di Christian De Vito
Nell’agosto del 2004, il nostro amico e compagno Christian De Vito, autore del quinto quaderno di storiAmestre dedicato al quartiere San Lorenzo di Firenze, dove vive, si è trovato a discutere, praticamente sotto casa sua, con alcuni poliziotti che eseguivano un controllo dei documenti di due uomini di origine straniera. Christian contestava la rudezza dell’azione e intendeva far valere i suoi diritti di cittadino: controllare e testimoniare il modo di fare delle cosiddette «forze dell’ordine». Qualche mese dopo, i poliziotti lo hanno denunciato per ingiurie e minacce.
Il procedimento si è svolto davanti al giudice di pace di Firenze. Dopo molti rinvii, si è concluso il 9 aprile 2008, con una condanna per Christian; la pena consiste in un’ammenda di 1000 euro più le spese processuali (che Christian non dovrà pagare, in quanto ha goduto del gratuito patrocinio) e naturalmente costituirà – almeno per cinque anni – uno sgradevole precedente.
La sentenza è stata clamorosa perché persino il pubblico ministero, alla luce dei fatti appurati, delle dichiarazioni di Christian e dei poliziotti che l’avevano denunciato, aveva chiesto l’assoluzione piena. Il giudice di pace si è schierato con i poliziotti e ha voluto pronunciare una «condanna esemplare». Viste le proporzioni del caso, tutto potrebbe essere classificato come una disavventura, ma noi di storiAmestre pensiamo che anche questi, in fondo piccoli, segnali descrivano un atteggiamento, un clima, un senso comune che si impone, e lo rafforzino. Dunque esprimiamo la nostra solidarietà a Christian, e lo ringraziamo per quello che fa, ospitando sul sito la sua memoria difensiva, scritta in vista dell’ultima udienza. Si tratta anche, come si vedrà, di una sorta di antefatto a «Cronache di anni neri» (Quaderni di storiAmestre, 5, 2006).
Il 13 agosto 2004, verso le ore 22.15, uscii dalla mia abitazione, in via Taddea 33, nel quartiere di San Lorenzo. A causa della pulizia delle strade, che nel settore C si teneva alle ore 0-6 del giorno successivo, dovevo infatti spostare la mia auto dal luogo in cui era parcheggiata.
Uscito dal portone, vidi delle luci come di sirene di autoambulanza o di macchine di polizia e una volta giunto in via Panicale notai che l’intera via era bloccata da numerose macchine di polizia o comunque dotate del dispositivo luminoso sul tetto, che era in funzione: almeno tre auto erano parcheggiate di traverso all’imbocco di via Panicale, dalla parte della piazza del Mercato Centrale e nella piazza stessa; altre due bloccavano la via all’altezza dell’incrocio con via Guelfa; due erano infine parcheggiate lungo via Panicale, sempre con il dispositivo luminoso acceso, all’altezza del cantiere di Sant’Orsola. Complessivamente, erano presenti sul luogo una ventina di agenti di polizia, alcuni di essi (cinque-sei) in divisa, gli altri in abiti civili ma con un distintivo di polizia al collo.
Il dispiegamento di forze dell’ordine faceva pensare a una grossa operazione. Vidi che l’azione degli agenti si concentrava su due ragazzi di colore e notai subito che verso di essi, cinque-sei tra gli agenti presenti usavano modi assai bruschi, in particolare gridando da pochi centimetri di distanza dai loro volti e pronunciando frasi come: «che cazzo ci fate qui?» e «perché cazzo non capisci?».
Non avendo una particolare fretta (mancava ancora oltre un’ora e mezza all’inizio della pulizia delle strade), decisi di restare a osservare la situazione. Mi spostai dunque sul marciapiede dal lato del cantiere di Sant’Orsola, restando relativamente defilato.
Da lì cercai di informarmi sulla situazione chiedendo ad alcuni ragazzi che lavoravano in un negozio di kebab, al numero civico 55r; poi a un agente di polizia, che non rispose ma mi intimò di allontanarmi; infine a una ragazza affacciata a una finestra al secondo piano del numero civico 14, vicino alla scena dell’operazione.
Fu quest’ultima ragazza a dirmi che, da quanto aveva capito, l’operazione era scattata a seguito della telefonata di un/una residente della via, che aveva riferito alla polizia la presenza di una persona di colore che urinava nella strada. Sempre secondo la ragazza, erano rapidamente giunte in zona le macchine sopra citate, ma gli agenti non avevano comunque trovato la persona segnalata. Avevano allora iniziato a presidiare la via (chiedendo i documenti ad alcuni degli immigrati presenti), in particolare bloccando la circolazione su via Guelfa all’altezza dell’incrocio con via Panicale. Nel fare ciò, avevano fermato i due ragazzi, di nazionalità nigeriana, perché circolavano in due su un ciclomotore.
Desidero sottolineare come questa versione non sia stata mai confutata anche in seguito, quando la riferii agli agenti di polizia presenti, e segnatamente a colui che credetti un funzionario, di cui dirò più avanti, con l’intento di comprendere cosa stesse realmente accadendo.
Ecco quindi la situazione che vedevo in quel momento: la strada completamente bloccata da una ventina di agenti di polizia, una metà dei quali circondavano letteralmente due ragazzi nigeriani spaventati; cinque-sei agenti che a turno gridavano contro di loro.
I due ragazzi nigeriani parlavano in lingua inglese e non comprendevano assolutamente l’italiano. Per tutto il tempo dell’operazione, nessuno degli agenti tradusse loro quanto veniva detto – anzi sempre gridato – relativamente alla mancanza del documento di identità di uno dei due (erano entrambi in possesso del permesso di soggiorno). Solo occasionalmente uno degli agenti utilizzò singole parole della lingua inglese per rivolgersi a loro.
Da parte loro, i nigeriani ripetevano frasi in inglese, chiedevano la ragione del controllo dei documenti, spiegavano di voler fornire comunque i dati sulla propria identità. Quest’ultima, al momento del mio arrivo, era stata già fornita dai ragazzi nigeriani e accertata dagli agenti mediante il computer di una delle macchine; gli agenti continuavano tuttavia a richiedere il documento.
Come ho sopra accennato, gli agenti non si limitavano a effettuare i controlli sui documenti. Mentre una decina di essi – comprese le tre agenti donne presenti – sono sempre rimasti appoggiati alle macchine e sostanzialmente privi di funzioni, l’altra decina circondava i due ragazzi in modo minaccioso e una metà di essi gridavano loro in faccia e a turno si rivolgevano a loro in maniera offensiva.
Ricordo distintamente ad esempio che un agente non molto alto e piuttosto robusto gridò a distanza di pochi centimetri dal volto di uno dei ragazzi: «Qui siamo in Italia. In Italia si parla l’italiano, perché cazzo tu non parli l’italiano?». Il tono generale era provocatorio e sarcastico, le domande sui documenti si univano a epiteti come «stronzo» e «bastardo»; il clima era complessivamente intimidatorio. Inoltre, sottolineo di nuovo che i nigeriani non comprendevano nulla di quanto veniva loro detto. Questa situazione andò avanti sostanzialmente fino alla fine dell’operazione, ossia per oltre un’ora dopo il mio arrivo.
Infine, in almeno due occasioni, di fronte al fatto che soprattutto uno dei due nigeriani alzava la voce infastidito dall’impossibilità di comunicare e dall’atteggiamento degli agenti, l’agente di cui sopra e un altro più alto si avventarono contro di lui afferrandolo per la maglietta e spingendolo violentemente contro la cancellata di ferro della chiesa di San Barnaba.
Un altro agente mi intimò di andare via e, avendo io chiesto il motivo per cui me lo diceva, mi rispose con tono alterato di andare via e basta perché a suo dire ostacolavo con la mia stessa presenza una operazione di polizia. In quell’occasione non replicai e solo mi accostai maggiormente al muro dalla parte del cantiere di Sant’Orsola. Avrei voluto a quel punto telefonare ad alcuni miei amici, tra i pochi rimasti in città per Ferragosto, per riferire la situazione che stavo vivendo. Avevo però lasciato il cellulare a casa (proprio perché pensavo di rientrare in breve tempo) e non ritenni di andare a prenderlo in quel momento, data la tensione esistente.
In generale, gli agenti non solo non permettevano ai cittadini di transitare per via Panicale dai lati bloccati con le auto (ossia provenendo dalla piazza del Mercato Centrale e da via Guelfa); essi cacciavano sistematicamente e con modi molto bruschi tutti coloro che provenivano da via Taddea o che uscivano dai portoni della stessa via Panicale.
Ricordo in particolare una coppia di anziani turisti tedeschi (anche loro non comprendevano la lingua italiana) che furono allontanati a spintonate da tre agenti. Alla stessa ragazza affacciata alla finestra con cui avevo parlato, fu rapidamente intimato da un agente di rientrare in casa, di chiudere la finestra (a Firenze, in agosto) e di non affacciarsi più. Analogamente, agli esercenti e ai clienti del negozio di kebab al numero civico 55r fu intimato di restare all’interno del negozio, dopo che gli agenti ebbero controllato anche i documenti di alcuni di loro.
Preciso tutto ciò anche perché proprio questa azione di sistematico allontanamento dei passanti è il motivo per cui non esistono di fatto testimoni diretti degli eventi, ad eccezione degli stessi agenti di polizia, dei due nigeriani e del sottoscritto.
Di fronte alle ripetute urla in faccia ai due ragazzi e nel momento in cui uno di essi veniva violentemente spintonato contro la cancellata della chiesa, dissi ad alta voce: «Ma cosa state facendo?». Fu un intervento istintivo, dovuto più che altro all’incredulità per quanto stava accadendo davanti ai miei occhi. Credo l’avrebbe fatto chiunque.
Ripetei la frase più volte nel tempo in cui rimasi lì, cercando di attirare su di me l’attenzione e di rompere la continuità dell’azione intimidatoria degli agenti. Di fronte a quanto accadeva, dicevo ad alta voce: «Cosa state facendo?»; «Perché gli mette le mani addosso?»; «Ma cosa fa?»; «Perché gli urla in faccia così?»; «Ma come si permette di dirgli queste cose?».
Dissi anche: «Si rende conto che non capiscono quello che lei dice?». E poi, sempre ad alta voce e tenendomi a distanza, provai in un paio di occasioni a tradurre agli agenti ciò che i nigeriani stavano dicendo in lingua inglese in merito alla loro disponibilità di consegnare i propri documenti.
Andai avanti così per un po’, con gli agenti che in modo sempre più minaccioso mi ordinavano di andare via, finché l’agente più alto di cui ho detto in precedenza, di scatto distolse l’attenzione dai ragazzi nigeriani, mi venne incontro minaccioso e urlandomi in faccia mi intimò di consegnargli i documenti. Cosa che naturalmente feci subito, senza opporre alcun tipo di resistenza, approfittandone anche per esplicitare all’agente i motivi per cui intendevo restare lì. Parlai dunque a lui, ad alta voce, del fatto che a mio parere essi erano tenuti a rispettare le leggi e i regolamenti di polizia nel corso di questo tipo di operazioni. Credo che questa conversazione sia stata poi ‘tradotta’, al momento di sporgere querela contro di me, nella frase: «…vergognatevi, non sapete fare il vostro lavoro». Una frase semplicistica, estranea al mio modo di pensare e che non ho mai pronunciato.
A questo punto un paio di agenti attorno a una macchina controllavano la mia carta d’identità; una decina di essi continuavano a circondare i due ragazzi nigeriani e a trattarli come ho descritto sopra; altri infine erano appoggiati alle macchine. In attesa di rientrare in possesso dei miei documenti, mi appoggiai al muro accanto al negozio sito al numero civico 88r di via Guelfa, all’angolo con via San Zanobi. Da lì, tutte le volte che l’intervento degli agenti si faceva minaccioso o violento contro i due nigeriani, continuavo a pronunciare le frasi sopra citate.
Si avvicinò a questo punto un agente in borghese che, per l’età relativamente più avanzata e per il modo più autorevole di porsi, ritenni di individuare come il funzionario responsabile dell’operazione. Iniziò con degli apprezzamenti per il mio intento di cittadino che si interessa attivamente a quanto avviene nella società, arrivando ad affermare che era auspicabile che i cittadini fossero vigili anche sull’operato delle forze di polizia. Anche incoraggiato da questo atteggiamento, con quel funzionario tentai di iniziare un discorso più ampio, non solo sulle modalità di quell’operazione, ma anche sulla situazione generale del quartiere e sulle politiche sull’immigrazione.
Descrissi dunque le trasformazioni del rione di San Lorenzo da quando vi risiedevo (allora, circa 9 anni), provando a collegarle con le trasformazioni più ampie della società italiana, con particolare riferimento ai fenomeni migratori, dei quali tentai brevemente di mettere in rilievo le cause globali e le ricadute sulle situazioni locali. Tornai così a trattare di San Lorenzo per parlare della necessaria priorità da assegnare a mio avviso alle politiche sociali (non solo per gli immigrati peraltro) su quelle meramente repressive; ciò ritenendo queste ultime troppo spesso rispondenti a una mentalità discriminatoria divulgata dai media e latentemente presente nell’opinione pubblica. Provai a dire che anche operazioni di polizia come quella in corso in quel momento, attraverso l’impiego così ampio di personale a fronte di un obiettivo minimo e neppure ben identificabile (un ragazzo che urina in strada), poteva contribuire a dare di San Lorenzo un’immagine a mio avviso erronea, di ghetto abbandonato al degrado e alla criminalità. Ribadii infine che le modalità specifiche con le quali quella operazione veniva condotta non mi sembravano conformi a quanto previsto dalle leggi e dai regolamenti di polizia.
Esposi quindi alcune idee generali e ascoltai le repliche del funzionario. Questo dialogo si protrasse per circa mezz’ora, sia pure in mezzo ai commenti sarcastici, alle risatine, agli sguardi minacciosi degli altri agenti, in particolare di quelli appoggiati alle macchine all’imbocco di via Panicale.
Ricordo che un agente sostenne che, abitando in quella zona, avrei dovuto ringraziarli per quello che facevano per «tenere pulito il quartiere dal degrado», con non velato riferimento agli immigrati presenti nella zona. Rimasi colpito anche dal fatto che gli agenti apparissero del tutto increduli di fronte al mio rifiuto a considerare quelle strade come un ghetto, di fronte alla mia non adesione alla logica della «tolleranza zero» e ai miei ragionamenti sulla necessità di politiche sociali e non di sistemi di videosorveglianza e di controllo repressivo del territorio.
Alle risate e al sarcasmo si aggiunse il comportamento dell’agente non molto alto e robusto che, con metodicità, a brevi intervalli e per una durata di una mezz’ora almeno, continuò a fissarmi negli occhi e a ripetere ad alta voce il mio cognome e il mio indirizzo: «De Vito, via Taddea 33».
Tutto ciò si svolgeva durante la conversazione con il funzionario, che in nessun momento, neppure dietro mia insistenza, ritenne di dover dire qualcosa su quanto gli altri agenti stavano facendo, sia nei miei confronti che verso i due nigeriani, che continuavano a essere circondati e intimiditi da alcuni agenti. Egli stesso anzi, a un certo punto, con un cambiamento brusco anche del tono, riprese il ragionamento iniziale aggiungendo che però i cittadini non dovevano impedire alle forze dell’ordine di svolgere le operazioni di controllo del territorio, né metterne in discussione l’utilità, altrimenti si rendeva necessario denunciarli penalmente. (Nessuno degli agenti peraltro preannunciò querele).
La tensione si allentò in parte solo con l’arrivo del carro-attrezzi, che nel giro di una ventina di minuti portò via il motorino dei due ragazzi. Anche durante quel periodo, comunque, alcuni agenti continuarono a intimidire i due nigeriani e me stesso (soprattutto quell’agente che continuava a ripetere: «De Vito, via Taddea 33»).
Poco dopo che se fu andato il carro-attrezzi, mi fu restituita la carta d’identità. Poi gli agenti rientrarono nelle autovetture e andarono via, alcuni non mancando di lanciare verso di me altre occhiate tra lo sprezzante e il minaccioso. Salutai allora velocemente i due nigeriani e mi incamminai per via Guelfa, per andare a spostare la mia autovettura. A circa dieci metri dal luogo dei fatti vidi a terra un casco (seppi poi che era stato scagliato lì da un agente all’inizio dell’operazione, prima del mio arrivo). Pensai fosse di uno dei due nigeriani, li rintracciai sempre lungo via Guelfa, quasi all’angolo con via Santa Reparata, e glielo restituii. Con l’occasione, comunicando in lingua inglese, ci fermammo due minuti a parlare: il tempo di comprendere che non avevano capito quasi nulla di quanto gli agenti avevano loro detto e gridato, salvo cogliere il tono intimidatorio; il tempo di vedere la loro rabbia e impotenza per quello che era loro accaduto; il tempo di ricevere i loro abbracci di ringraziamento per essermi fermato vedendo quelle scene. Ne fui profondamente commosso.
Poi ci lasciammo. Mi incamminai di nuovo verso la mia macchina. Ero pensieroso, abbattuto. Avevo addosso un enorme senso di impotenza rispetto a quel clima intimidatorio, quelle violenze, quelle minacce. Rivedevo i volti spaventati dei due ragazzi nigeriani e provai un senso di impotenza insostenibile. Ricordo di aver pianto quella sera. Di tutto ciò parlai al telefono a una mia amica, Elena Mazzini, appena rientrai in casa.
Il 29 dicembre 2004 fui convocato in Questura per l’elezione di domicilio per il presente procedimento. Da allora mi sono chiesto moltissime volte quale motivo possa avere spinto cinque degli agenti di polizia presenti quella sera a denunciarmi per ingiurie e minacce. Come spero di chiarire con la presente ricostruzione, io infatti non ho mai pronunciato le frasi che essi hanno riportato al momento delle querele. Non essendo abituato in generale ad andare in giro per la città a offendere, ingiuriare o minacciare né agenti di polizia né alcuna altra persona, anche in quella situazione oggettivamente intimidatoria provai a spiegare le mie ragioni in modo forse incompleto ma comunque privo di attacchi personali, ingiurie e minacce che sarebbero state oltretutto completamente superflue.
Provai invece a dialogare, ma circa un’ora di quel tentativo di dialogo è stato condensato al momento delle querele in quindici secondi di inutile sproloquio. Il mio tentativo di analizzare la complessa realtà del quartiere in cui vivo è stato banalizzato in un «io abito qui e ci sono tutte persone perbene». La mia argomentazione sul fenomeno delle migrazioni, sulle politiche a esso relative e sull’essenza del razzismo è stata ridotta a una frase banale quanto grave: «siete dei razzisti».
Un intero discorso, completamente decontestualizzato, è stato così tradotto in un linguaggio che non mi è proprio («…state guardando anche i peli del culo a quei ragazzi…»; «vi faccio vedere io cosa vi succede») e – lo ripeto – mettendomi in bocca frasi che non ho mai pronunciato.
Perché? In questi mesi ho riflettuto su questo interrogativo e mi sono dato le due spiegazioni seguenti.
1) Credo che alcuni agenti abbiano temuto che li denunciassi io per gli abusi, le violenze, le intimidazioni, le ingiurie e le minacce a cui avevo assistito rispetto ai ragazzi nigeriani e che avevo anche personalmente subito. Denunciandomi, essi avrebbero dunque preventivamente provato a difendersi dalla mia eventuale denuncia. Io non sporsi denuncia per i fatti a cui avevo assistito. Semplicemente, spaventato e abbattuto, non pensai a farlo. E, trovandomi in quello stato d’animo, tanto meno pensai che querelare gli agenti per fornire ‘a caldo’ la mia versione dei fatti avrebbe potuto essere utile in occasione di un eventuale procedimento contro di me, dal momento che non potevo certo immaginare che alcuni agenti avrebbero potuto querelare me per delle frasi che non avevo mai pronunciato. La mattina successiva partii dunque, come previsto, per le vacanze estive.
2) Ho l’impressione che gli agenti abbiano facilmente colto nelle mie parole il mio impegno sociale e possano aver voluto, attraverso le denunce, intimidirmi nel proseguire le mie attività in questo ambito. Una domanda ulteriore che mi pongo è se nel farlo, essi abbiano anche avuto accesso a segnalazioni particolari su di me, dovute alla mia attività politica e sociale (partecipazione e organizzazione di manifestazioni, assemblee, riunioni, presidi). Non intendo attribuire una particolare rilevanza a questa ipotesi, anche perché comprendo di trovarmi nell’impossibilità di dimostrarla. Riferisco però qui di seguito l’episodio specifico sul quale tale ipotesi si fonda, accaduto all’aeroporto fiorentino di Peretola il 29 marzo 2005. Al momento di passare il controllo del documento di identità prima di recarmi all’imbarco, l’agente di polizia in servizio sgranò gli occhi guardando lo schermo del computer. Io feci solo in tempo a vedere una grande scritta «SEGNALATO», seguita da un testo che non riuscii a leggere. Accorsero diversi agenti e fui ‘invitato’ a uscire dalla fila in attesa di ‘accertamenti’; fui poi richiamato e mi vennero rivolte domande sul mio viaggio (data del rientro, località in cui sarei andato, persone con cui avrei eventualmente viaggiato, ecc.). Solo dopo oltre mezz’ora mi fu permesso di oltrepassare il blocco senza ulteriori spiegazioni.
Per quanto riguarda il mio attivismo sociale, esso si lega anche alla mia attività professionale. Attualmente sono dottorando in storia presso la Scuola Normale di Pisa, studio la storia del sistema penitenziario, della psichiatria e dei servizi di salute mentale e le questioni sociali connesse ai flussi migratori. Cerco di non disgiungere mai questa attività professionale dall’impegno civile. Da anni sono impegnato in attività di volontariato nelle carceri (Firenze-Sollicciano e Prato), con i senza fissa dimora e con gli immigrati. Ho attraversato nell’ultimo decennio luoghi e gruppi di discussione collettiva tanto diversi quanto il Firenze Social Forum, il Partito della Rifondazione Comunista, il Laboratorio per la Democrazia, il Forum per la Salute Mentale, il gruppo permanente sul carcere «Dentro e Fuori le Mura» e poi l’osservatorio «Voci dal carcere», stabilendo contatti permanenti con il composito mondo dell’associazionismo: dall’Altro Diritto alla «Associazione Giovanni XXIII», dal Movimento di Lotta per la Casa all’Arci, ai centri sociali cittadini, l’Associazione Antigone, la Fondazione Michelucci, Fuori Binario, la Comunità di Base dell’Isolotto e quella delle Piagge. La lista potrebbe continuare a lungo.
Cerco di capire la realtà che mi circonda, di essere un cittadino attivo. Mi pare di comprendere la complessità dei problemi sociali vecchi e nuovi, globali e locali, e vedo con preoccupazione l’incedere di una tendenza forte, da parte di molti, a imboccare scorciatoie repressive che – credo – non possono che peggiorare la situazione. Ciò a cominciare da quella nel quartiere in cui vivo da oltre dieci anni che, come altri quartieri analoghi di altre città, è luogo del non facile, quotidiano incontro/scontro di abitudini, culture, mentalità, problematiche, bisogni, insicurezze. Su questa situazione del quartiere e sui modi per affrontarla, ho più volte riflettuto negli ultimi tempi all’interno delle iniziative pubbliche promosse dal gruppo ‘la voce migrante’, insieme ad amici, residenti e commercianti italiani e immigrati, volontari di associazioni, attivisti politici, operatori sociali.
I fatti di cui si occupa il presente procedimento sono avvenuti prima della costituzione del gruppo ‘la voce migrante’, prima di questo sforzo di azione collettiva e di lungo periodo su tali questioni. Simile era comunque il contesto esistente quel 13 agosto 2004 nel quartiere e nella città con riferimento alle politiche sull’immigrazione. Simile era anche, allora, la mia sensibilità per i diritti sociali, non solo degli immigrati. Essa ha fatto sì che non abbia voluto voltare la testa altrove di fronte a ciò che alcuni agenti di polizia stavano commettendo quella sera ai danni di due ragazzi nigeriani.
Che questa sensibilità sociale sia stata presentata a posteriori in modo da configurare un reato penale, rovesciando completamente la realtà dei fatti, mi sembra più che altro un ulteriore e preoccupante segnale di una situazione grave e da affrontare pazientemente in altro modo.