tre testi di Jules Vallès, a cura di Filippo Benfante
A marzo comincia un ciclo di anniversari che ci stanno a cuore: la primavera è annunciata in tutta Europa dalle rivoluzioni del 1848, e dalla Comune di Parigi del 1871; arriveranno il 25 aprile della Liberazione e il Primo maggio; infine daremo l’ultimo saluto ai comunardi, arriva il tempo delle ciliegie e quello della “semaine sanglante”, ovvero la tragica fine dell’ultima rivoluzione parigina dell’Ottocento. Filippo Benfante riprende il testimone da Enrico Zanette, autore della nota sul 18 marzo che abbiamo pubblicato l’anno scorso, per presentare tre testi contemporanei di Jules Vallès, che aiutano a ricordare la Comune di Parigi e a discutere il senso di quegli avvenimenti.
Introduzione, di Filippo Benfante
1. Gli anniversari si celebrano sia pensando al passato che proiettandosi nel futuro. Sono in entrambi i casi un fermo immagine che seleziona un evento, una data, un luogo, dei protagonisti: così è per il 18 marzo della Comune di Parigi. Ancora notte sulla collina di Montmartre, l’esercito della repubblica, nata il 4 settembre 1870 dalla disfatta di Napoleone III nella guerra contro la Prussia, tenta di requisire i cannoni della guardia nazionale di Parigi, cioè di quella milizia cittadina formata – almeno in teoria – da tutti i maschi adulti che è stata mobilitata per far fronte all’assedio nemico. È a tutti gli effetti un’operazione di ordine pubblico: il governo cerca di prevenire ogni guaio. Da settimane, infatti, il clima di Parigi è quello che precede le rivoluzioni. Le ragioni dell’esasperazione del popolo parigino sono tante. Ci sono stati quasi cinque mesi d’assedio, durissimi, aggravati da un inverno terribile, uno dei peggiori del secolo: tanti morti, freddo, fame, lavori fermi, niente salario, miseria. Legato com’è a un’idea di repubblica “democratica e sociale”, capace cioè di garantire la partecipazione di tutti al governo e l’eguaglianza sociale, il popolo di Parigi (ma non solo, succede lo stesso anche in molte altre città francesi) si domanda che razza di repubblica ha di fronte: dalle elezioni di febbraio, organizzate in fretta e furia per avere un governo legale che firmi la pace con la Prussia – sulla base dell’armistizio di fine gennaio –, sono usciti un parlamento reazionario, con un’ampia maggioranza di monarchici e una buona minoranza di bonapartisti, e un governo guidato da Adolphe Thiers, l'uomo di tutti i regimi politici che ha conosciuto la Francia dagli anni 1830. Dal canto suo, l’assemblea diffida così tanto di Parigi e dei suoi umori repubblicani che decide di non rientrare nella capitale, ma di installarsi a Versailles.
Infine, c’è proprio il primo compito che si è dato il governo, cioè firmare la pace con la Prussia: cedere a Bismark è considerato un’umiliazione terribile, un’infamia perpetrata da uomini che sono giudicati “capitulards”, capitolatori, anzi “capitolardi” (il suffisso spregiativo -ard prenderà anche un’altra strada, ovviamente). Sul patriottismo non si transige, soprattutto in una città come Parigi che ha dato prova di saper resistere, che non ha ceduto: i prussiani non sono riusciti a espugnarla con le armi. Sono sentimenti diffusi, comuni a moltissimi. Subito dopo il confuso colpo di stato che il 4 settembre 1870 proclama la fine del Secondo impero e la nuova repubblica, il vecchio rivoluzionario Auguste Blanqui si affretta a fondare un giornale dal titolo La patrie en danger, e mette appunto la salvezza della patria – almeno temporaneamente – al di sopra di ogni considerazione sulla natura della neonata repubblica e al di sopra di ogni altra tentazione autenticamente rivoluzionaria. La sera del 4 settembre, i pochi membri dell’Internazionale rimasti a Parigi diffondono un appello “Al popolo tedesco e alla democrazia socialista della nazione tedesca” dove si chiede ai compagni di oltre Reno di collaborare in nome della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, al fine di mettere fine a una guerra che era quella di un despota, di Napoleone III, e che perciò ora non ha più ragione d’essere; ma per prima cosa bisogna che alla Francia repubblicana sia restituita l’interezza del proprio suolo, e per essere chiari viene citata la costituzione giacobina del 1793: “Il popolo francese non fa nessuna pace con un nemico che occupa il suo territorio”.
Sono i sentimenti che si intrecciano anche nelle manifestazioni che hanno luogo intorno alla colonna della Bastiglia, carica di tanti ricordi rivoluzionari (il 1830, ma ovviamente il 1789 e anche il 1848), nei giorni anniversario della rivoluzione del febbraio 1848, il 24, il 25, il 26: sono manifestazioni popolari, animate dalla guardia nazionale, dove si grida “vive la république”, si chiama alla resistenza contro i prussiani (che a giorni dovrebbero sfilare simbolicamente in città, secondo le clausole dell’armistizio), e qualcuno sale sulla colonna e mette una bandiera rossa nelle mani del “genio della Libertà”.
2. La mattina del 18 marzo 1871 le cose non vanno come previsto da Thiers (o forse, insinua qualcuno, vanno proprio come desiderava): gli abitanti di Montmartre si accorgono della manovra dell’esercito e scendono per le strade – donne in testa, tra di loro anche Louise Michel – per difendere i cannoni: proprio i loro cannoni, dal momento che i pezzi erano stati fusi durante l’assedio con i soldi di una sottoscrizione popolare. Per farla breve, gli ufficiali ordinano di sparare sulla folla, i soldati si rifiutano e fraternizzano con la popolazione: “crosse en l’air”, i calci dei fucili in aria – è un’immagine classica dei momenti felici delle rivoluzioni. Oltre che euforia, con il solito riflesso delle rivoluzioni parigine dell’Ottocento, barricate in tutta la città, o meglio nei quartieri popolari a cominciare da quelli del nord-est, quindi quelli della zona sud. In queste ore ci sono anche i primi morti: a Montmartre si ricorda l’esecuzione dei generali Lecomte e Clément Thomas. Il primo era colpevole appunto d’aver ordinato ai suoi soldati di sparare sulla folla. Il secondo non aveva partecipato direttamente all’azione, era stato riconosciuto per caso mentre se ne andava in giro in borghese; con lui si regolavano vecchie pendenze: noto per essere un “repubblicano moderato”, era stato uno dei generali che aveva represso un’altra rivoluzione del popolo di Parigi, quella del giugno 1848. Si discuterà a lungo su una questione difficile da districare: se queste esecuzioni dovevano essere messe sul conto dei comunardi, oppure dei soldati esasperati dai loro ufficiali.
18 marzo e Montmartre, dunque. Ma quel giorno ci furono analoghi tentativi dell’esercito e analoghe risposte della popolazione anche in altre zone della città, per esempio nel quartiere intorno alla Bastiglia (il famoso faubourg Saint-Antoine) e a Belleville, entrambi di lunga tradizione rivoluzionaria, a differenza di Montmartre che d’altra parte all’epoca era relativamente poco popolata e un ambiente ancora dalle caratteristiche rurali (tant’è che c’era, tra le altre cose, uno spiazzo capace di contenere più di 250 cannoni con relativi supporti).
Oltre che una scena, un anniversario seleziona una data: al 18 marzo segue circa una settimana di incertezze e di negoziati, in cui matura la rivoluzione che sarà. Ha scritto Jacques Rougerie, uno dei maggiori storici della Comune: “Parigi dal 19 al 26 marzo visse una strana settimana, in cui fece – forse senza volerlo – una rivoluzione. Dal movimento del 18 marzo, che non era stato nemmeno un’insurrezione, nasce una rivoluzione sociale, ma in modo oscuro, contraddittorio” (Jacques Rougerie, Paris libre 1871, Seuil, Paris 2004 [prima ed. 1971], pp. 109-110).
Le cose non si decidono subito: c’è tutto un eterogeneo “partito della conciliazione” che cerca di trovare un accordo tra il governo e Parigi insorta; le tendenze socialiste, promosse tra l’altro dai pochi internazionalisti presenti in città, si rafforzano; ma in quei giorni c’è persino lo spazio per un paio di manifestazioni (più o meno riuscite) di “amici dell’ordine”, che reclamano il ritorno alla “normalità”. Il 26 marzo fine degli indugi, si tengono le elezioni per il nuovo governo municipale, il 28 gli eletti entrano all’Hôtel de Ville: la Comune è proclamata.
3. Ecco, il 26 e il 28 marzo: ecco altre due date che avrebbero potuto essere prese per anniversario (magari se l'esito fosse stato diverso, se ci fosse stata una "normalizzazione", se accanto alla spontaneità del 18 marzo avesse preso piede un qualche genere di cerimonialità ufficiale, come passare dal 25 aprile al 2 giugno per intenderci). E in effetti, negli anni Sessanta del Novecento, il sociologo Henri Lefebvre, chiamato a dare un contributo sulla Comune per la collana “Trente journées qui ont fait la France”, sceglierà di mettere in evidenza il 26: il titolo del suo libro – oggi una rarità che costa parecchi soldi – è La proclamation de la Commune. 26 mars 1871.
Gli articoli che Jules Vallès scrisse per il suo giornale Le Cri du peuple e che pubblichiamo qui di seguito, ci aiutano a ricordare queste due date e anche il complicato intreccio di sentimenti, di temi, di aspirazioni che furono la Comune, e anche la distanza che oggi ci separa da quegli avvenimenti. Gli ideali rivoluzionari internazionalisti, repubblicani e socialisti, lo spirito popolare e operaio, il riscatto dalla miseria e dall’oppressione, il sogno di poter disporre liberamente di sé nell’armonia di una società giusta, l’idea di una “democrazia diretta” radicata nello spazio locale e federativa, anche l’antimilitarismo (in nome del quale si abbatterà, il 16 maggio, la colonna di Napoleone I, place Vendôme): la Comune è tutto questo. Ma la Comune nacque anche dal patriottismo e dall’onore ferito – quanto maschile, militare e nazionale, con tamburi, fanfare, colpi di cannone, stendardi, bandiere: e la bandiera rossa non esclude il tricolore. La Comune appartiene a un XIX secolo dove è forte l’ideale del popolo in armi: è il cittadino armato che fa la rivoluzione, esercitando il suo diritto a resistere alla tirannia. Accanto a questo, l’ideale del suffragio universale (peraltro solo maschile): di tutte le rivoluzioni dell’Ottocento, la Comune è forse quella che più si legittima per via di suffragio; peraltro davanti a sé ha un antagonista che, bene o male, si mette sotto l’etichetta di “repubblica” e che a sua volta si legittima per via elettorale. Come già nel 1848, cosa fare se le elezioni tradiscono lo spirito della rivoluzione e capovolgono la nozione popolare di “repubblica”? Uno dei grandi temi della Comune sarà proprio quello della sovranità popolare, e del suo esercizio diretto (“democrazia partecipativa” si potrebbe dire oggi): sovranità del popolo che può mettersi anche al di sopra del suffragio e degli eletti, in nome della “vera” repubblica.
Infine, l’orizzonte della Grande rivoluzione, che peraltro è alla base di molte delle questioni e degli ideali messi in avanti dalla Comune. Si rimprovererà molto ai comunardi il loro eccessivo attaccamento ai ricordi del 1792. Negli articoli di Vallès, la cosa risulta evidente. Tra le altre cose, Vallès ricorda quando Antoine Joseph Santerre, capo della guardia nazionale di Parigi, fece rullare i tamburi per coprire la voce di Luigi XVI, che tentava di far intendere le sue ultime parole salendo sulla ghigliottina, in place de Grève, davanti all’Hôtel de Ville, il 21 gennaio 1793. Ma come non pensare al popolo dell’89, quando un parlamento sedicente repubblicano ma fortemente monarchico sedeva a Versailles; proprio là dov’era la reggia dei Borboni, là dove un corteo popolare – formato principalmente da donne – s’era recato in una celebre giornata rivoluzionaria dell’ottobre 1789, costringendo alla fin fine il re a lasciare la sua reggia e a stabilirsi a Parigi, dove sarebbe stato meglio controllato dai rivoluzionari.
4. L’ho fatta lunga e poco festiva. Ma per me il 18 marzo resta una festa, la festa che i nostri vecchi compagni dell’Internazionale celebrarono per molti anni, almeno fino all’avvento del Primo maggio, negli anni Novanta dell’Ottocento, e che tuttora Les Amis de la Commune de Paris animano ogni anno con una manifestazione parigina. Come non sentire una forte empatia verso quelle migliaia di uomini e donne che si giocarono la vita per i loro ideali, la loro libertà, la speranza di una vita migliore? come non cedere ancora all’emozione di quel tentativo di “assalto al cielo” (la definizione è di Marx)? Un mito da cui la storiografia – è il suo compito – mette in guardia, ma da cui ci si fa trascinare volentieri, magari sulle note dell’Internazionale, il cui testo originale fu scritto nel 1871 da un comunardo, Eugène Pottier, mentre cercava di sfuggire alla repressione, e di cui mi piace ricordare nella versione italiana di Franco Fortini: “Noi siamo gli ultimi di un tempo / che nel suo male sparirà / Qui l’avvenire è già presente / chi ha compagni non morirà // Al profitto e al suo volere / tutto l’uomo si tradì / ma la Comune avrà il potere / Dov’era il no faremo il sì”.
Allora, aderisco all’invito fatto l’anno scorso da Enrico Zanette: “oggi godiamoci il 18 marzo, Thiers e il suo esercito hanno lasciato Parigi, la quarta settimana di maggio è ancora lontana, la primavera è alle porta e la Comune trionfa”.
(f.b.)
Tre articoli di Jules Vallès, dal giornale “Le Cri du peuple”
1. Il 26 marzo, “Le Cri du peuple”, 28 marzo 1871
Che giornata!
Questo sole tiepido e luminoso che indora la bocca dei cannoni, questo profumo di fiori, il fremito delle bandiere! il mormorio di questa Rivoluzione che scorre tranquilla e bella come un fiume azzurro, sussulti, lampi di luce, gli ottoni delle orchestre, riflessi di bronzo, fiammate di speranza, profumo d’onore: c’è di che inebriare d’orgoglio e di gioia l’esercito vittorioso dei repubblicani!
O grande Parigi!
Vigliacchi ch’eravamo, discutevamo già di abbandonarti e di allontanarci dai tuoi faubourgs che credevamo morti!
Le mie scuse, patria dell’onore, città della salvezza, bivacco della Rivoluzione!
Qualsiasi cosa accada, dovessimo essere battuti di nuovo e morire domani, la nostra generazione è consolata! – Siamo ripagati di vent’anni di disfatte e di angosce.
Trombe, suonate al vento, tamburi, rendete gli onori!
Abbracciami, compagno, che hai i capelli grigi come me! E tu, marmocchio che giochi alle biglie dietro la barricata, vieni, che abbraccio anche te!
Il 18 marzo l’hai scampata bella ragazzino! Potevi, come noi, crescere nella nebbia, restare invischiato nel fango, rotolare nel sangue, crepare di fame e crepare di vergogna, provare l’indicibile dolore dei disonorati!
Finito tutto questo!
Abbiamo sanguinato e pianto per te. Raccoglierai la nostra eredità. Figlio di disperati, sarai un uomo libero.
2. Lo scrutinio, “Le Cri du peuple”, 29 marzo 1871
Le elezioni sono fatte.
L’atto di sovranità popolare si è compiuto in una città nera di uomini in armi, scintillante di baionette, calpestata dalle ruote dei cannoni.
In mezzo a tanto apparecchio guerriero, ha votato, serena e minacciante – deponendo i suoi proiettili nell’urna. Ma, tra questi cordoni di sentinelle, in questo accampamento ritto intorno a una bandiera rossa, non si è registrata nessuna ferita ai danni della libertà, non una sola!
Ecco oggi otto giorni che questa minoranza di saccheggiatori e di assassini [così gli insorti secondo l’opinione del governo e della stampa conservatrice] tiene Parigi sotto il calcio del suo fucile!
Chi ha colpito, questo calcio? Ha rotto una testa? Ha fracassato una finestra?
Rispondete scellerati, rispondete imbecilli!
Volevate mettere la repubblica in un angolo, noi l’abbiamo portata in trionfo. Quella che doveva essere una battaglia è stata una festa.
Dipende solo da noi che le giornate di invenzione sociale abbiano questa grandezza e questa gioia, da noi – e da voi, s’intende: che non ci obblighiate a far battere la carica dai nostri tamburi!
E da domani, vedremo all’opera questi calunniati e questi feriti che compongono la lista che ha trionfato, piena di nomi oscuri così come l’assemblea del Terzo Stato era piena di uomini che fecero ciò che il mondo chiama la Rivoluzione francese.
3. La festa, “Le Cri du peuple”, 30 marzo 1871
La Comune è proclamata.
È emersa dall’urna elettorale, trionfante, sovrana e armata.
Gli eletti del popolo di Parigi sono entrati nel vecchio Hôtel de Ville, che ha udito il tamburo di Santerre [il 21 gennaio 1793, vedi introduzione] e le fucilate del 22 gennaio [1871, quando ebbe luogo un altro tentativo insurrezionale], su questa piazza dove il sangue delle vittime dell’onore nazionale e della dignità parigina è stato asciugato dalla polvere sollevata in questo giorno di festa dal passo dei battaglioni vittoriosi.
Non si udiranno più i rullii del tamburo di Santerre; i fucili non luccicheranno più alle finestre del Palazzo comunale, e il sangue non macchierà più la place de Grève, se noi lo vorremo.
E noi lo vogliamo, vero, cittadini?!
La Comune è stata proclamata.
L’artiglieria, sul lungosenna, faceva tuonare le sue salve sotto il sole che indorava il loro fumo grigio sulla piazza. Dietro le barricate, dove si teneva ritta in piedi una folla: uomini che salutavano sventolando il cappello, donne che sventolavano i fazzoletti, il corteo trionfale, i cannoni che abbassavano le loro bocche di bronzo, umili e pacifici, temendo di minacciare questa gioiosa moltitudine.
Davanti la facciata scura, il cui orologio ha segnato tante ore che ormai fanno secoli, e assistito a tanti avvenimenti che oggi sono storia, sotto questi balconi pieni di pubblico rispettoso, sfilava la Guardia nazionale, indirizzandogli i “viva” del suo entusiasmo tranquillo e fiero.
Sul podio dove si trovavano gli eletti del popolo – persone per bene, dal volto energico e serio – il busto della repubblica, che si stagliava bianco sul fondo rosso, osservava, impassibile, luccicare questa messe di baionette scintillanti, tra cui fremevano le bandiere e gli stendardi dai colori vistosi, mentre nell’aria salivano il mormorio della città, i suoni degli ottoni e della pelle d’asino, le salve e le acclamazioni.
La Comune è proclamata in una giornata di festa rivoluzionaria e patriottica, pacifica e gioiosa, di ebbrezza e di solennità, di grandezza e di allegria, degna di quella che hanno visto gli uomini del 92, e che consola di vent’anni di Impero, di sei mesi di sconfitte e di tradimenti.
Il popolo di Parigi, ritto in armi, ha acclamato la Comune, che gli avrebbe risparmiato la vergogna della capitolazione, l’oltraggio della vittoria prussiana, e che lo renderà libero come l’avrebbe reso vincitore.
Fosse stata proclamata il 31 ottobre [il primo tentativo insurrezionale]! Non importa! Morti di Buzenval [19 gennaio 1871, ultimo tentativo di sortita da Parigi per rompere l’assedio, finito in disastro], vittime del 22 gennaio, ora siete vendicati.
La Comune è proclamata. I battaglioni, dopo essere venuti, spontaneamente, – invadendo le strade, i lungosenna, i viali, riempiendo l’aria con le loro fanfare, facendo rimbombare l’eco e battere i cuori con i rullii del tamburo – ad acclamare e salutare la Comune, a darle questa promulgazione sovrana della grande rivista civile che sfida Versailles, ora risalgono armi in spalla verso i faubourgs, riempiendo di rumore la grande città, il grande alveare.
La Comune è proclamata.
Oggi è la festa di nozze dell’idea e della Rivoluzione.
Domani, cittadini-soldati, per fecondare la Comune appena acclamata e sposata, bisognerà riprendere, sempre fieri, ora liberi, il proprio posto nell’officina e al banco della bottega.
Dopo la poesia del trionfo, la prosa del lavoro.
Nota ai testi
Ho condotto la traduzione sui testi forniti da Roger Bellet in Jules Vallès, Œuvres, II, 1871-1885, édition établie, présentée et annotée par Roger Bellet, Paris, Gallimard 1990, pp. 49-52. Il più famoso è senz’altro quello intitolato 26 mars, anche perché Vallès lo riprodusse pari pari nel XXVI capitolo del suo romanzo L’insurgé (cfr. Vallès, Œuvres, II cit., pp. 1030-1031): “Paris bivouac de la Révolution”, come dimenticarlo? Proprio perché inserito nel romanzo, il 26 marzo è già stato tradotto in italiano, nelle seguenti edizioni del romanzo: Jules Vallès, L’insorto, versione dal francese di A.G. Blanche [in realtà Carlo Alberto Blanche], Sonzogno, Milano [1916], pp. 175-176; Jules Vallès, L’insorto, Edizioni sociali internazionali, Roma 1945 (che non sono riuscito a consultare); Jules Vallès, L’insorto, a cura di Giacomo Cantoni, Cooperativa Libro Popolare, Milano 1953, 2 voll. (di cui ho potuto consultare solo il vol. II, per fortuna quello buono, si veda dunque: II, pp. 67-68). Non mi risulta che gli altri due articoli che si presentano qui siano stati tradotti in italiano prima d’ora.
C’è molta bibliografia sulla Comune come “festa” – così come sulla Comune in generale, del resto; si può comunque cominciare dal già citato Lefebvre, La proclamation de la Commune. Tutti ricordano che anche i nemici della Comune furono stupiti dall’aria di festa che si respirava a Parigi intorno al 28 marzo. È prassi citare per tutti Catulle Mendès, “versagliese” autore “a caldo” di una memoria su Les 73 jours de la Commune (Paris, Lachaud 1871) nonché testimone impressionato della proclamazione della Comune: “Chi vuol farlo, si proibisca di sentire l’irresistibile emozione che l’entusiasmo delle folle impone! Io non sono un uomo politico, sono un passante che vede, ascolta e sente. Ero sulla place de l’Hôtel-de-Ville nel momento in cui sono stati proclamati i nomi dei membri della Comune, e scrivo queste righe ancora tutto emozionato. […] Ah! popolo di Parigi! tu che il giorno del ‘calcio in aria’ ti ubriacavi nei cabaret di Montmartre, tu che hai fornito gli assassini di Thomas e di Lecomte, tu che in rue de la Paix hai fucilato i passanti [riferimento agli scontri durante una delle manifestazioni degli “amici dell’ordine”], popolo straordinario, spesso esecrabile, come sai anche tu, nei tuoi giorni di splendore, essere potentemente bello, e che vulcano di passioni generose brucia dentro di te, perché, avvicinandosi a te, persino i cuori di chi ti condanna si sentano divorati e purificati dalla tua fiamma” (p. 61).
Il mio punto di vista della Comune deve molto a quanto ha scritto di Jacques Rougerie. Oltre al libro già citato, rimando alla bibliografia, agli articoli e agli interventi che ha di recente ha messo a disposizione sul sito http://www.commune-rougerie.fr/index.cfm, insieme a un aperto invito alla discussione: “Tout travail d’historien doit être, à l’évidence, contesté, critiqué, révisé. Il doit surtout être, tôt ou tard, dépassé à la suite de nouvelles recherches”.