati dalle soffitte; uomini svenuti in strada per l’emozione; cappelli con le piume in testa; cori d’opera a squarciagola; cortei di ragazzi fino a notte fonda con fiaccole, canti e tamburi; soldati lombardi e veneti in giro per le calli a bere con i civili nelle osterie; stemmi con l’aquila imperiale tolti dai muri delle case e buttati in acqua. Le guardie di polizia si chiusero in casa, e alcune vi rimasero nascoste fino all’agosto del 1849, quando la città fu riconquistata dagli Austriaci. Ancora non si avevano notizie da Milano, che in quei giorni si era riempita di barricate e di morti per le strade, ma sembrava davvero che l’impero asburgico fosse crollato su se stesso.
Che cosa si sapeva a Mestre degli avvenimenti di quei giorni? Si sapeva che a Vienna c’era stata una rivoluzione, che il ministro Metternich era scappato, e che l’imperatore aveva concesso la Costituzione. Da alcuni giorni si sapeva poi che a Venezia i soldati croati avevano sparato sulla folla lasciando morti sul selciato di piazza San Marco, e che la tutela dell’ordine era passata a una Guardia civica diretta da borghesi. Anche a Mestre, infatti, si era formata una Guardia civica. Ma quel giorno arrivarono da Venezia notizie ancora più incredibili che raccontavano di arsenalotti in rivolta, di un comandante ucciso, addirittura di resa del governo austriaco. Chi veniva da Venezia raccontava che tutte le campane suonavano a festa…
Da Mestre alla stazione
Il signor Francesco Linghindal, primo deputato comunale di Mestre, era quello che si dice un uomo d’ordine, uno che tutte le sere faceva visita al pretore in compagnia di monsignor Renier arciprete del duomo. Abitava con un figlio ventenne alla Rosa, la strada che dalla fine del Borgo delle Monache, attuale via Poerio, andava verso la stazione.
Nel pomeriggio del 22 marzo, Linghindal – è lui stesso a raccontare l’episodio pochi giorni dopo – fece attaccare in tutta fretta un cavallo al calesse, e si recò con altri cittadini verso la stazione ferroviaria. I treni a vapore erano una novità (la ferrovia, costruita da poco più di due anni, andava da Venezia a Vicenza), i ragazzi si attaccavano all’esterno delle carrozze e si facevano portare. Le merci e le persone da Mestre e terraferma a Venezia continuavano a viaggiare per barca – da piazza Barche lungo il Canal Salso –, ma il treno aveva cominciato a spostare la direttrice dei flussi verso la ferrovia.
Pertanto le notizie – quelle che Linghindal cercava – arrivavano da Venezia non più solo in barca, come era avvenuto per secoli, ma anche in treno.
A metà strada Linghindal e i suoi amici incrociarono l’omnibus, la carrozza a dodici posti che faceva corse regolari dalla stazione a Mestre e poi a Treviso. Dall’omnibus si sporse uno dei due medici condotti di Mestre, il dottor Dalla Giusta, che gridava a squarciagola “Viva la Repubblica!”. Si fermano i cavalli. Il medico scende e racconta che l’Arsenale è in mano ai veneziani, che il governatore ha firmato la capitolazione, e che è stata proclamata la repubblica. Si fanno attorno, increduli, operai dell’officina della stazione di Mestre, con l’ingegnere Angelo Milesi.
Che ora poteva essere? Daniele Manin attorniato da molta folla proclamò la repubblica montato sopra un tavolo davanti al caffè Florian, in piazza San Marco, tra le quattro e le cinque del pomeriggio, ma in realtà non fece che ribadire con il suo prestigio (era stato liberato da pochi giorni dal carcere) quello che la folla andava già proclamando da qualche ora. Quanto tempo ci vuole perché una notizia da piazza San Marco arrivi a Mestre per ferrovia? Meno di un’ora, soprattutto se c’è un treno in partenza. Diciamo che a Mestre la notizia arriva tra le cinque e mezzo e le sei? Faccio il pignolo perché si tenga presente che di marzo fa buio presto.
Linghindal voltò il calesse e tornò a Mestre. Il paese era allora stretto attorno al duomo, alla piazza e alle Barche. Nel frattempo si aggiunse una piccola folla. Il deputato comunale e il medico condotto si recarono per prima cosa nella caserma delle Grazie, che si trovava nel cortile interno del Borgo delle Monache1.
Il comandante della piazza di Mestre si chiamava Augusto Forest De Jouy, un veneziano nato a Corfù da una famiglia di militari: i suoi avi erano venuti dalla Francia in aiuto alla Serenissima durante la guerra di Candia alla fine del Seicento2. Un italiano, e questo è decisivo. In quei momenti, in tutto l’impero asburgico, i soldati si divisero perlopiù secondo l’appartenenza nazionale. Ma non era lui a comandare il V battaglione stanziato in caserma, bensì il capitano Heber, un tedesco che aveva una moglie italiana, sembra una milanese. Sotto di lui c’erano almeno quattro tenenti: tre con cognome straniero (Meiler, Serwatey e Soravovich), e un quarto, Tarozzi, di Cremona3.
Il termine “tedesco” era vago, e il significato dipendeva dal contesto. Potevano essere “tedeschi” tutti quelli che appartenevano all’impero asburgico e non erano né italiani, né dalmati, né croati: tirolesi, boemi, carinziani, austriaci, prussiani, triestini e goriziani.
Il capitano Heber non sapeva cosa fare (infrangere il giuramento di fedeltà all’imperatore comportava la corte marziale), ma alla fine seguì il comandante di piazza De Jouy e il primo deputato Linghindal.
Monsignor Renier, parroco di San Lorenzo, scrive nelle sue memorie che Heber fu convinto dalla moglie italiana, “a forza di prieghi e di lacrime”4: era normale in questi casi, in cui un uomo veniva meno ai suoi doveri di uomo d’onore, addossare la colpa alla donna. Negli ambienti militari veneziani si disse invece che fu il comandante De Jouy a ordinare al capitano Heber di seguirlo, riaffermando in tal modo i rapporti gerarchici su cui si fondava l’esercito5.
Al gruppetto si aggiunse il tenente Tarozzi: oltrepassarono il duomo, attraversarono la piazza del mercato e si diressero al municipio.
Davanti al municipio
Davanti al municipio si stava radunando una piccola folla. Spuntò un tricolore, portato da un uomo che aveva una bottega di mercerie, e che aveva unito alla bell’e meglio tre stoffe. L’uomo si chiamava Antonio Gallina e risulta essere uno dei “cittadini facoltosi” di Mestre6. La polizia, che lo descrive come “caffettiere, contrabbandiere e faccendiere”, lo teneva d’occhio da qualche tempo perché, così scriveva, “tiene adunanze sopra argomenti politici con gente ignorante ma esaltata, e sparla del Governo”7.
Arrivarono una dozzina di soldati italiani, provenienti dalle province lombarde e venete, del V battaglione di stanza a Mestre, con schioppo e baionetta; i soldati non italiani, che erano una ventina, erano rimasti in caserma8. I soldati italiani strapparono il pompon giallo e nero, lo gettarono a terra e si unirono alle grida: “Viva la Repubblica, viva San Marco!”. Caduto il governo austriaco nel Lombardo Veneto, e forse anche caduto l’impero asburgico, pensavano di tornarsene a casa, come in effetti avrebbero fatto nei due giorni successivi.
Continuarono ad aggiungersi persone. Placido Aldighieri, un ventenne commesso da un merciaio, era di famiglia modesta. Il padre, un veronese, aveva studiato fino al ginnasio e aveva sperato che il figlio si facesse prete; la madre, una trevigiana, stirava e cuciva in casa, anche di notte, alla luce della lampada a olio. Sentendo le notizie, il giovane lasciò il negozio e corse da una famiglia di conoscenti, i De Marchi, che stavano nel borgo delle Caneve, dietro il municipio; si fece dare un fucile da caccia dalla signora Rosa e raggiunse la folla9.
Giunse all’improvviso la notizia che croati del reggimento Kinsky, gli stessi che avevano sparato sulla folla in piazza San Marco, stavano dirigendosi in barca per attestarsi dentro forte Marghera.
Le autorità si affacciarono al balcone. Qualche giorno dopo, quando gli austriaci non c’erano più, il deputato Linghindal scrisse al nuovo governo veneziano che dal poggiolo si era gridato “Viva la Repubblica, Viva l’Italia”, e che lui stesso aveva parlato alla folla dicendo “ch’era necessario ed urgente di procedere verso la Fortezza di Malghera e di tenersi in osservazione onde impedire una sortita al nemico”10.
Difficile che Linghindal abbia fatto un discorso di questo tenore. L’uomo era noto infatti per il suo attaccamento alla casa d’Austria. Secondo un testimone, che faceva parte della Guardia civica di Mestre da poco costituita, Linghindal avrebbe detto anzi che toccava a Venezia, e non a Mestre, occupare forte Marghera: insomma, che si arrangiassero i veneziani. Pochi giorni dopo Linghindal e gli altri due deputati dovettero dimettersi proprio in seguito alle pressioni di chi aveva partecipato alla presa di forte Marghera e accusava la deputazione di essere “retrograda”11.
Dal poggiolo parlò, tra gli altri, il cappellano del duomo di San Lorenzo, don Peron, un mestrino di poco più di trent’anni. Immagino abbia gridato “Viva Pio IX”: allora si pensava infatti che il papa fosse favorevole alla causa italiana. Il parroco del duomo invece, monsignor Renier, non c’era. Era amico del deputato Linghindal, con cui andava ogni sera a casa del pretore dopo cena, d’estate e d’inverno, alle otto e mezza, con qualsiasi tempo, cascasse il mondo. Ma in quel periodo era costretto fermo immobile in canonica, perché in gennaio s’era rotto una gamba sul ghiaccio proprio mentre si stava recando nel mezzo di una nevicata al consueto appuntamento in casa del pretore. Non ci sarebbe andato ugualmente davanti al municipio, anche se avesse potuto alzarsi dal letto: anzi, giorni dopo, per punizione, trasferirà il suo cappellano alla Gazzera e a Brendole, per tenerlo lontano da Mestre.
Monsignor Renier vedeva con molto sospetto tutta la faccenda, temendo che, approfittando del cambio dei governi, i popolani volessero mettere in pratica quello che lui chiamava “la legge del comunismo”, e cioè “migliorar condizione, godere a buon mercato, vivere a spese dei ricchi”. Pensava in particolare alla gente delle Barche, la “schiuma del popolaccio” come la chiamava – artigiani, facchini e contrabbandieri12.
Venezia era porto franco e a San Giuliano si doveva pagare la dogana: di qui un forte contrabbando.
E infatti, come temeva monsignor Renier, sotto il municipio si raccolsero popolani, armati di forche, badili, bastoni. Qualcuno, un fucile da caccia. Passarono per la piazza del mercato, e si recarono alle Barche gridando. Le campane del duomo suonarono: non credo a martello, piuttosto a festa. Il corteo issava il tricolore del merciaio. C’erano gli uomini della Guardia civica. C’erano i soldati italiani guidati dal capitano Heber, e c’era il comandante di piazza De Jouy. Un testimone scrive che anche il capitano Heber si mise in marcia con i suoi soldati “non senza rischio della propria esistenza, minacciata dai furibondi contadini che seguivano la Civica”. Il medesimo testimone aggiunge che De Jouy e Heber speravano di “frenare colla loro presenza gli eccessi ch’era ragionevole di dover temere” da parte della “massa irrompente” ai danni del “debole presidio” di Forte Marghera13.
Teodoro Ticozzi si affacciò con i suoi dipendenti alla porta del laboratorio, che gestiva con il fratello, più o meno dove adesso c’è il centro commerciale Alle Barche. Dobbiamo immaginare un intenso profumo di cioccolata, perché quella era una cioccolateria. Teodoro Ticozzi era lombardo, di Lecco, aveva quasi quarant’anni, non era sposato e viveva con il fratello e con il padre. Dal suo negozio vide la colonna passare. Notò che i popolani urlavano di gioia. La prima reazione che ebbe, lui e i suoi dipendenti, fu quella di ridere. Quattro scalmanati all’assalto di Forte Marghera? Guardò meglio. Ma quello non era il farmacista Luigi Reali, quello della farmacia all’entrata della piazza? E l’altro non era il medico condotto? E quello che agitava quella specie di tricolore non era Gallina, quello della bottega di mercerie? Tutta gente benestante, con famiglia. Ticozzi pensò che “la cosa si andava a farsi seria”.
Di sicuro non immaginava che due suoi dipendenti si sarebbero arruolati di lì a poco volontari contro gli austriaci, né tanto meno presentì che sarebbe morto l’anno dopo, di colera14.
In quanti giunsero al forte? I soldati italiani del V battaglione erano una dozzina (qualcuno parla di quindici), e le guardie di Finanza raccolte per strada una ventina. Subito dopo arrivarono degli operai addetti alla ferrovia, con un ingegnere di nome Cappelletto, che avevano messo in moto una locomotiva e l’avevano fermata davanti al Forte, per poi farsi traghettare al di là del canale da barche di passaggio15. Fin qui, grosso modo una cinquantina di uomini. A questi si aggiunse quello che i documenti definiscono “popolo”: borghesi, contrabbandieri, barcaioli, facchini. Secondo monsignor Renier, un centinaio di fucili in tutto, compresi quelli da caccia. Altri documenti parlano di duecento persone.
Forte Marghera
Dopo aver percorso la strada del Cavallino (ora via Forte Marghera) che costeggia il Canal Salso, la folla è arrivata davanti al Forte, dove trova il ponte levatoio alzato.
Barcaioli che passano per il Canal Salso portano la notizia che dalla parte opposta del Forte stanno per sbarcare i Croati. Qualcuno corre a Mestre, dove molti avevano messo dei lumi alle finestre in segno di festa (secondo monsignor Renier una illuminazione ordinata dai “capi del movimento”). In un attimo spenti i lumi, chiuse porte e imposte, sprangati i portoni. Le donne (sempre loro a recitare la parte delle paurose, secondo monsignor Renier) chiamano i figli e supplicano gli uomini di non uscire16.
I contrabbandieri e le guardie di finanza conoscevano un trucco per entrare nel Forte senza passare per il ponte17. Contrabbandieri e guardie di finanza assieme? Si conoscevano? Avevano un qualche loro accordo? Comunque sia, conoscevano un sistema. Bastava aggirare il Forte dalla parte dell’argine verso Campalto. Monsignor Renier parla di un “travicello”, “sopra il quale un uomo pratico e franco poteva passare”18: un trave stretto stretto su cui stare in bilico sopra il canale.
E di lì infatti passano uno a uno, in silenzio. L’uomo che poche settimane dopo si assunse il merito di aver guidato il gruppetto – uno che faceva parte della Guardia civica di Mestre – parlò di una trentina di uomini, senza nominare però la presenza di contrabbandieri: otto della guardia civica, sei della guardia di finanza, e “molti” soldati del V battaglione (e i soldati come sappiamo erano al massimo una quindicina)19.
Ecco dunque il gruppetto di persone affacciarsi di sorpresa nella spianata del Forte, dalla parte che guarda Venezia, dove ci sono le caserme. Non lo sanno, ma quel giorno la guarnigione a difesa di Forte Marghera è composta di soli trenta soldati.
Gli austriaci avevano infatti paura di una insurrezione a Venezia, e temevano di perdere l’Arsenale. Ma Forte Marghera no: quello era considerato imprendibile. In effetti, durante la rivoluzione il Forte resistette a un assedio austriaco per un anno, e fu abbandonato solo in seguito a un devastante bombardamento.
La versione italiana
Dei fatti che avvennero davanti alle caserme di Forte Marghera, abbiamo due versioni: una italiana, e una austriaca.
La versione italiana comprende testimonianze scritte al momento, come i rapporti ufficiali tra le autorità e il diario tenuto da Teodoro Ticozzi20, e i ricordi scritti a distanza di tempo da monsignor Renier e da Placido Aldighieri, che da giovane aveva partecipato all’azione. I punti di vista sono molto diversi: le autorità scrivono a cose fatte e sull’onda dell’entusiasmo; Ticozzi è un cronista distaccato e non partecipe; monsignor Renier vede nei protagonisti dell’avvenimento un insieme di “vigliacchi” e “trepidi”, “mestatori” e “demagoghi”; e infine Aldighieri risente della retorica nazionalista e ufficiale del periodo in cui scrive, quarant’anni dopo. Tuttavia le loro testimonianze coincidono in molti punti.
Nella versione italiana dunque, all’improvviso cala la nebbia. Dal canale si sentono battere i remi sull’acqua, e si sente cantare: i croati, sono loro21.
In mezzo al gruppetto sulla spianata c’era un ingegnere trentenne, Odoardo Collalto, che aveva fatto un tirocinio in Belgio per conto della Società della strada ferrata. Aveva da poco rilevato una officina alle Barche per farne una fonderia in ghisa che costruiva pompe idrauliche, ponti e grandi macchine a vapore, ma anche attrezzi da lavoro per artigiani e contadini. Immagino che per questo motivo Collato conoscesse parecchi uomini a Mestre. Doveva avere il pallino della meccanica. Lo sappiamo perché una volta volle guidare una locomotiva alla stazione di Marghera (non c’era ancora il ponte sulla laguna), senza avere la patente prescritta. Salì sulla locomotiva, mise la retromarcia e finì contro un convoglio fermo, danneggiandolo22.
L’ingegner Collalto si trovava dunque sulla spianata, da dove sentì il battere dei remi e il canto dei soldati che si avvicinavano in barca, invisibili per via della nebbia. Lasciò tutti e corse verso l’entrata del forte, sperando di far entrare la folla che aspettava al di fuori.
Sempre secondo la versione italiana, dalla spianata partono colpi di fucile alla cieca, verso il canale. I soldati croati misero sulla prua dei sacchi di paglia che si erano portati dietro per dormire in caserma. Altre fucilate dalla riva fecero qualche ferito, forse un morto. Sentendo fischiare le palle, i rematori veneziani, che trasportavano la truppa, si buttarono in acqua, malgrado la stagione, salvandosi a nuoto.
Senza rematori, le barche si girarono di fianco, e in questo modo i soldati si trovarono esposti ai tiri. Ma nel frattempo i soldati del V battaglione avevano finito le munizioni. Dalla riva del Forte si stimò che i soldati fossero duecento, a bordo di due grandi peate, e difatti sembra proprio quello il numero, ma a Mestre il loro numero raddoppiò: divenne quattrocento su quattro barche23.
Al comando dei Croati c’era un friulano, il capitano Giupponi, che sbandierò un fazzoletto bianco. Dalla riva lo videro (la nebbia non doveva essere poi così fitta), e lo fecero sbarcare. Giupponi confermò che i suoi soldati erano del reggimento Kinsky (gli stessi, come si è detto, che avevano fatto fuoco sulla folla in piazza San Marco). Chi dice che Giupponi abbia parlamentato con il comandante De Jouy (in fondo era il comandante di più alto grado della piazza di Mestre), e con un certo Wirz, soldato del V battaglione o guardia di finanza; altri dicono che abbia trattato invece con l’ingegner Collalto, tornato nel frattempo nella spianata, e con qualcun altro dei suoi.
Fu chiesto a Giupponi di arrendersi: nel Forte c’erano due migliaia di insorti, nei paesi vicini stavano suonando campana a martello, tra poco sarebbero giunti rinforzi.
Un bluff? Neanche tanto. I mestrini infatti, come vedremo, erano riusciti nel frattempo a entrare dal ponte levatoio e si stavano avvicinando. Già si sentivano le grida e il rullo di tamburi. E nei paesi vicini suonavano davvero campane a martello. La mattina dopo arrivò a Mestre quella che monsignor Renier chiama “una schiera di villani”, da Maerne, Trivignano, Peseggia. Altri vennero da Mirano. Giunsero fino all’inizio del Terraglio, ai Quattro Cantoni, che allora era un vero quadrivio, ma quando videro che lì, ai confini di Mestre, tutto era tranquillo, se ne tornarono a casa. Anche a Gambarare il cappellano mise assieme circa “quattrocento villici” (prendiamo pure la cifra con le pinze), li portò a Mira Taglio e poi girò tutta la notte24.
A Mestre invece, ricorda monsignor Renier, niente campane a martello (credo per decisione sua): “e fu gran ventura – scrisse nelle sue memorie –, perché da un popolo eccitato a rivolta può temersi ogni maniera di eccesso”25.
Giupponi rifiutò di arrendersi e di consegnare le armi. Si venne a un compromesso basato sulla parola d’onore: i soldati del Kinsky potevano scendere a terra con le armi, ma ripartire la stessa notte, quando fossero giunte altre barche. Nel frattempo furono fatti sbarcare e rinchiusi con catenacci in una delle due caserme.
Nel frattempo una folla aspettava davanti al ponte levatoio alzato. Anni dopo Placido Aldighieri ricordò che alcuni barcaioli (tredici per la precisione, di cui riportava i nomi) si gettarono in acqua e risalirono il bastione del Forte riuscendo a entrarvi. La situazione doveva essere molto confusa, anche perché si stava facendo buio. Si sentivano colpi di fucile. Non so in che punto, se fuori del forte o già dentro, il merciaio Antonio Gallina gettò il tricolore e si buttò in acqua, ma siccome non sapeva nuotare gridò aiuto e fu salvato da un soldato del V battaglione che gli allungò il fucile e lo trasse a riva. Si disse che il capitano tedesco Heber avesse approfittato del trambusto per dileguarsi e tornare a Mestre26.
A questo punto abbiamo due versioni, sempre di parte italiana. Per alcuni, una volta entrati nel Forte questi uomini riuscirono a trovare un sergente (o un caporale) ungherese nascosto chissà dove con le chiavi del ponte levatoio, e se le fecero dare; per altri, ruppero a forza il meccanismo del ponte levatoio. Comunque, giù il ponte, entrarono tutti in massa e corsero verso la spianata, dove trovarono il V battaglione schierato, e i soldati del Kinsky già sbarcati a terra.
A distanza di quarant’anni Placido Aldighieri ricordò di essere entrato con la folla e di aver sparato verso i croati ancora sulle peate, prima di farli sbarcare. In realtà in quel momento i croati sembra fossero già chiusi dentro una caserma. Sempre stando a Placido Aldighieri, un uomo di Mestre che aveva fatto il servizio militare con gli austriaci e avrebbe partecipato alla difesa di Venezia (anni dopo si sarebbe fatto garibaldino), di nome Giuseppe Viani, fece puntare quattro cannoni contro la porta della caserma dei soldati del Kinsky. Aldighieri ricordava di essere stato messo accanto a un cannone con la miccia accesa assieme a un altro compagno, pronto a far fuoco, ma i cannoni erano vuoti – una messinscena insomma –, mentre tutt’intorno “cittadini di ogni condizione” si vedevano “baciarsi, stringersi la mano e dichiararsi eguali e fratelli gridando Viva la libertà viva l’uguaglianza”.
Mancavano munizioni. Sfondare le porte del deposito? Cercare le chiavi? Tra il gruppo dei mestrini c’era un certo Giuseppe Danieli detto Pignola, genero di un sergente ricordato come “custode” del Forte, un sergente veneziano di nome Tomas. Danieli andò dal suocero e gli chiese le chiavi della polveriera. Tomas si rifiutò. Il genero continuò a insistere. Alla fine Tomas andò a un pozzo e tirò su una corda a cui aveva appeso le chiavi, che consegnò. Danieli e altri aprirono le porte della polveriera. Più tardi a Mestre si deplorò il fatto che fossero entrati con le candele accese, una sola scintilla e sarebbe saltato tutto.
Uscirono dalla polveriera spingendo barili di polvere e di munizioni, e li distribuirono a chi aveva un fucile27.
Più tardi nella notte, trovati alcuni barcaioli, i soldati croati furono trasportati a Venezia: una peata con quattro rematori fece almeno due viaggi. Quattro cittadini di Mestre li accompagnarono fino alla caserma ai Gesuiti, a garanzia della loro vita28.
La versione austriaca
Gli ambienti austriaci a Venezia furono orgogliosi del comportamento dei soldati del Kinsky i quali, mandati a Forte Marghera, si erano rifiutati di consegnare le armi come aveva invece vergognosamente fatto il comandante della piazza di Venezia.
Gli ambienti fedeli all’imperatore attribuivano infatti la fine del governo austriaco alla viltà di funzionari pavidi e al tradimento di ufficiali spergiuri, e pensavano che un atteggiamento deciso avrebbe avuto facilmente ragione di una folla di borghesi guidata da avvocati con una fascia a tracolla.
In un primo tempo il merito del comportamento dei soldati del Kinsky fu attribuito a Giupponi, che alla richiesta di arrendersi aveva risposto di voler vedere un ordine firmato. Qualcuno dei presenti lo rimproverò: lui, un italiano, schierarsi con gli austriaci? E Giupponi: italiano, sì; ma prima di tutto veniva il giuramento e il suo onore di ufficiale. E così era sbarcato a terra con gli uomini e con le armi29.
La versione ufficiale del reggimento Kinsky, scritta più tardi, attribuisce però il merito non a Giupponi, probabilmente perché poco dopo passò al servizio del nuovo governo veneziano30, ma a un altro ufficiale, il nobile Ugo Visconti Menati, rimasto invece fedele alla bandiera.
Secondo questa versione, dopo che l’Arsenale fu occupato dalla Guardia civica veneziana, le autorità austriache, temendo che le cose si mettessero male, mandarono una compagnia di poco più di duecento soldati del reggimento Kinsky a rafforzare la guarnigione di Forte Marghera. I soldati s’imbarcarono senza sapere che nel frattempo il governatore della città aveva sottoscritto la capitolazione.
Mentre stava per mettere piede a terra con la prima barca, il tenente Visconti Menati fu accolto inaspettatamente da spari di fucile. I barcaioli, impauriti, portarono le imbarcazioni sulla riva opposta.
Ma il tenente non si fece intimidire: sfidando il fuoco nemico, prese posizione con dodici uomini dietro a dei parapetti all’esterno del Forte, in attesa che tornassero anche gli altri soldati. In effetti i soldati tornarono. Dapprima si avvicinò alla riva una barca con una decina di uomini con coperte per la notte, e poi una mezza compagnia. Ma le fucilate continuavano. I barcaioli tagliarono le funi con cui trascinavano la pesante peata e si misero in salvo. Allora un caporale e un soldato semplice si gettarono in acqua e riuscirono ad attraccare, legando la peata a terra. “Sotto un vivo fuoco” la mezza compagnia riuscì a sbarcare, mettere in fuga i ribelli ed entrare nella caserma, protetta da sette uomini che costituirono una sorta di catena a protezione dello sbarco, sotto il comando di un vice caporale, che per questo avrebbe ricevuto una medaglia d’argento al valore. Due soldati furono feriti leggermente.
In quel punto il tenente Visconti Menati fu attorniato da parecchie guardie civiche, che gli comunicarono che a Venezia c’era la repubblica, che la capitolazione era stata firmata, e che il Forte era occupato da “migliaia di armati”. Le notizie vennero confermate da due ufficiali di Mestre, e cioè dal comandante la piazza di Mestre (sappiamo che era De Jouy) e dal capitano del battaglione, cioè Heber (che a Mestre dicevano aver approfittato della confusione per tornare in caserma). Il tenente Visconti non volle sentir ragione. Alla fine si giunse a un accordo: i soldati del Kinsky sarebbero rimasti “nella posizione conquistata” in attesa di ordini da Venezia. Nel frattempo sbarcò il resto della compagnia, al comando del tenente Giupponi31.
I soldati del Kinsky si sistemarono nella caserma. Nella notte, arrivati gli ordini da Venezia, furono imbarcati e all’alba erano nella caserma dei Gesuiti a Venezia32.
Dentro il Forte
Occupato il Forte e chiusi “i tedeschi” nella caserma, il farmacista Reali e un suo amico mandarono a chiedere viveri al deputato Linghindal, in municipio a Mestre.
Stando alla loro testimonianza, Linghindal rispose che “erano ribelli” e che bisognava piuttosto arrestare l’ingegner Collalto e tutti quelli “che avevano rivoluzionato e compromesso il paese, ed avevano esposta così la vita di coloro che li seguirono alla presa del forte”33. Linghindal, e forse non era il solo, temeva in altre parole che gli austriaci potessero ancora tornare, da Padova o da Treviso. Dentro al Forte, invece, si pensava a mangiare e bere qualcosa, e far festa.
I soldati italiani speravano di essere liberati dal servizio militare, che durava sette anni, e di tornarsene a casa: cosa che infatti avrebbero fatto, al pari dei soldati che la rivoluzione aveva sorpreso nelle caserme di Venezia.
I contrabbandieri, che si sentivano perseguitati dalla Finanza e dai tribunali, non solo speravano che venissero cancellate le procedure giudiziarie e le multe in corso a loro carico, ma in generale si aspettavano la fine “del sistema proibitivo e di quello di controlleria” voluto da un Erario “ingordo”, come avrebbero protestato in un manifesto a stampa qualche giorno dopo34.
Da quando erano state istituite le corse di omnibus regolari per Mestre e per Treviso, i vetturali erano rimasti disoccupati. Fino ad allora il governo austriaco aveva protetto la società degli omnibus: ma ora, con la repubblica, le cose dovevano finalmente cambiare.
E se le truppe austriache fossero tornate, magari muovendo da Padova e da Treviso? Forse è in quel momento che l’ingegnere ferroviario Milesi propose di stabilire nella stazione di Mestre un osservatorio sui movimenti delle strade, e di issarvi una grande bandiera rossa, visibile da Venezia, in caso di pericolo35.
Ma il Forte avrebbe difeso davvero Venezia o non avrebbe invece attirato gli assedi e quindi le guerre? Qualcuno propose di chiamare un migliaio di operai e di spianare l’intero Forte Marghera, buttando le macerie nei canali. In fondo il Forte aveva solo quarant’anni di vita. Era fresca la memoria di quando al suo posto c’erano case, orti e campi36.
Così si discuteva. Intanto al posto della bandiera austriaca bianca e rossa, fu issata una bandiera tricolore. Ed è il tema nazionale – e non la proposta di abbattere il forte, o le discussioni sul contrabbando e sul lavoro dei vetturali – a improntare la notizia che qualcuno da Mestre si affrettò a mandare quella sera stessa alla Gazzetta di Venezia: “Alle ore otto e mezza di notte, sul forte di Marghera sventolava il vessillo dell’indipendenza italiana, colà postovi dal valore della Guardia civica di Mestre”. Nella notizia si ricordava “l’entusiasmo e la bravura con cui questi prodi Italiani si sono, ad onta di un forte scontro avuto con la truppa del reggimento Kinsky, impadroniti della fortezza, delle munizioni e delle artiglierie”, e si chiudeva con queste parole: “La fretta e lo sbigottimento, per ora non permettono di darne un più dettagliato racconto. Basti per altro sapere che da per tutto il valore italiano come scintilla elettrica si va diffondendo, e che questa è una fra le prime azioni di valore e di coraggio della civica delle venete provincie. Viva Mestre! Viva l’indipendenza italiana!”37.
Qualche giorno dopo
Verso il 10 aprile alcuni vetturali di Mestre fecero a pezzi un omnibus sul Terraglio, sette di loro vennero arrestati per “pubblica violenza” e condotti in carcere a Venezia. Il gestore dell’impresa di omnibus contro cui protestavano era Pietro Antonio Zerman, che sosteneva il governo di Manin e che proprio in quei giorni aveva messo assieme con il fratello una spedizione (“crociata”) di volontari veneziani a Vicenza per far fronte a una eventuale minaccia da parte austriaca. Il governo provvisorio mandò a Mestre il notaio Giuseppe Giuriati – un uomo grande e grosso con una voce potente – a calmare gli animi. Giuriati fece liberare i vetturali, e il governo sospese il processo “per viste eminenti di pubblica utilità”. In un rapporto al governo Giuriati scrisse che qualche vetturale gli aveva detto che “saran tranquilli perché l’han promesso, ma affamati perché senza lavoro: che sotto la Repubblica speravano di migliorar condizione”38.
Nota. Uscito per la prima volta sotto il titolo Forte Marghera, 22 marzo 1848, in “L’Esde. Fascicoli di storia e cultura”, 6, 2011, pp. 59-72; si ripubblica con un titolo diverso, alcune correzioni e l’aggiunta di un paragrafo finale.
Le illustrazioni sono, nell’ordine:
Piazza Barche, tratta da Un viaggietto [sic] a Venezia nel mese di ottobre mille ottocentotrentotto. Racconto di un Viniziano adorno d’Incisioni e Litografie, Coi Tipi della Erede Picotti, Venezia 1839.
Forte Marghera, tratta da Eugenio Gazzo, Venezia negli anni 1848-49. Racconto illustrato, Coi Tipi dei Fratelli Borroni Tip.-Editori, Milano 1865.
- Francesco Linghindal, primo deputato, e Antonio Berna deputato del comune di Mestre al governo provvisorio della repubblica veneta, 1 aprile 1848, in Biblioteca del Museo Correr di Venezia [Bmcv], Documenti Manin, vol. 13, n. 3664. [↩]
- Menzioni onorifiche dei defonti [sic], Venezia 1859, pp. 4, 6-7. [↩]
- Sulla truppa a Mestre vedi lettera della deputazione comunale di Mestre al Governo provvisorio della repubblica veneta, 24 marzo 1848, in Archivio di Stato di Venezia [Asv], Governo provvisorio, b. 414, n. 22. [↩]
- G. Renier, La Cronaca di Mestre degli anni 1848 e 49 e saggio di altri scritti inediti, Treviso 1896, p. 8. Cito, anche in seguito, da questa edizione, ma la cronaca è stata ripubblicata dal Centro Studi Storici di Mestre, a cura di L. Brunello, Mestre 1982. [↩]
- Biografie contemporanee. Armata Veneta. Tenente Colonnello A. de Jouy, “Asmodeo il diavolo zoppo. Giornale politico-umoristico a benefizio di Venezia”, Giovedì 7 giugno 1849. [↩]
- Il notaio Giuriati scrisse al Governo provvisorio della repubblica veneta, il 20 aprile 1848, che Luigi Reali, Giorgio Pesavento e Antonio Gallina erano “tre cittadini facoltosi […] che nei giorni del pericolo hanno con grande utilità dominato la plebe, e sono da essa amati veramente e meritatamente”, in Asv, Governo provvisorio, b. 16, fasc. 6393. [↩]
- Nota di polizia non firmata, s.d., ma gennaio 1848, in Bmcv, Documenti della polizia austriaca, vol. VII, n. 773. [↩]
- “Mestre Dep. Com. propone di ritenere in servigio 19 Croati, sicura della fedeltà. Si accorda il trattenimento dei Croati”: così si legge in data 24 marzo 1848 nel “Protocollo del Governo provvisorio della Repubblica veneta irregolarmente tenuto dal 23 al 25 marzo 1848”, in Asv, Governo provvisorio, b. 1. [↩]
- P. Aldighieri, Memorie di un veterano 1848-49, Associazione civica per Mestre e la terraferma, Mestre 1961, pp. 13-14; cenni sulla figura di Aldighieri nelle pagine introduttive a cura di L. Brunello, pp. V-VII. [↩]
- Francesco Linghindal e Antonio Berna al governo provvisorio della repubblica veneta, 1 aprile 1848, in Bmcv, Documenti Manin, vol. 13, n. 3664. [↩]
- La questione in Asv, Governo provvisorio, b. 16, fasc. 6393. Il testimone ricordato nel testo è Federigo D’Antiga, che scrive al generale Giuriati il 17 aprile 1848, ibid. [↩]
- Renier, La cronaca di Mestre cit., p. 20. [↩]
- Rettificazione, “Asmodeo il diavolo zoppo. Giornale Politico Umoristico a benefizio di Venezia”, 10 giugno 1849. [↩]
- T. Ticozzi, Diario 1848-49, Centro Studi Storici di Mestre, Mestre 1968, pp. 1-2; su Ticozzi si vedano le pagine introduttive di L. Brunello, pp. V-XXVIII. [↩]
- Antonio Cappelletto al barone Francesco Avesani, Mestre, 23 marzo 1848, in Asv, Carte Avesani, b. 4, non inventariata, fasc. “Atti vari, per la maggior parte in copia, di natura politica” [↩]
- Renier, La cronaca di Mestre cit., p. 17. [↩]
- Il comandante della Guardia civica di Mestre B. Bianchi al ministro della guerra, 30 marzo 1848, in Asv, Governo provvisorio, b. 127, n. 898/186. [↩]
- Renier, La cronaca cit., p. 11. [↩]
- Federigo D’Antiga al generale Giuriati, 17 aprile 1848, in Asv, Governo provvisorio, b. 16, fasc. 6393. [↩]
- Ticozzi segna la presa di forte Marghera in data 20 marzo, una imprecisione che testimonia che in realtà “il diario” fu scritto a distanza di tempo. [↩]
- Affare del forte di Marghera 22 marzo 1848, s.d. [marzo 1848] in Bmcv, Documenti Manin, vol. 13, n. 3813. [↩]
- Su Odoardo Collalto vedi A. Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea Lombardo-Veneta (1835-1852), Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1996, pp. 348 n, 362 n, 369 n, 373. Sull’apertura dell’officina a Mestre; vedi Asv, Notarile, s.II, b. 1873 (Carlo Gualandra), n. 4831 (26 gennaio 1848). [↩]
- Ticozzi, Diario cit., p. 2. [↩]
- Asv, Presidenza della Luogotenenza veneta 1849-66, b. 220, V 3/1, l’I.R. Direzione generale di polizia al luogotenente, 18 ottobre 1853. [↩]
- Renier, La cronaca di Mestre cit., p. 17. [↩]
- Ticozzi, Diario cit., pp. 1-2. [↩]
- Ivi, pp. 10-17. [↩]
- Oltre alla già citata cronaca di monsignor Renier vedi Aldighieri, Memorie cit., pp. 15-17. [↩]
- L’episodio è nella lettera di un ufficiale austriaco, che si firmava Gustav, e che il 30 marzo mandò da Venezia, dov’era nascosto, una lettera pubblicata nella “Wiener Abendzeitung” il 4 aprile 1848; ora si legge in traduzione italiana in Rivolta e tradimento. Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano, a cura di Piero Brunello, con un saggio di Luca Pes, storiAmestre, Mestre 2012, pp. 65-75. [↩]
- Nel saggio Austriaci a Venezia, in Fratelli di chi. Libertà, uguaglianza e guerra nel Quarantotto asburgico, a cura di S. Petrungaro, Edizioni Spartaco, S. Maria Capua Vetere 2008, p. 22, ho scritto erroneamente che Giupponi seguì l’armata austriaca. In realtà Giovanni Battista Giupponi nel 1848-49 comandò a Venezia la Legione friulana (vedi l’indice alfabetico di E. Jäger, Storia documentata dei corpi militari veneti e di alcuni alleati, milizie di terra, negli anni 1848-49. Con elenco dei morti e feriti in guerra per la difesa di Venezia, B. Calore, Venezia 1880). [↩]
- G. Ritter Amon von Treuenfest, Geschichte des k.k. Infanterie-Regimentes nr. 47, Wien 1882, trad. In H. Hauschka, L’assedio di Marghera e Venezia nel 1849 corredato di notizie e commenti ricavati dalle Relazioni dell’I. R. esercito austriaco, Centro Studi Storici di Mestre, Mestre 2005, pp. 171-173. [↩]
- L’ordine ai soldati del Kinsky di consegnare il forte alla Guardia civica di Mestre era allegato in una lettera di Zichy al comando della guardia civica di Venezia, 22 marzo 1848, in Asv, Governo provvisorio, b. 440, n. 173 (l’allegato però non si trova). Per il ritorno dei duecento soldati del Kinsky fino alla caserma dei Gesuiti nella notte vedi il rapporto di Girolamo Gradenigo, capo dirigente della Guardia civica di Santa Croce, 23 marzo 1848, ivi, n.19. [↩]
- Luigi Reali e Giorgio Pesavento al Governo provvisorio della repubblica veneta, s.d., ma prima del 15 aprile 1848, in Asv, Governo provvisorio, b. 16, fasc. 6393. [↩]
- Il manifesto a stampa firmato “Li cittadini di Venezia e di Mestre”, Venezia 28 marzo 1848, è in Bmcv, Documenti Manin, n. 3988. [↩]
- Vedi lettera dell’ing. Milesi all’ing. Bora della stazione ferroviaria di Mestre, allegata alla lettera della Deputazione comunale di Mestre al Governo provvisorio della repubblica veneta, 24 marzo 1848, in Asv, Governo provvisorio, b. 414, n. 22. [↩]
- Renier, La cronaca cit., p. 18. [↩]
- Lettera al Compilatore, Mestre 22 marzo 1848, “Gazzetta di Venezia”, 23 marzo 1848, in Raccolta per ordine cronologico di tutti gli Atti, Decreti, Nomine ecc. del Governo Provvisorio di Venezia non che Scritti, Avvisi, Desiderj ecc. dei Cittadini privati che si riferiscono all’epoca presente, I.1, Andreola, Venezia 1848, p. 64. [↩]
- Asv, Governo provvisorio, b. 16, fasc. 6393, e A. Bernardello, La paura del comunismo e dei tumulti popolari a Venezia e nelle province venete nel 1848-49, in Id., Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Cierre, Verona 1997, pp. 69-70 (il saggio uscì in “Nuova rivista storica”, I-II, 1970, pp. 1-64); su Pietro Antonio Zerman cfr. A. Bernardello, Una patria giacobina: i volontari veneziani nel 1848, in “Societa e storia”, n. 102 (2003), p. 773. [↩]