di Filippo Benfante
È sbrigando i miei compiti di amministratore del sito che ho notato l’ultimo libro del nostro amico Manlio Calegari, L’eredità Canepa. Il Sessantotto tra memoria e scrittura (Impressionigrafiche, Acqui Terme 2014, 216 p., 10 euro). Ho pensato di assecondare il caso – un caso fortunato –, e di presentarlo tra le “letture” di storiAmestre.
Nelle prime pagine, Calegari racconta di aver conosciuto Gino Canepa nel 1968 quando aveva 29 anni e da poco aveva cominciato a insegnare all’Università di Genova. Canepa di anni ne aveva 47 e da circa trenta (con la parentesi della guerra) faceva l’operaio all’Ansaldo San Giorgio (Asgen). Il primo incontro tra loro era avvenuto durante una riunione su lavorazioni nocive in fabbrica. “Discretamente alto, sembrava più corpulento di quanto non fosse per la flemma dei suoi movimenti. Iscritto al partito comunista, non apparteneva alla nomenclatura, ma neppure era uno qualsiasi. Temperamento dialettico amava il paradosso e la provocazione; anche nell’abbigliamento – con effetti comici di cui era consapevole. Impossibile non notarlo” (p. 4).
All’epoca Canepa era stato da poco trasferito di reparto: era stato rimosso dal suo posto di tornitore specializzato e passato alla lavorazione resine – sostanze di cui non sapeva nulla e di cui non gli era stato spiegato nulla, ma che puzzavano, gli facevano prudere il naso e lasciavano macchie rosse sulle mani. Alla riunione “si era portato, scritto un foglietto i nomi dei preparati che giornalmente maneggiava. […] Gli faceva piacere, aveva aggiunto, che finalmente fossero i giovani a parlare di salute: una novità visto che all’Asgen se ne parlava solo da vecchi ‘quando ormai si sta per morire’” (p. 4). In quel momento Gino aveva anche un altro cruccio, forse maggiore: il trasferimento in sé, che significava un declassamento nella gerarchia del lavoro di fabbrica.
Il 22 marzo 1968, Canepa si presentò all’università “giacca tre quarti di velluto verdastro a coste larghe, calzoni marroni a riempire, camicia ‘scozzese’ a quadri larghi rossi [un] cappellino di lana bordeaux con pompon lasciava spuntare un contorno di capelli biondo rossicci” (p. 3). Chiese a Calegari se poteva stare “almeno a sentire” le lezioni. Gino era in cerca della possibilità di aumentare la sua cultura, fiducioso delle possibilità di cambiamento che offre l’istruzione, e in cerca anche di capire chi erano quei giovani che cominciavano a presentarsi ai cancelli della fabbrica e volevano discutere con gli operai, anche della loro salute com’era accaduto in quella famosa riunione.
Pochi anni dopo aver condiviso con Gino l’esperienza del ’68 genovese, Calegari lo intervista, insieme ad altri operai che avevano partecipato al movimento sentendo di aver vissuto un momento straordinario, “irripetibile” come scrive Calegari. L’idea era quella di fare una storia non solo di quei mesi, ma anche di come ci si era arrivati. La ricerca partiva da una domanda precisa di Gino, che è una di quelle che assillano anche chi fa lo storico di mestiere di fronte ad avvenimenti del genere: “come è stato possibile?”, qual è la scintilla che fa precipitare gli eventi, scoppiare una rivoluzione?
Negli anni Settanta l’amicizia tra Calegari e Canepa si consolida (tra l’altro perché Manlio, insieme al suo collega Diego Moreno, compra un pezzo di terra a vigna che confina con il terreno della casa di Gino) e diventa una di quelle per la vita; per dire, nell’ottobre 1991 è Calegari che riaccompagna a casa in macchina Gino dopo una seduta di chemio – Gino che non aveva mai voluto un’auto perché per lui era il simbolo di un modello di sviluppo sballato e disumano (p. 152, n. 36). E alla sua morte, Calegari ne recupera l’archivio privato che comprendeva atti di proprietà, carte di famiglia, documenti relativi al lavoro, alcune lettere, documenti politici e sindacali, volantini, e un paio quaderni dove Gino aveva annotato il diario di viaggio di nozze (1963) e uno “zibaldone” di pensieri (scritti con continuità nel 1966, saltuariamente negli anni seguenti, fino a un’ultima nota del 1973). Ecco, per lo storico, la possibilità di incrociare un archivio sonoro (le interviste degli anni Settanta) con una documentazione scritta (precedente a quella del racconto orale).
Questo lavoro, rimandato per oltre vent’anni, ha preso forma nel libro costruito a partire dalla figura di Gino, a cui Calegari lascia “direttamente” la parola per un capitolo intero (il terzo: “Muratori, villani, camalli, operai: storia di Gino Canepa raccontata da lui stesso”, montaggio delle interviste realizzate nel 1975; in rete, sul sito www.quaderni.net, del quale riparlerò, si legge una versione leggermente diversa). La sua storia non è solo lui, la fabbrica e il ’68, ma illustra un percorso sociale e geografico che riguarda più generazioni e parte dalla metà dell’Ottocento; parla di migrazioni interne che da temporanee diventano definitive, di muratori che diventano piccoli coltivatori del retroterra di Genova che diventano lavoratori al porto e operai nella prima metà del Novecento, continuando ad abitare in una casa con un pezzo di terra, “la villa”, in un comune di collina diventato nel frattempo un quartiere della “grande Genova” del 1926. E queste storie sollecitano ad ascoltare un altro testimone: Felicina “Feli”, la madre di Gino, che viene intervistata da Calegari nel 1977 e poi da Isabella Repetto nel 1981, durante le ricerche per la sua tesi di laurea sui portuali genovesi tra XIX e XX secolo. Felicina è protagonista dei capitoli centrali (IV e V) e di due lunghe appendici che insieme fanno circa un quarto del libro (Felicina racconta la sua storia e Felicina e Isabella a confronto, 20 marzo 1981). Gino e poi il ’68 ritornano nell’ultimo capitolo, in cui Calegari ripercorre la vita dell’amico sulla base delle carte dell’archivio privato di Canepa.
Gli appassionati del genere “storie di vita”, non perdano l’occasione di leggere i racconti di Gino e dei suoi compagni del ’68 genovese, di Felicina e degli altri testimoni riportati. Gli studiosi degli anni Sessanta e Settanta coglieranno in questo libro un contributo alla storiografia sul ’68 e sui suoi esiti, compreso il terrorismo (su cui Calegari sceglie di concludere, p. 161). Queste pagine saranno utili inoltre a chiunque studi i temi di storia sociale che ho già brevemente evocato poco sopra; ma le tenga presente anche chi, per esempio, voglia fare una storia dei sentimenti nel XX secolo, oppure studiare la ricezione delle opere di Luigi Nono, oppure raccogliere testimonianze sull’8 settembre al porto di Genova.
Ma volendo proporre qui solo poche pagine, ho privilegiato la voce di un altro co-protagonista: l’autore stesso. In altre parole, ho voluto mostrare come Calegari continui, mentre mette ordine alle carte e ai nastri accumulati in una vita, quella sua riflessione sul mestiere di storico in cui – come già si è potuto apprezzare su questo sito in un’altra occasione – i piani esistenziale, politico e “professionale” sono strettamente connessi. Queste pagine mostrano lo storico al lavoro – quello “spettacolo della ricerca, con i suoi successi e le sue traversie” che offre un “vero piacere intellettuale” e “raramente stanca” per riprendere le parole di Marc Bloch. Documentano una stagione in cui alcuni insegnanti e studenti dalla facoltà di Lettere dell’università di Genova sperimentavano nuove forme di didattica e nuovi campi di indagine storica (nello specifico la sostanza del rapporto tra la Genova industriale e il suo immediato retroterra contadino), cercando così, allo stesso tempo, forme di intervento politico e sociale. Ricordano il progetto “Museo degli operai” promosso dal sito www.quaderni.net, diretto da Claudio Costantini, che vale anche da garbato omaggio alla memoria di un amico. Questo libro propone insomma un “incontro fraterno” con una vasta esperienza umana, facendo riflettere sui rapporti tra individui, eventi storici e racconto di questi eventi, sulla “fortuna” o sulla “magia” di certe congiunture in cui, per un attimo, si rovesciano le gerarchie tradizionali (a tutti i livelli), e infine su quell’altra magia che può durare una vita, e oltre: l’amicizia.
Da Manlio Calegari, L'eredità Canepa…:
1. Modi di raccontare un “colpo di fortuna”
“Gino, ora tocca a te”. Eravamo a Genova nel mio studio in una casa della città vecchia, davanti a un tavolino con sopra il registratore. Sei del pomeriggio del 4 gennaio 1975; fuori il buio nascondeva una pioggia leggera. Gino era arrivato in Vespa uscito dal lavoro. “Faremo a tempo?” aveva chiesto. Avevo riso: “Mica concludiamo stasera”. Tranquillizzato; le cose fatte in fretta non gli piacevano.
L’intervista a Gino faceva parte di un piano che ne comprendeva altre a suoi compagni di lavoro. Registrazioni e appunti dovevano servire a scrivere una storia della fabbrica durante il ’68 e il 69, anni speciali che apparivano lontanissimi anche se trascorsi da poco. L’idea era stata sua. Ricordavo l’assemblea di fabbrica alla vigilia dell’estate del ’68 nel “salone dei frati”, quando era arrivato, inatteso, un numero di operai incredibile? In seguito era risultata importantissima ma quella sera nessuno poteva saperlo. “Perché proprio quella sera?” aveva chiesto. Quale sentimento aveva suggerito ai presenti, anche a quelli che normalmente accampavano scuse per filarsela, di esserci? Toccava alla storia – quindi a me – dare una risposta. Non facile perché, aveva osservato, era necessario dar ragione nello stesso tempo della storia “dei molti” – come amava chiamarla – e dei singoli, come la sua.
A partire dal ’68 e poi nel ’69 eravamo stati testimoni di un incontro, di una esplosione di idee e di amicizia che giudicavamo irripetibili. Gino diceva “belin, che fortuna abbiamo avuto”. Era convinto che le cose succedessero a prescindere da noi; mai del tutto estranei ma non più che molecole d’un organismo mastodontico. Solo il caso, la “fortuna” gli aveva offerto un ’68 quando ancora era stato in grado di viverlo e metterci del suo.
“Solo questo tocca all’individuo: di accorgersene. Ecco, di questo sono contento. Io me ne sono accorto. Sarebbe un po’ come la seconda occasione che poi magari non è la seconda ma la terza o la quarta, e viene quando che te n’accorgi. Come il capitano della nave che aveva aiutato quel giovane a nascondersi e neppure lui sapeva perché ma dopo ripensandoci aveva capito. Lo aveva aiutato a salvarsi perché si era visto al posto di quel ragazzo; cioè, aveva salvato se stesso. Si chiamava Conrad, no?”
L’assemblea di quella famosa sera non era l’origine del ’68 all’ASGEN – “per quello ci vorrebbe chissà che studio” – ma di quando lui ed altri avevano sentito che cominciava qualcosa che bisognava esserci. Dopo d’allora si erano parlati di più e “anche in modo diverso da prima: giovani con vecchi, ad esempio”. Una scoperta, un sentimento sconosciuto “qualcosa tra l’idea del cambiamento e della facilità di poter battere una strada nuova”. Di quel sentimento Gino aveva proposto che m’occupassi; cercarlo nelle pieghe della storia di giovani e meno giovani che vi erano stati coinvolti.
Mi piaceva. Chi ritiene d’aver vissuto un’esperienza straordinaria la ripropone volentieri. A me pareva un obbligo. La gioia della rivolta, la superiorità del movimento sul partito, il socialismo reale dichiarato palla al piede, i vantaggi della contaminazione sociale non erano il punto d’arrivo, un’altra “fine della storia” dopo quella che ci avevano propinato per anni. Erano invece il modo di rileggerla; tutta, non solo quella degli operai.
Il movimento del ’68 e ’69 aveva rovesciato il banco, accomunato giudizi e attese di uomini e donne che per anni avevano solo convissuto. Come si fossero conosciuti e parlati per la prima volta. Fino ad allora ognuno aveva avuto una rappresentazione della fabbrica e del lavoro segnata dal tempo e dai modi di quando c’era entrato. Chi aveva cominciato durante il fascismo – nel ’68 e ’69 ce n’era ancora parecchi – considerava il sindacato sorto nel dopoguerra un faro inestinguibile; per lo stesso motivo faticava a condividere la critica o l’attacco a cui in quei mesi era sottoposto nelle assemblee di reparto. Egualmente, chi aveva partecipato nel dopoguerra alle lotte guidate dalle C[ommissini] I[nterne] per la difesa degli stabilimenti contro chiusure e riconversioni, faticava a riconoscere la sclérosi da cui gradualmente erano state colpite.
[…]
La “nuova fabbrica” non era l’apparizione della madonna capace di illuminare in un attimo migliaia di operai sul percorso da seguire. Era una formula che, con l’arbitrarietà propria di ogni rappresentazione complessiva, si era affermata mese dopo mese, assemblea dopo assemblea e confronto dopo confronto tra CI, organizzazioni sindacali e “studenti”. Lo slogan che aveva permesso di schierare un esercito operaio forte di più generazioni.
L’unità conquistata dal movimento a fronte della molteplicità dei punti di partenza: da lì avevo preso le mosse. Se il compito della storia era dar ragione del comune punto d’arrivo, una somma di biografie di protagonisti del ’68 e ’69, appartenenti a generazioni diverse – quindi con un carico di esperienze e cultura politica diversi – era ciò di cui avevo bisogno. Non cercavo storie “tipo” ma casi; inevitabile rivolgersi ai compagni conosciuti al tempo del Comitato. Il primo problema era stato comunicarlo ai predestinati. Dissi che intendevo raccontare quanto avevamo vissuto assieme pochi anni prima. Trattandosi di un movimento, l’attenzione doveva andare alle persone: storie e motivazioni di chi a vario titolo vi aveva partecipato. Il ’68 era degno dei libri di storia; prima o poi ci sarebbe finito come “la rivoluzione francese, il ’48 – “1848”, precisavo – e la Resistenza. Dovevamo solo dare inizio al lavoro”.
Nessuno aveva battuto ciglio o si era intestardito a chiedermi come avrei combinato le loro storie. Per amicizia si può fare qualsiasi cosa; c’entrava anche la curiosità di vedere un “professore” all’opera. Gino aveva coniato per l’impresa la formula “autobiografia assistita”. Incuriosito che potesse esistere una versione letteraria della sua vita, il romanzo che lui pensava che fosse ma che dubitava si potesse scrivere. Carlin mi disse che la considerava una occasione per raccontare come – “da furbo”, l’astuzia era la chiave di ogni sua storia – fosse riuscito a sopravvivere alla fabbrica, alla famiglia e al quartiere. Aggiunse che, quando il movimento aveva finalmente aperto le porte della politica al piacere e al gioco, aveva capito d’esserne stato un antesignano. La mia ricerca avrebbe potuto dare alla sua vicenda privata il riconoscimento che meritava.
Diversa la posizione di Caffe, poco interessato al progetto e coinvolto solo in nome dell’amicizia. Leggeva libri – ne vendeva anche, in una piccola edicola di famiglia – ma l’idea di far storia di un vissuto dove peraltro aveva interpretato un ruolo protagonista lo lasciava freddo. Il vissuto – era la sua obiezione – divorava se stesso e la sua autobiografia non sarebbe riuscita a dargli un senso. Bastava provarci per convincersene. Nessun racconto era in grado di offrire una rappresentazione adeguata dell’infinità di relazioni, connessioni, substorie e microcasi che avevano influenzato la sua vita. Per provarmelo disse che avrebbe potuto scambiare la biografia essenziale, che nel frattempo mi andava offrendo, con almeno altre 3 o 4, tutte “vere” ma dove gli ingredienti mescolandosi avrebbero dato luogo a storie diverse.
Gli ingredienti erano: la tradizione “industriale” (ottocentesca) e le corrispondenti idee socialiste del piccolo borgo della Riviera da dove proveniva, gli ideali comunisti e libertari arrivati in paese grazie ai marittimi, la tradizione familiare di sinistra (“Fasci niente, nemmeno da parlarne. La mia famiglia, anche i parenti: tutti contro. Noi ragazzi lo sapevamo benissimo e anche i vicini”) e la partecipazione, da giovanissimo, alla guerra partigiana. Nel dopoguerra l’ingresso in fabbrica, a Genova; uno stabilimento importante, storico ma in attesa di smantellamento. Le lotte per “salvarlo”; la giovinezza operaia come esperienza sportiva: i picchetti di notte e di giorno, il fascino dello scontro mescolato alla solidarietà della delegazione (“anche dei negozianti: noi niente stipendio, senza di loro non avremmo mangiato”) e la scoperta dei “compagni” (“essere uguali, dividere tutto; magari allora era più facile: non avevamo niente”). Lo stabilimento come luogo di vita e la vita come lotta. Caffe, un trasgressivo con la strafottenza del ragazzo di Riviera, che non teme il padrone anche perché grazie al mare e alla campagna, sa che saprebbe cavarsela.
Elio invece era un operaio-operaio; urbano e polceverasco. Ironico, gelido raccontatore di barzellette, un 100% di razionalità applicato con maestria a tutto ciò che in quei famosi giorni avevamo vissuto. Fosse la richiesta della direzione aziendale o una presa di posizione della federazione del partito o della Commissione interna o di Lotta continua il metodo era lo stesso: cosa dice, cosa sottintende, cosa auspica, cosa c’entriamo noi ecc. Un talento politico di prim’ordine e un tasso d’autonomia elevato che però – diversamente dai precedenti – considerava il partito un limite insuperabile. Per la stessa ragione non aveva temuto i contatti contro i quali era stato messo in guardia – ad esempio con me quando ero stato radiato dal partito come seguace del Manifesto. Non c’era domanda che lo turbasse. Aveva un forte senso della necessità: se le cose erano andate a un modo piuttosto che a un altro c’era magari da dispiacersi ma bisognava andare a fondo del perché. Operaio nello stabilimento dove anche il padre era stato operaio, e di cui aveva rilevato il posto al momento in cui era andato in pensione (“uno scambio che nel dopoguerra era frequente ma chi ti lasciava il posto doveva rinunciare alla liquidazione”), aveva concesso solo poche battute alla sua vita familiare. “Io sono qui. Tu dimmi cosa vuoi sapere”, aveva detto. Alle domande rispondeva ricorrendo ad esempi sempre efficaci ma di raccontare la sua storia no, non ne aveva avuto voglia. Insistendo lo avrei messo in difficoltà.
Luigi non era un raccontatore. La sua autobiografia aveva avuto bisogno di essere puntellata. All’inizio c’erano il desiderio di continuare a studiare, frustrato dalla scelta obbligata della professionale, e una famiglia sorda ai tempi in cui stava vivendo, che considerava la sicurezza del reddito una bussola con cui spegnere le attese del figlio. Poi era venuta la fabbrica, un lavoro subito duro e dai rapporti frustranti – “gli anziani erano pesanti” – fino al bagno del ’68, i nuovi contatti, la ribellione, il diploma di terza media e le amicizie che, anche per lui, erano state il frutto inestinguibile di quella stagione.
Remo, raccontava di sé con lo spirito del giocatore di pallone, il football che praticava da dilettante. La sua vita era stata un’unica lunga corsa, dai campi della periferia alla fabbrica; una partita giornaliera che il ’68 gli aveva permesso di giocare senza probabilità di vittoria ma con gusto. Il giorno del grande corteo che, prima della conclusione del contratto del ’69, aveva portato gli operai di tutte le fabbriche a De Ferrari, la piazza simbolo della città borghese, era stato lui a dirigere la marcia delle prime fila dell’ASGEN; come una nazionale di atleti all’apertura dell’Olimpiade. Aveva lasciato che la fabbrica che nel corteo li precedeva guadagnasse quel centinaio di metri necessario a distinguere la loro fin quando, al momento dell’ingresso in piazza – avveniva da una via laterale, effetto teatrale assicurato – aveva lanciato i suoi, di corsa, allineati per 10, con la prima fila che inalberava lo striscione. Correvano, come allora facevano solo gli studenti nelle loro manifestazioni, e ridevano mentre gli operai degli altri stabilimenti, già arrivati in piazza, gli facevano largo e applaudivano.
“Ti ricordi che numero? Pensa che al pomeriggio qualcuno dei soliti era venuto a dirmi che non eravamo studenti; manifestare a quel modo non era serio. Come se alle manifestazioni divertirsi fosse vietato”. Del passato in fabbrica non amava parlare. Comunista, CGIL, “compagno” da sempre ma solo il ’68 era stato diverso. Purtroppo “era durato poco, troppo poco”. In seguito aveva pensato solo al modo per uscire da quel “maledetto buco” di cui più di tutto lo affliggeva la tetraggine – “il muso lungo”.
Al tempo degli incontri, tra ’75 e ’76, tutti gli intervistati consideravano finita la stagione delle lotte. Basta ascoltare le registrazioni di allora: domande e risposte. Forse perché tra loro, come nella maggior parte della popolazione operaia genovese, prevalevano i “grandi”. Gente che dopo aver visto l’acqua uscire da argini ritenuti insuperabili era convinta che per un bel po’ non sarebbe più successo. C’era semmai da goderne i frutti: qualche soldo e qualche libertà in più, le 150 ore, la possibilità di spendersi la popolarità conquistata. Ma non era solo questione d’età. Lo slogan “o si mette in politica o non ne viene fuori niente” era diffuso anche tra i giovani che, non a caso, più di tutti avevano cercato e ancora stavano cercando nuove strade: partito, sindacato, amministrazioni varie e, non ultimo, il brigatismo. Possibile che nel giro di 6 anni, quanti ci dividevano dal ’68-’69 il mondo ci apparisse così cambiato? E quali cambiamenti – tra cosa e cosa – erano intervenuti?
2. Bisogna saper cogliere la fortuna
Finalmente [dopo l’acquisizione dell’archivio Canepa] avrei potuto intrecciare carte e interviste ma non ne feci nulla. Rimandai – in pratica un abbandono – fino a quando con Claudio Costantini decidemmo nel 2007 di pubblicare alcune delle carte di Gino ne “Il Museo degli operai”, sul sito www.quaderni.net da lui diretto. Qui, accompagnato da un breve supporto critico, sotto il titolo “Frammenti di un museo virtuale: Gino Canepa. La memoria e la scrittura” editammo, oltre il quaderno “1966”, anche il registro dove Gino aveva annotato tutte le lavorazioni eseguite da tornitore, tra il 1955 e il 1963, e il quaderno con i riferimenti alle bolle di cottimo tra il 1973 e il 1976 quando lavorava alle resine. Erano – nello spirito del museo virtuale – un esempio di scrittura privata, una memoria autobiografica relativa alla condizione di operaio di fabbrica. Avevamo da poco cominciato il lavoro quando Claudio, nel giugno del 2009, morì e le carte, tornarono a dormire nelle loro scatole insieme a registrazioni e trascrizioni delle antiche interviste.
Solo di recente sono tornato alle carte di Gino. Senza troppa convinzione; di lui pensavo di sapere tutto. L’amicizia, il nostro lungo frequentarci, il confronto sempre vivace e senza riserve: ero convinto di possedere più di quanto non potesse rivelarmi la più intima delle sue carte. Lo stesso sentimento che avevo provato quando a suo tempo raccoglievo e stipavo i suoi materiali nelle scatole. Ogni pezzo, atteso o inatteso che fosse, mi rimandava a una persona nota, la stessa che avevo conosciuto e frequentato per anni. Nulla di diverso da quanto non sapessi.
Doveva arrivare la stesura di queste note per prendere atto che nei vent’anni successivi alla sua morte non avevo fatto – anche se più volte me l’ero ripromesso – ciò che in questi casi sempre si dovrebbe fare. Considerare le “carte di Gino” per quel che erano: un deposito da interrogare senza farmi schermo dell’immagine che portavo con me. Non perché nel frattempo questa si fosse appannata; anzi. Semplicemente perché l’uomo conosciuto quando aveva 47 anni, ed era uno dei pochi operai “anziani” che aveva fatto propria la svolta del ’68, o era stato illuminato sulla via di Damasco dai nostri slogan o ci aveva messo del suo e in tal caso solo le sue carte potevano aiutarmi a scoprirlo. Gli oggetti che ci sopravvivono, case, mobili, abiti, libri, carte, foto forniscono una immagine di noi. Non la stessa per tutti. Sono le domande che rivolgiamo agli oggetti a fare la differenza. La mia era semplice: da dove diavolo veniva fuori il Canepa che, la prima volta che c’eravamo visti, mi aveva domandato se davvero era possibile “stare a sentire” le lezioni in un’aula universitaria senza esserne cacciato. Lo stesso Canepa che aveva detto che del ’68 la cosa che più l’aveva colpito erano i ragazzi, gli studenti, andati alla ricerca degli operai “proprio come persone, fisicamente”.
C’è un episodio, nella parte finale della sua autobiografia, di cui conservo un ricordo preciso perché “c’ero anch’io”. È la giornata del 25 aprile 1975 quando sulla “piazza” davanti a casa [cioè la “villa” ai Colonelli, frazione di Begato sulle colline di Genova] stavamo a festeggiare – bere, mangiare e discutere, specie la prima e la terza cosa – una quindicina di “protagonisti del ’68” (definizione di oggi). Il ’68, che a suo tempo ci aveva svegliato e non ci aveva più fatto dormire, ci aveva chiamato quel giorno a far festa. Un paio di “professori” di fama, due medici, un fisico, un chimico e altri più giovani, tutti di valore come gli anni seguenti avrebbero provato. Occasione dell’incontro: l’anniversario della Liberazione. Simbolica due volte; per quel che era stata a suo tempo e per l’analogia che tutti noi gli attribuivamo col nostro movimento. Una storia di lotte che, anche se non erano riuscite a rovesciare il mondo come forse qualcuno aveva sognato, avevano capovolto il rapporto di una generazione con i princìpi e le autorità che lo reggevano.
Ho in mente, come vedessi una foto scattata allora, la “piazza” dei Canepa. Ognuno dei presenti aveva con Gino una personale storia d’amicizia: Umberto Bianchi e i chimici conoscitori delle temute resine, il medico del lavoro Sergio Zanardi che aveva partecipato alle prime trattative sull’amianto (in fabbrica ce n’era ancora dappertutto), Franco Carlini e i fisici che si occupavano del rumore, io e qualche altro esperti – presunti – di questioni storico sociali. Amicizie politiche sigillate dalla passione per il suo vino bianco sommato alle torte di verdura e alle pasqualine di Delia.
Noto a molti del movimento, riconosciuto come personaggio rilevante della stagione sessantottesca, Gino non aveva mai vestito i panni del leader. Più Socrate che Demostene, più dubbi che certezze, non aveva previsto il Sessantotto; non quel particolare movimento, non le sue parole. Come tutti ne era stato sorpreso ma quando si era manifestato non aveva dubitato che fosse una cosa da iscrivere tra quelle sognate da sempre. Tra quanti il 25 aprile ’75 festeggiavano sulla “piazza” dei Colonelli, Gino, che aveva da 20 a 30 anni più dei suoi ospiti – e che i più giovani incitavano a ricordare i fasti stradali del comunismo del ’48, proponendogli così il ruolo di archetipo dell’operaio in lotta – era probabilmente l’unico ad averne maturato una personalissima critica. Nelle carte che gli erano sopravvissute e che s’intrecciavano con la storia che aveva raccontato di sé, doveva esserci la chiave della sua “fortuna”: l’incontro con gli studenti. Non era stato facile ma non l’aveva mancato. I movimenti – amava dire – oltre essere inattesi, hanno spesso manifestazioni spigolose e in un attimo, senza che uno se n’accorga, possono dividerti dai compagni di una vita. Ma, aggiungeva, “la fortuna bisogna saperla cogliere. Sennò a cosa serve pensare?”.
Nota. Tratto da Manlio Calegari, L’eredità Canepa. Il Sessantotto tra memoria e scrittura, impressionigrafiche, Acqui Terme 2014, rispettivamente pp. 27-31 e 130-132. Mi sono accorto dell’uscita del libro perché il blog Archivagando, che l’aveva recensito in giugno, pochi giorni dopo l’uscita, ci ha segnalato di aver ripreso l’intervento su “l’ultimo partigiano”. Lo considero un felice dialogo a distanza.
Come lui stesso indica nel secondo dei due brani qui riportati, Calegari ha reso disponibili già da qualche anno alcuni materiali dell’archivio Canepa sul sito quaderni.net, nell’ambito del progetto “Il Museo degli Operai”; oltre ai link già inseriti nel testo, si veda anche il Ricordo di Gino Canepa in cui Calegari dà tra le altre cose alcune informazioni – assenti nel libro – su come ha ricostruito in un unico blocco le cinque interviste fatte a Gino tra gennaio e aprile 1975.