di Claudio Pasqual
Lo scoperchiamento del Marzenego in via Poerio – subito annunciato temporaneo – ha riacceso l’attenzione sul tema del rapporto di Mestre con l’acqua. Qui di seguito pubblichiamo un intervento sul tema che abbiamo chiesto al nostro amico e socio Claudio Pasqual.
Di acqua ne scorre, oggi, dentro Mestre, ma è quasi invisibile e comunque la si nota assai poco. Un fiumicello torbido, il Marzenego, l’attraversa incassato tra due file di case e sponde verticali di mattoni sotto il ponte delle Erbe in piazzetta Matter e in riviera Magellano, altrove compare per brevi tratti in luoghi poco accessibili o poco frequentati del centro, discosti dallo sguardo di chi passa. Eppure ancora all’inizio del Novecento, Mestre era fuor di dubbio un “luogo d’acque”. Non mi riferisco alla laguna, poco distante ma invisibile: non è acqua salmastra a bagnare Mestre, per quanto vicinissima al mare, è acqua dolce di fiume e di canali.
1. Il Marzenego nel tratto superiore, mentre scende dai colli di Asolo, si chiama Musonello; diventa il Marzenego a Resana, dove gli apportano molta acqua le risorgive. Posto interamente in pianura, è dunque un fiume dal corso breve e serpentino, lento e limaccioso per via dei fondali fangosi – di acque non limpide, dunque, e non belle –, ma nonostante ciò tutt’altro che inoffensivo, per le inondazioni che periodicamente sommergevano le campagne e anche parti dell’abitato, piazza Maggiore compresa. Arrivato alle porte di Mestre, dove adesso sorgono gli impianti sportivi di via Olimpia, il Marzenego sembra dividersi in due rami: quello delle Beccarie lambisce la piazza a nord, in vista dalla torre dell’Orologio; quello delle Muneghe costeggiava a sud la chiesa di San Lorenzo, separandola dal prospiciente ex monastero femminile di Santa Maria delle Grazie, adibito dopo la soppressione napoleonica dell’ente ecclesiastico prima a caserma, poi a distretto militare.
In realtà, il ramo meridionale altro non sarebbe che il Rio Cimetto, l’antico Musone, collegato appena a ovest di Mestre con il Marzenego aprendo una “intestadura” – la testimonianza più antica è un disegno del 1682 –, cioè un collegamento fra i due corsi d’acqua, in modo da convogliare parte del flusso del Cimetto nel Marzenego, prima dello sbocco naturale dell’affluente nel fiume, presso l’attuale mercato fisso ortofrutticolo. Da qui i due bracci confluivano in un unico alveo, che non era però il letto naturale del fiume ma un canale artificiale, l’Osellino. L’avevano scavato a inizio Cinquecento i veneziani per allontanare la foce del Marzenego e con essa il pericolo della malaria da un punto della laguna, l’area di San Giuliano, giudicato troppo vicino alla città.
Nel 1781 il canale Osellino, prima tortuoso, fu rettificato. Le sue acque sono così condotte in linea diritta fino al margine lagunare, dove deviano verso nord, per gettarsi comunque in laguna, un tempo all’incirca davanti a Burano e al giorno d’oggi, costruito l’aeroporto Marco Polo e scorciato l’Osellino, immediatamente prima delle piste in località Tessera.
2. Durante il Medioevo, in età trevigiana il Marzenego svolse un certo ruolo come via d’acqua. Sicuramente sul ramo nord e forse anche su quello meridionale sorgevano dei porti per piccole imbarcazioni da trasporto. Questi approdi decaddero con l’avvento della dominazione veneziana. Nel 1342, infatti, la Serenissima, interessata a procurarsi un efficiente scalo portuale in terraferma, deliberò la realizzazione della Fossa Gradeniga, comunemente nota come Canal Salso.
Ultimato nel 1361, da San Giuliano sul bordo lagunare il canale procedeva in rettifilo fin quasi davanti all’odierno Centro Le Barche, dove ancora terminava a inizio Novecento. Ampio 24 metri e profondo due, esso permetteva la navigazione a imbarcazioni anche di grossa stazza, e così le due fosse che aggiravano dal 1811 Forte Marghera sulla conterminazione lagunare. Per secoli il Salso rappresentò la principale via d’acqua nelle comunicazioni tra Venezia e la terraferma, e il porto delle Barche alla testata di terraferma un centro attivissimo di traffici, nonché il cuore del borgo omonimo, la parte più popolare di Mestre, universo variopinto e vivacissimo di barcaioli e gondolieri, facchini e carrettieri, artigiani, osti e bettolieri.
Fra fine Ottocento e inizio Novecento, poi, l’epoca della prima industrializzazione di Mestre, su entrambe le sponde sorsero diverse fabbriche e infrastrutture commerciali, e nel 1907-1908 fu scavata a metà circa del percorso una darsena ortogonale a servizio dei magazzini del cotone, oggi fiancheggiata del nuovo viale Ancona e a disposizione di un modernissimo hotel.
3. Marzenego e Canal Salso non esaurivano il panorama delle acque mestrine. Fra i borghi di San Lorenzo e del Castello passava il fosso di San Girolamo, che dal ramo delle Beccarie presso la chiesetta di San Rocco piegando leggermente a nord costeggiava la torre dell’Orologio, la via San Girolamo e il lato settentrionale del parco Ponci, per tornare al Marzenego nelle vicinanze dell’attuale ponte di via Colombo. Inoltre, finché era rimasto in piedi il castello era esistito anche il fossato difensivo, di cui a inizio Novecento rimaneva una traccia in una canaletta nel tratto degli Spalti. Via Brenta Vecchia, infine, già calle del Pistor, laterale di via Poerio, ricorda nel nome il canale scavato dai veneziani nel primo Cinquecento fino al Marzenego nel Borgo di San Lorenzo per alleggerire la portata del rio Bottenigo in laguna (canale in seguito interrato all’inizio del XVIII secolo).
4. Definire dunque Mestre puramente e semplicemente un luogo d’acqua appare a ben vedere riduttivo: dell’acqua e sull’acqua in buona misura Mestre ci viveva. Ma la modernità avanzava e incalzava e anche Mestre ne fu coinvolta. Nell’Ottocento il vapore rivoluzionò con la ferrovia il sistema dei trasporti, seguirono il motore a scoppio e l’automobile. A inizio Novecento il paese si trasformò in città attorno a un nucleo di industrie locali, a un importante snodo ferroviario, al campo trincerato e agli insediamenti militari nelle caserme mestrine; industrializzazione e urbanizzazione si accompagnarono a profondi cambiamenti sociali e culturali. Nel primo dopoguerra l’inclusione nella Grande Venezia fece di Mestre il quartiere residenziale di terraferma della nuova città, strettamente interconnesso e collegato al centro storico lagunare e al nascente polo industriale di Porto Marghera. Fu un complesso di circostanze ed eventi che comportarono una modificazione e un ridisegno dello spazio urbano in cui l’acqua era un’intrusa, un’ospite indesiderata, e perciò andava allontanata o cancellata.
5. Sorgeva l’alba del nuovo secolo e tanto il Marzenego che il Canal Salso erano già nel mirino. Quanto al primo, sotto tiro finì il ramo delle Muneghe. Era in atto una riqualificazione funzionale e urbanistica della vecchia Mestre che aveva uno dei suoi fuochi nella parte meridionale del Borgo di San Lorenzo. Qui stavano sorgendo, sul modello delle grandi città italiane ed europee, un’alta galleria a vetri, moderni palazzi borghesi e il teatro dedicato al suo costruttore, Toniolo. Il fiume ci scorreva davanti: la galleria non aveva respiro, l’accesso da via Poerio e soprattutto da via Rosa risultava malagevole. Così nel 1910 si coprirono, tombinando il fiume, i primi cinquanta metri dalla Riviera XX Settembre verso il ponte della Campana che dava accesso alla piazza. Nel 1920 la copertura fu prolungata di altri quaranta metri, fino a inglobare il ponte: questa volta si trattava di ampliare la sede stradale in bocca di piazza per dare comodo di svoltare al tram della linea Mestre-Mirano. Nel 1925 venne intubato anche il tratto davanti all’edificio da poco ultimato della Banca Cattolica del Veneto, oggi Centro Civico; scompariva così alla vista, inglobato in un unico tratto continuo di strada da via Rosa al distretto militare, lo storico ponte della Campana. Al di là dei piani comunali di ristrutturazione del sistema delle comunicazioni stradali interne ed esterne di Mestre e dietro le considerazioni di natura estetica e igienico-sanitaria, emerge con evidenza in questi interventi la mano della rendita e degli interessi immobiliari, che molto si aspettavano dalla valorizzazione edilizia e urbanistica dell’area centrale della nuova cittadina. Erano gli stessi interessi, in prevalenza locali e identificabili in alcuni settori della borghesia mestrina, che figurano anche nella vicenda del canal Salso, per lo meno nella sua fase iniziale.
6. L’antica Cava Gradeniga rimane per tutto l’Ottocento, anche dopo l’apertura del ponte ferroviario translagunare nel 1846, una primaria via di comunicazione con Venezia, dalla quale continuava a trarre lavoro e sostentamento un’ampia parte della popolazione locale. Se l’avvento del tram e della navigazione a vapore, da San Giuliano e dalle stesse Barche, ancora più del treno valse a condurre a morte, dopo una lenta e tormentata agonia, il traghetto di gondole di Mestre, il porto canale continuò a rappresentare fino a Novecento inoltrato un approdo importante per il trasporto in particolare della frutta, della verdura e del latte ma anche di altre derrate e merci varie destinate a Venezia; inoltre poteva ancora svolgere, come aveva fatto in passato con la fornace Da Re, un ruolo rilevante nella movimentazione delle materie prime e dei prodotti finiti delle piccole e medie industrie comparse nel frattempo su entrambe le sponde – gli scopifici Krull e Longo, gli oli lubrificanti Matter, la CLEDCA di traversine per binari, la Carbonifera Industriale Italiana, la Docks Cotoni Milano e altre.
Per tutto l’Ottocento, dunque, la maggiore preoccupazione delle amministrazioni riguardo al canale rimase la sua manutenzione. Le rive franavano provocando lo smottamento delle strade; il fondale si imboniva a causa dei materiali che cadevano dai burchi nei trasbordi e che il debole movimento di marea non riusciva a disperdere. Il fondale basso creava difficoltà alla navigazione e all’attracco, le operazioni si dovevano effettuare al centro del canale mediante passerelle. Trattandosi poi di sostanze organiche, fieno, paglia, strame e legname, durante l’estate dalle acque si levava un puzzo insopportabile.
Gli escavi si facevano, tramite ditte appaltatrici, ma capitò che tra un intervento e l’altro intercorressero anche dieci-quindici anni. Una parziale soluzione ai problemi di erosione e imbonimento fu individuata nel marginamento murale delle sponde. I lavori durarono dal 1869 al 1882. L’intervento, a partire dalla testata in piazza Barche, interessò entrambi i lati del canale: la via del Cavallino, oggi Forte Marghera, fino a duecento metri oltre l’incrocio con via Bissa, e la via della Fornace fino allo Squero per circa 400 metri, quelli sottoposti al maggior logorio perché i più trafficati, facendosi qui il trasbordo della frutta, anche novanta carri per notte, e trovandosi su questa sponda la fornace Da Re.
7. All’avvio del nuovo secolo l’atteggiamento della classe dirigente mestrina verso il Salso conobbe significativi mutamenti: sulla questione del porto delle Barche si vennero delineando e precisando differenze di opinioni e indirizzi. In città prese piede il “partito” ostile all’esistenza del canale e favorevole a un suo seppur parziale interramento. Agli occhi di molti esso appariva una via di comunicazione ormai sorpassata, anche perché a Venezia già si discuteva di un ponte stradale lagunare. Mestre risultava “negli ultimi tempi migliorata dal lato estetico ed economico”, l’apertura di una “vastissima piazza molto atta per i suoi mercati” avrebbe contribuito a “valorizzare”, dandogli “nuova vita”, l’antico borgo delle Barche. Di quest’ultimo si sottolineavano il degrado, edilizio e sociale, e le precarie condizioni igienico-sanitarie: per i fautori della chiusura, parlavano chiaro le relazioni medico-epidemiologiche degli ufficiali sanitari del Comune, che denunciavano lo stato di grave insalubrità del canale. In realtà, dietro queste ragionamenti si celavano precisi interessi economici, riconducibili alla rendita e alla speculazione edilizia, agli ambienti dei proprietari fondiari e dei costruttori. Proprio la possidenza controllava l’amministrazione locale, e ciò spiega perché il Comune approvasse due distinti progetti di interramento del Salso, un primo per 200 metri dalla testata nel 1902, un secondo nel 1914 per 400 metri. A sostenerne con maggior energia la necessità furono due esponenti di primo piano della possidenza locale, i conti Jacopo Rossi e Antonio Bianchini – questi anche contitolare della fornace Da Re. Il Rossi parlò espressamente di “costruzione di nuove case” e “abbellimento di quella località”. Nessuno dei due progetti andò in porto: quello del 1902 su parere negativo del Genio Civile, che giudicò controproducente l’interramento sia dal lato idraulico che da quello igienico-sanitario e ribadì l’utilità economica del canale; quello del dicembre 1914 per il sopraggiungere della guerra.
La questione del Salso, si diceva, non trovava comunque unanime la borghesia mestrina; ed essa vale da cartina di tornasole dell’articolazione di gruppi, interessi e orientamenti della classe dirigente locale. Che l’argomento fosse motivo di divisioni e contrasti, se ne ebbe presto la dimostrazione, alla ripresa del dibattito nel primo dopoguerra. Imprenditori e commercianti mestrini si mostrarono contrari alla chiusura. Infatti nel 1923 chiesero con una petizione al Comune che il Salso fosse mantenuto e le strutture portuali ammodernate e potenziate. Sicché il progetto presentato nel 1925 dall’ingegnere comunale Caradonna conteneva una proposta di mediazione tra le parti: esso prevedeva infatti l'interramento da 30 a 110 metri di canale a partire dalla testata ma anche il rifacimento delle banchine portuali e l’elettrificazione del sistema di movimentazione delle merci.
8. L’avvio dopo la guerra della costruzione di Porto Marghera e l’annessione amministrativa di Mestre a Venezia nel 1926 mutò radicalmente il quadro e segnò il destino del porto canale delle Barche. Il progetto della Grande Venezia implicava una stretta interconnessione tra le diverse parti della nuova città – la zona industriale, il costruendo quartiere urbano di Marghera, Mestre destinata a periferia residenziale di terraferma, il centro storico – mediante una rete viaria imperniata sul progettato ponte stradale lagunare. Si cominciò con la via Principe di Piemonte, poi Corso del Popolo, che doveva mettere in comunicazione Mestre e Marghera attraverso un cavalcaferrovia; ma era necessario anche realizzare un miglior collegamento con l’area nord, attraverso una bretella tra la nuova arteria e la via per San Donà che aggirasse a est l’abitato mestrino. In questo disegno, il porto alle Barche rappresentava un diaframma di cui non era previsto altro che la cancellazione. Deciso già nel 1927, l’interramento di 180 metri di canale, dalla testata all’imbocco della costruendo corso del Popolo, venne così realizzato tra il 1932 e il 1933. Questa volta l’opera non suscitò opposizioni, anzi una petizione firmata da quasi tutti gli operatori economici mestrini, compresi quelli delle Barche, aveva sollecitato l’esecuzione dei lavori. Si creò un nuovo spazio, battezzato piazza XXVII Ottobre (ma il ricordo del vecchio sito è tenace, tant’è che ancora oggi, per tutti, è piazza Barche); più che una piazza era una rotonda stradale, creata “per rendere scorrevole il traffico”, area di passaggio verso la via Principe di Piemonte e stazione di sosta per il trasporto pubblico delle filovie.
Il progetto del 1927 prevedeva la ricostruzione di rive e banchine alla nuova testata del Salso; ma non era più tempo per Mestre di porti canale, imbarcazioni e navigazione. Pur non approvato, il piano regolatore firmato da Antonio Rosso nel 1937 è chiarificatore dei piani del fascismo per Mestre. La finalità era creare una rete più funzionale di collegamenti viari della terraferma con il ponte translagunare, “viadotto interno della più grande Venezia”. Asse fondamentale dello sviluppo urbano risultava la proiezione verso est, con piazza Barche baricentro della nuova Mestre, e con la piazza Umberto I collegata ad essa da una larga strada in modo da non tagliar fuori il vecchio borgo dal nuovo centro urbano. In questa prospettiva, non c’era posto per il Canal Salso, che nemmeno era nominato nel bando di concorso, accennandosi soltanto a un porticciolo a San Giuliano. Con il risanamento urbanistico e la valorizzazione immobiliare del Borgo delle Barche non solo si accontentavano la speculazione edilizia e la rendita ma il fascismo intendeva regolare i conti con un ambiente sociale dove per la propria affermazione “più che la propaganda poté l’opera delle bombe” e dove durante il regime ancora si concentravano gli ultimi irriducibili antifascisti.
9. Dunque il porto non fu ricostruito e il Salso cessò così dalla sua plurisecolare funzione. Arrivano poi gli anni Sessanta dell’esplosione demografica e della vertigine edilizia di Mestre. Molte vecchie costruzioni del centro sono abbattute, al loro posto e negli spazi liberi sorgono moderni palazzoni a più piani; il traffico automobilistico aumenta a dismisura. Parte delle acque risulta d’intralcio all’avanzata di questa genere di modernità. Il ramo sud del Marzenego viene tombinato nel tratto di Riviera XX settembre e da via Poerio all’attuale mercato ortofrutticolo, nei cui pressi sorge dagli anni Settanta la mole dei grandi magazzini Coin. Quanto al Salso, si procede a nuovi interramenti, che allontanano sempre più il canale dal centro città verso la periferia, fino all’attuale confinazione. Tuttavia la progressiva invisibilità delle acque ai mestrini non significa abbandono. Anzi: oggi Osellino e Salso sono lo scenario di una piccola navigazione da diporto diretta in laguna, quotidianamente verificabile nelle lunghe file di barche, barchette e fuoribordo ormeggiati lungo le sponde.
10. Adesso che il Marzenego in via Poerio è stato scoperchiato per lavori, in città si è riaccesa la discussione. L’orientamento che sembra prevalere, anche presso il Comune, è per una riapertura del fiume. Mentre ci si divide sull’estensione, la fattibilità e i costi, restano un po’ in sordina gli interrogativi sul significato dell’operazione. Il dubbio riguarda la funzionalità dell’intervento, in termini urbanistici, sociali e culturali, rispetto a un’area del centro chiamata con il museo M9 (Mestre Novecento) a riqualificarsi e rivitalizzarsi; mentre gli inevitabili richiami al passato cittadino trascinano con sé un grumo di riferimenti identitari, giocati anche e ancora in chiave antiveneziana, che riportano il dibattito pubblico a una dimensione che si pensava definitivamente superata.
Nota bibliografica
Per la conoscenza della vicenda otto e novecentesca di Mestre, rimando a Sergio Barizza, Storia di Mestre, Il Poligrafo, Padova 1994 e Fabio Brusò, Piazza Barche. Mestre (1846-1932), Cierre, Sommacampagna 2000. Un utile contributo forniscono poi i saggi riuniti in Mestre Novecento. Il secolo breve della città di terraferma, catalogo della mostra (Mestre, 27 ottobre-9 dicembre 2007), a cura di Elia Barbiani e Giorgio Sarto, Marsilio, Venezia 2007. Un quadro di sintesi si può trovare in Claudio Pasqual e Mauro Pitteri, Mestre tra Ottocento e Novecento, Canova, Treviso 2003.
Sul Marzenego-Osellino e le sue complesse vicende, considerate nel contesto del sistema idrografico veneto e lagunare, si possono consultare Il Marzenego. “Vivere il fiume e il suo territorio”, Comune di Venezia, Venezia 1985 e Luigino Scroccaro, Tre fiumi e un fiumetto: dal Consorzio idraulico Dese al Consorzio di bonifica Dese-Sile, Canova, Treviso 2004, pp. 17-18.
L’“intestadura” fra Marzenego e Cimetto è visibile nel disegno del 1682 (nel quale il tributario figura come “Beseto”) riprodotto in Donatella Calabi, Elena Svalduz, Il Borgo delle Muneghe a Mestre. Storia di un sito per la città, Fondazione di Venezia-Marsilio, Venezia 2010, pp. 30-31. Riguardo ai porti sul Marzenego in età medievale cfr. la documentata ricostruzione di Wladimiro Dorigo, Mestre medievale, “Venezia Arti”, 5, 1991, ora ripubblicato in Silvia Ramelli, Mestre medievale, Comune di Venezia, Venezia 2009, fasc. insegnanti, pp. 18-19.
Sulla realizzazione della Fossa Gradeniga si veda il recente contributo di Federico Pigozzo, Treviso e Venezia nel Trecento. La prima dominazione veneziana sulle podesterie minori, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2007, pp. 149-150. Sulle origini e le vicende di Forte Marghera cfr. Fabio Brusò, Visitare Forte Marghera, in I forti di Mestre. Storia di un campo trincerato, a cura di Claudio Zanlorenzi, Cierre, Sommacampagna 1997, in part. il capitolo Storia di Forte Marghera, pp. 161-176.
La prima industrializzazione mestrina, che ebbe come suo teatro le due sponde del Salso e le zone a nord (Via Ca’ Marcello) e a sud (l’area Cita ai Bottenighi) della ferrovia per Venezia, è analizzata da Barizza, Storia di Mestre cit., pp. 213-237.
Sui fossi di San Girolamo e degli Spalti, cfr. Barizza, Storia di Mestre cit., pp. 139 e 149. Sulla Brenta Vecchia cfr. Calabi e Svalduz, Il Borgo delle Muneghe cit., pp. 21-22 e 67-69.
Sui tombinamenti del Marzenego in via Poerio nel quadro della trasformazione urbanistica dei quadranti meridionali dell’antico Borgo di San Lorenzo cfr. Barizza, Storia di Mestre cit., pp. 140-142, 144 e 147. Sottolineano il ruolo dell’iniziativa immobiliare Calabi, Svalduz, Il Borgo delle Muneghe cit., p. 107.
Sulle vicende del porto delle Barche e del Canal Salso durante l’Ottocento e fino all’annessione di Mestre a Venezia cfr. Brusò, Piazza Barche cit., in part. pp. 71-104, 115-132 e 169-186, e Barizza, Storia di Mestre cit., pp. 163-203. Da qui ho tratto le citazioni che riporto nel testo, provenienti parte dall’interrogazione presentata da Jacopo Rossi nella seduta del Consiglio comunale di Mestre del 14 novembre 1902 e parte dal rapporto dell’ufficiale sanitario del Comune Alessio Pannone, datato 16 dicembre 1914 e allegato all’istanza della Giunta comunale al Magistrato alle Acque del 27 dicembre dello stesso anno.
Sull’interramento del tratto terminale del Salso e la creazione di piazza XXVII Ottobre nel 1932-33 si sofferma Brusò, Piazza Barche cit., pp. 180-186; ma si veda anche Barizza, Storia di Mestre cit., pp. 201-203. Per un’analisi e un giudizio sul piano regolatore Rosso del 1937 (con variante del 1942) cfr. Giandomenico Romanelli, Guido Rossi, Mestre: storia, territorio, struttura della terraferma veneziana, Arsenale, Venezia 1975, pp. 39-49 e Calabi, Svalduz, Il Borgo delle Muneghe cit., p. 104.
La frase su bombe e propaganda appartiene a Raffaele Vicentini, fascista della prima ora e squadrista, che l’annotò nel suo diario pubblicato nel 1935, e si trova citata in Brusò, Piazza Barche cit., p. 195.
Referenze iconografiche
Le tre foto del Marzenego "scoperchiato" sono di Claudio Pasqual (giugno 2012). Seguono:
mappa degli inizi del XVII secolo (Archivio di Stato di Venezia), tratta da Romanelli, Rossi, Mestre: storia, territorio, struttura della terraferma veneziana cit., p. 31;
i due corsi d'acqua definiti come due rami del Marzenego in una mappa del 1781, tratta da Adriana Gusso, Mestre. Le radici. Identità di una città, La linea, Padova 1986;
la Cavanuova che convoglia le acque del Cimetto (l'antico Muson) nel Marzenego, in una mappa di C. Sabbadino, 1545, tratta da Gusso, Mestre cit.;
cartolina del 1925, collezione Maurizio Antonello, Centro di documentazione sulla città contemporanea, pubblicata anche in Brusò, Piazza Barche cit., p. 175.
Anna-Maria Dell'Agnolo dice
E’ anacronistico parlare di contrapposizione Mestre-Venezia: Venezia non esiste più. Parlo con cognizione di causa, essendo nata a Venezia ed avendoci abitato per 23 anni; ho continuato a frequentarla per altri 40, dal momento che ci lavoravo, ed ho assistito alla sua snaturalizzazione. Di Venezia si sono impadroniti estranei che con essa non hanno nulla a che fare. E’ ormai perduta; pensiamoci su prima di consegnare ai potentati economici anche Mestre. Ho imparato ad amarla ed a sentirla come la mia città, al punto di studiarla e tentare di scriverne la storia. E certamente impossibile che possa tornare alla ingenua bellezza di un tempo, ma l’apertura della sua arteria d’acqua, o almeno di un tratto di essa, potrebbe far pallidamente capire ai nuovi mestrini che cosa sia andato perduto…mi correggo: che cosa sia andato distrutto.
Anna-Maria
Gianni Ferruzzi dice
Le ultime tre righe dell’ottima rappresentazione storica delle acque di Mestre da parte di Pasqual non rendono giustizia ai rapporti di Mestre con Venezia in quanto liquidano come superate le istanze di identità e di autonomia mestrina. A parte le vicende politiche dell’insuccesso dei referendum determinato dalla sproporzione delle forze in campo, da una parte gli apparati partitici e i potentati economici riluttanti ad accettare cambiamenti che potessero scompaginare i loro riferimenti e dall’altra un gruppo di idealisti senza particolari mezzi di persuasione, risulta evidente che le considerazioni sono del tutto opposte: ogni evento seguito al 1926 parla di una chiara volontà antimestrina.
Gli interessi del Conte Volpi associati a quelli della oligarchia fascista veneziana ed italiana hanno portato all’assurda unificazione che se fosse avvenuta oggi in quei termini avrebbe giustamente sollevato l’indignazione di tutti i democratici non essendo neanche lontanamente accettabile la soppressione di una comunità senza il consenso dei cittadini. Sentirsi mestrini e non veneziani non è né un delitto né una eresia ma una necessità di identità che nasce non tanto in base a rivendicazioni storiche ma alla libertà di progettare il proprio futuro.