di Filippo Benfante
Pubblichiamo il testo dell’intervento con cui il nostro socio e amico Filippo Benfante ha aperto una discussione che si è tenuta per strada, a Firenze, sabato 14 novembre 2020, intorno ai manuali di storia per la scuola superiore e l’insegnamento della storia a scuola. L’occasione era quella del presidio permanente organizzato da Priorità alla Scuola dal 10 al 14 novembre, nel centro cittadino: in un’area pedonale tra la sede del liceo Galileo (chiuso agli studenti e alle studentesse, costretti a seguire tutte le lezioni a distanza dal 2 novembre, e già da fine ottobre il 75% delle lezioni erano a distanza) e la sede del Consiglio regionale della Toscana.
1. Il titolo che ho scelto per questa chiacchierata in piazza deriva dalle perplessità che mi ha suscitato quell’“appello per la storia” che ha avuto il suo momento di celebrità nella primavera del 2019. Lanciato da eminenti personalità animate da ottime intenzioni, rilanciato dal quotidiano “Repubblica” e dal suo sito, cominciava proclamando la “storia bene comune”, proseguiva invocando la difesa della ricerca storica di fronte alla deriva dei tempi moderni (dai revisionismi beceri alle bufale storiografiche, dall’indifferenza al razzismo), cercando anche di ristabilire il ruolo sociale di chi fa ricerca storica; concludeva infine con tre richieste sulla scuola e sull’università: il ripristino della traccia di storia all’esame di maturità, che le ultime indicazioni ministeriali abolivano; l’incremento delle ore di storia a scuola; l’aumento di posti di ricercatore all’università. L’appello, e l’enorme numero di firme che ha raccolto, mi hanno dato la sensazione che a uno scopo così ambizioso, e di per sé anche condivisibile, non corrisponda una concreta conoscenza di come funziona la scuola né, soprattutto, l’insegnamento della storia a scuola. Mi sembravano e mi sembrano tuttora indicazioni poco operative e, cosa più fastidiosa, scentrate rispetto alle premesse: di fronte ai mali del mondo, un tema e un’ora di storia in più a scuola? E cosa vorrà dire mai, concretamente, un’ora in più di storia?
2. Affronto queste domande riflettendo su manuali, insegnamento e studio a scuola. Sono tre aspetti che sono intrecciati tra loro, ma ciascuno ha una sua autonomia e soggetti diversi coinvolti: gli autori e gli editori scrivono e pubblicano i libri, con la collaborazione di persone come me (e per questo io vi parlerò soprattutto di manuali); gli insegnanti insegnano; gli studenti studiano. In tutti e tre i casi, la fisionomia degli interessati cambia a seconda degli ordini di scuola e dei sistemi scolastici, quindi dei Paesi in cui ci si trova. In Italia, la storia è materia presente in ogni grado, dalla primaria alle superiori; alle superiori è insegnata in tutti i tipi di scuola e in tutti gli indirizzi per due ore alla settimana, salvo nei licei classici, dove ce n’è una di più. Non entro nei dettagli. L’ultima riforma ha cambiato il modo di insegnare storia alla primaria e alla secondaria inferiore, pensando tra l’altro un ciclo di cinque anni dalla quarta elementare alla terza media: una risposta alle periodiche polemiche sul fatto che nelle scuole italiane si ripetesse per tre volte (elementari, medie, superiori) lo studio dalla preistoria alla storia contemporanea. La riforma è stata azzeccata? Molti ne dubitano.
Per quanto riguarda i conteggi delle ore di storia alle superiori, forse conviene ricordare che sono sfalsati dal fatto che nei bienni le ore sono di storia e geografia insieme. La geografia quindi è la vera sconfitta dell’ultima riforma, senza che i suoi sostenitori fossero in grado di ottenere firme sotto a un manifesto “Geografia bene comune”.
Non tutti i Paesi si regolano così, anzi. Questa notevole presenza dell’insegnamento della storia in Italia è l’ultimo residuo di un modello perfezionato a fine Ottocento, quando al sistema scolastico fu attribuito il compito di formare lo spirito patriottico-nazionale dei cittadini (che per la maggior parte erano ancora sudditi, non solo perché vivevano in un regno, come accadeva in Italia). L’insegnamento della storia consisteva nella storia patria e in una pedagogia della nazione e poiché tantissimi non andavano oltre la scuola primaria, si capisce che lì bisognava mettercela tutta.
È un modello che naturalmente ha trovato un primo vertice nella prima guerra mondiale e poi un ulteriore impulso durante il ventennio fascista.
Nel secondo dopoguerra ce ne siamo distaccati progressivamente, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta, ma ne sono rimaste a lungo tracce persistenti, non per forza di cose nel volume dedicato agli avvenimenti più recenti (del resto in questa città, nella nostra bella culla del Rinascimento, sappiamo quanta fortuna possa avere la retorica del genio italico tra Medioevo e prima Età moderna).
Di questo percorso ci rallegriamo tutti, ovviamente, però ha avuto un effetto imprevisto: alle domande “perché studiare storia?” e “quale storia studiare?” (perché si sa, di storia ce n’è tanta) non si sa più che risposta dare.
Alcuni invitano a interrogarsi sul senso di insegnare storia italiana a immigrati e figli di immigrati; altri replicano che, per esempio, la storia del Risorgimento è altrettanto esotica per qualsiasi adolescente che vive in Italia, abbia genitori italiani o stranieri. Qualcuno accoglie con entusiasmo le proposte di metodo della “storia globale” o “mondiale” (Global/World History), per cui abbandonando del tutto un paradigma di storia nazionale, o eurocentrico, i giochi sarebbero fatti. Alcuni fanno notare che questa proposta è spesso interpretata nel senso di sostituire una storia nazionale con un’altra: “abbiamo in classe ragazzi di origine X, bisogna dargli anche la storia del Paese X”, il che significa replicare lo stesso modello che siamo così fieri di aver abbandonato. Altri ancora fanno notare che non è chiaro per quale motivo e attraverso quali proposte concrete gli studenti dovrebbero essere interessati a una storia “mondiale/globale” innovativa e con tutte le carte in regola nei confronti della storiografia più aggiornata e avvertita.
Vanno per la maggiore risposte ancora più generiche ed edificanti; per esempio “la storia aiuta a capire la complessità ed esercita il senso critico”. È una versione più accorta dell’antico “historia magistra”, motto che riceve quotidiane smentite sotto i nostri occhi. Il bersaglio comunque è sempre quello: l’educazione civica; per imparare la democrazia, per evitare i totalitarismi, chiedere all’insegnante di storia.
Sarà che ci faccio più caso, perché è il mio mestiere e la storia uno dei miei interessi principali nella vita, ma sull’insegnamento della storia sembrano addensarsi aspettative iperboliche. Il carico in più che circola nel discorso pubblico scivola facilmente nella caricatura, perché corrisponde poco sia all’effettivo peso della materia nell’orario, sia alla sua considerazione tanto nell’ambito scolastico (dove raramente a insegnare storia c’è un insegnante che ha una specifica formazione storica) quanto in quello più ampio della società nel suo insieme.
Inoltre, forse che leggere la Ginestra come ce l’ha letta Maria Beatrice Di Castri all’inaugurazione di questo presidio non affina il senso critico, il senso del tempo e dello spessore storico, le competenze di lettura del contesto e degli specifici eventi? Gli esempi potrebbero moltiplicarsi per tutte le materie.
In questi mesi, di fronte all’uso dei dati che è stato fatto e si fa, di fronte all’opacità della loro comunicazione, qualcuno forse non si è detto “era meglio avere un’ora di statistica nei programmi scolastici”? Per quanto mi riguarda, voterei per un’ora in più di statistica; e credo che l’appello per l’ora in più di storia, oggi, non troverebbe grande riscontro malgrado tutti i problemi notati dagli estensori restino gli stessi anche in tempi di Covid e di certo lo resteranno in quelli post-Covid. A parte che ora le scuole superiori sono chiuse.
3. Nel frattempo, la domanda “perché studiare storia?” non ha avuto una risposta precisa nemmeno dalle istituzioni. A partire dal progressivo abbandono di una pedagogia nazionale, si è finiti per approdare a indicazioni del genere: “Conoscenza dei principali eventi e delle trasformazioni di lungo periodo della storia dell’Europa e dell’Italia, dall’antichità ai giorni nostri, nel quadro della storia globale del mondo”. Cito dalle indicazioni ministeriali generali, a cui seguono “obiettivi di apprendimento” che scandiscono una cronologia della storia occidentale e mondiale. Per chi vuole riscontro, sono tutti documenti che si trovano facilmente in rete.
Naturalmente la libertà di insegnamento lascia ampi margini a ciascun insegnante, soprattutto nel terzo e quarto anno, mentre il quinto è più delicato perché ci si deve misurare con un esame di maturità che tiene conto del programma ministeriale. Tuttavia, le indicazioni del ministero e vari altri fattori tendono a far passare l’idea che la storia da insegnare sia grosso modo una storia universale (perché l’Italia ci vuole, ma la storia italocentrica non va bene; bene che ci sia l’Europa, ma la storia non sia eurocentrica, né solo occidentale) in sequenza lineare.
Tra questi altri fattori ci sono i manuali, che insieme ai programmi ministeriali creano un circolo vizioso: data l’ampiezza delle indicazioni ministeriali gli editori e gli autori ci mettono dentro di tutto, e poiché ci mettono dentro di tutto non aiutano a mettere in aperta discussione l’ampiezza delle indicazioni ministeriali.
4. Il manuale naturalmente non è insegnamento, ma uno strumento che si può usare – oppure no – per insegnare. Vale quanto ci siamo sempre detti in questi mesi in merito alla didattica digitale. Durante la nostra manifestazione del 25 giugno, Emilio Santoro ha fatto presente che i libri sono da sempre il primo device per imparare a distanza, per conto proprio, senza scuola, senza insegnanti.
Il manuale è un oggetto e un prodotto particolare. È anche al centro di polemiche ricorrenti: sia di natura politica, per i suoi contenuti, sia di natura pedagogica (si sa che “manualistico” non è un complimento, a dire il vero nemmeno “scolastico” lo è, ma è un altro discorso).
Qualcuno sostiene che è l’unico libro di storia che la maggior parte delle persone avranno fra le mani nella vita, quindi prima di tutto che sia accurato. Peraltro è un libro di storia che manca delle caratteristiche fondamentali di un libro di storiografia: non ha note a piè di pagina, tende a nascondere le sue fonti e la storiografia su cui si basa, presenta al limite qualche indicazione bibliografica, caso mai qualche antologia di brani di critica storiografica. È difficile dedurre di che cosa sia fatto, per non parlare della verifica delle informazioni minute (date, cifre, ecc.). I documenti storici che vengono presentati tagliuzzati non fanno immaginare cosa sia una ricerca storica, ma devono affinare “competenze”.
Qualcuno ha definito il manuale uno strumento di mediazione tra storiografia e società, nel senso che seleziona, divulga e quindi contribuisce a consolidare nel discorso pubblico le acquisizioni e i modelli elaborati in campo storiografico.
Dal punto di vista editoriale, il testo è spesso il risultato di stratificazioni dal momento che la vita di un manuale di successo dura facilmente vent’anni, i grandissimi successi sopravvivono anche trenta-quaranta, persino di più. Sul mercato restano sempre dei “dinosauri”, in certi casi improbabili residui marginali con tirature minime, ma talvolta long-seller diventati quasi marchi di fabbrica, prodotti che una casa editrice vende da sempre e che la identificano. L’editore quindi non ci rinuncia volentieri e perciò lavora a continui aggiornamenti con operazioni (e relativi investimenti) che vanno, diciamo, da un leggero maquillage a un pesante ritocco di chirurgia estetica. Il risultato è che si possono avere libri all’interno dei quali certe parti resistono sostanzialmente immutate nel tempo, mentre altre sono profondamente riviste e aggiornate; dipenderà anche dagli studi specialistici a cui si dedicano nella vita l’autore o gli altri collaboratori chiamati a contribuire. L’accumulo di questi interventi, che spesso corrispondono a mani diverse, può dar luogo anche a contraddizioni interne, talvolta evidenti, altre meno. Questo vale tanto più oggi che la forma del manuale è sempre più complessa, prevede grandi quantità di paratesto e di immagini, si realizza in sostanza all’interno di un’équipe dove ciascun componente controlla solo una parte del prodotto e la figura dell’autore non scompare ma non controlla tutto. Allora è decisivo magari chi svolge la funzione di coordinamento editoriale, talvolta però tanto impegnato a mandare avanti la “macchina” della produzione da non poter verificare la coerenza di tutti i contenuti del testo.
Un’altra ragione di fenomeni di stratificazione nelle forme dell’esposizione, nei giudizi e nella scelta degli argomenti è che il libro deve soddisfare due pubblici: non solo chi lo compra, cioè gli studenti, ma anche chi lo sceglie, cioè gli insegnanti; in altre parole, chi lo confeziona sa di dover rispondere a un duplice orizzonte di aspettative e che gli insegnanti possono essere legati a manuali (e quindi stili, modelli, argomenti, giudizi) pubblicati anni o decenni prima.
Il manuale di scuola è anche un genere letterario a tutti gli effetti, con i suoi tic linguistici, le sue retoriche. La sintassi e il lessico sono riconoscibili; ci sono usi tipici dei “tuttavia”, dei gerundi, degli “in realtà” che segnalano la frase che bisogna imparare e quel che si può tralasciare, e l’elenco potrebbe continuare. Si aggiunga che da sempre, e tanto più oggi che le nuove tecnologie permettono un’abbondanza senza precedenti di immagini e colori, parla non solo attraverso il testo, ma anche attraverso carte, figure, didascalie, impaginazione, ecc.
È un libro che ancora oggi conserva un impianto teleologico: l’idea di una storia progressiva e in costante ascesa non è tramontata del tutto, e comunque in genere vengono attribuiti maggiore discernimento e migliori sentimenti a chi è arrivato dopo. La selezione degli argomenti spesso è fatta a ritroso, alla luce di quanto verrà raccontato in seguito, perché è una storia che sempre sa già come va finire e non prevede di soffermarsi sulle possibilità alternative sconfitte. Infine, è molto influenzata, non solo per la parte dedicata al Novecento, dalla cronaca e dal dibattito pubblico contemporaneo; del resto, sotto pretesto di coinvolgere i ragazzi, i manuali cercano radici, origini, “attualizzazioni” di problemi del passato nel presente e viceversa. Non dubito, per esempio, che alla luce di questi ultimi mesi sarà dato più spazio alla Spagnola, ma non solo: avranno lo stesso destino la peste del 1348 (che peraltro ne ha sempre) e le grandi pesti dell’età moderna, con confronti “ieri-oggi” su quarantene, lazzaretti, sistemi sanitari (magari meno sui tassi di mortalità).
Il manuale oggi è anche un oggetto della ricerca storiografica. È una fonte, utilizzata in modi diversi in vari campi della storiografia: storia della scuola e della pedagogia, storia delle rappresentazioni culturali e naturalmente per gli studi sull’uso pubblico della storia. Non è solo una fonte, ma anche un oggetto di studio a sé stante, per la storia del libro e dell’editoria per esempio.
Non sempre è una fonte di facile accesso. Infatti è un libro di massa che però, come tutti i prodotti editoriali di massa, presenta un paradosso: malgrado le alte tirature a distanza di tempo anche breve diventa raro, perché non si conserva: quando non si vende alla fine dell’anno o si butta nella carta da riciclare, nelle case finisce nelle cantine e nei garage in attesa del trasloco o del trapasso che farà giustizia; anche nelle biblioteche è considerato materiale minore, conservato poco e male; il deposito legale è rispettato fino a un certo punto. Non sfuggono a questo destino i manuale di maggiore successo (per quanto sia piuttosto difficile stabilire quali siano stati i manuali più diffusi in determinati periodi, a causa anche della tradizionale reticenza delle case editrice a diffondere i dati di vendita).
Infine, per chiudere sul manuale come fonte storica, valgono le cautele e le precauzioni che si devono avere con tutte le fonti. La prima, che in genere tutti ricordano, è che appunto il manuale non è insegnamento: nessuno sa come i manuali venivano o vengono utilizzati in classe; l’insegnante, anche quello che adotta liberamente un determinato testo, può tanto aderirvi quanto contestarlo o addirittura ignorarlo in tutto o in parte. Il manuale è solo uno dei tanti strumenti didattici a disposizione. La seconda cosa da tenere a mente fa parte della nostra esperienza comune: è difficile stabilire l’efficacia della scuola, che cosa si fissa nella memoria degli alunni e per quanto tempo. Di tanto in tanto ci sono dei giornalisti che fermano i parlamentari davanti a Montecitorio e chiedono una data a bruciapelo; seguono deplorazioni sull’ignoranza storica ecc. Ci sono ragioni per deplorare, eppure se a me – che ho frequentato con profitto un liceo scientifico – chiedessero a bruciapelo la formula del binomio perfetto, diciamo che prenderei tempo. La storia che so, oggi, l’ho imparata dall’università in poi.
5. Vengo alle conclusioni. Un’ora in più di storia a scuola non salva dai mali del mondo e tanto meno dal Covid ovviamente. Credo che non ci potrebbe aiutare nemmeno a distinguere i diversi tipi di narrazione pubblica con cui l’epidemia ci viene presentata. E questo è un problema molto più delicato.
In primavera sono sbocciati come fiori quelli che registravano da uomini di mondo: “Pensate un po’: i manuali di scuola dedicano pochissimo spazio a un evento mondiale come l’epidemia di Spagnola”. I manuali sono messi sotto accusa di volta in volta per qualcosa: perché c’è poco spazio per la Resistenza, le foibe, il colonialismo italiano, il femminismo ecc. Gusti a parte (ognuno cerca quel che vorrebbe trovare), sono rilievi che hanno una loro legittimità e si possono discutere. Mi sembrerebbe più interessante, però, far rilevare non l’assenza della Spagnola, ma l’assenza del senso della precarietà degli eventi storici, il senso di incertezza, il peso delle attese, le possibilità che a un certo momento si aprono anche se poi non si realizzano, perché vengono sconfitte. Tra l’altro, quello che stiamo vivendo oggi ci conferma ancora una volta che non si può capire un periodo storico se non si capisce l’incertezza che lo contraddistingue – cosa di cui raramente c’è traccia nel racconto storico (sia a scuola che altrove).“La storia non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotta”: sono versi famosi di Eugenio Montale, a conferma che la poesia può continuare a fornire lezioni di storiografia.
Uno dei grandi storici del XX secolo, Marc Bloch, scriveva così nelle prime pagine del suo famoso Apologia della storia:
La storia […] ha godimenti estetici propri, dissimili da quelli di ogni altra disciplina. Questo perché lo spettacolo delle attività umane, suo oggetto peculiare, è più di qualsiasi altro atto a sedurre l’immaginazione degli uomini […].
E la seduzione dell’immaginazione degli uomini è facilitata da una caratteristica particolare della storia, che la rende unica, ovvero il fatto di essere “poetica”. Uno dei consigli principali che Bloch dà allo storico è quello di guardarsi bene dal togliere alla “scienza della storia” – lui la chiama così – la “il suo soffio di poesia”. “Credere che la storia sia meno capace di soddisfare anche la nostra intelligenza per il fatto che esercita un così possente richiamo sulla sensibilità, sarebbe davvero una straordinaria sciocchezza”.
Si capisce che Bloch discuteva a distanza la famosa distinzione Aristotelica tra poesia e storia; invitando non alla competizione, ma alla collaborazione. E così, a me non mi dispiacerebbe che, in futuro, nei manuali di storia per le scuole si trovassero anche Leopardi o Montale e molti altri ancora.
Questo è il luogo per una modesta proposta? Forse sì, dal momento che “Priorità alla Scuola” si mobilita non solo per la scuola, ma per una scuola migliorata.
Allora, per conto mio, si dovrebbe ridimensionare l’iperbolica “conoscenza dei principali eventi e delle trasformazioni di lungo periodo della storia dell’Europa e dell’Italia, dall’antichità ai giorni nostri, nel quadro della storia globale del mondo”. Diminuire la cronologia, l’estensione geografica, il “quanto”; contemperare e mescolare con altro; condividere alcune delle impegnative funzioni salvifiche che vengono attribuite alle ore di storia con altre materie (compresa l’educazione civica, certo).
Accanto alle sequenze di eventi da imparare (tenderei a privilegiare cose più vicine nel tempo, pazienza per le origini, o ad andare a salti, seguendo questioni, pazienza per la continuità del racconto), la storia a scuola potrebbe diventare una materia sperimentale, pratica, senza per forza trasformare tutti gli studenti e le studentesse in storici o storiche in erba. Le regole di base sono poche e chiare (non inventare, verificare, osservare con attenzione, far caso ai dettagli, alla scena e al retroscena, non accontentarsi di una fonte o di un libro). Nella pratica, si tratterebbe di imparare non un mestiere di storico, né una “competenza” (parola chiave dello “scuolese” contemporaneo), ma una sensibilità storica, anche qui partendo da pochi assunti di base: che la storia è un discorso su uomini e donne nel tempo; che esistono solidarietà e legami tra esseri umani a cui è toccato vivere tempi diversi; che la storia è un viaggio nel tempo, in posti esotici, da cui si può tornare cambiati; che a ogni momento si aprono e si chiudono possibilità; che le rotture e le differenze ci rivelano quanto e più delle continuità e delle somiglianze.
Concludo con altre due citazioni dall’Apologia della storia di Bloch, che scriveva in piena guerra mondiale, poco prima di essere arrestato e fucilato dai nazisti:
Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorrerebbe un po’ più d’intelligenza delle anime; e tanto più per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire di questo difetto. È una vasta esperienza delle varietà umane, un lungo incontro degli uomini. La vita, la pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia fraterno.
E in un altro punto diceva:
Ogni libro di storia degno di questo nome dovrebbe contenere un capitolo o, se si preferisce, una serie di paragrafi, inseriti nei punti-chiave dello svolgimento, il cui titolo potrebbe essere all’incirca: «Come posso sapere ciò che sto per dire?» Sono persuaso che, a leggere queste confessioni, anche i lettori non specialisti troverebbero un vero piacere intellettuale. Lo spettacolo della ricerca, con i suoi successi e le sue traversie, raramente stanca. Il bell’e fatto, invece, provoca gelo e noia.
Un invito a un’ora di storia sperimentale e divertente, altro che gelo e noia. Gioverebbe persino a chi la insegna. La storia a scuola, insomma, si salva cambiando radicalmente i programmi, perché per come si fa ora potrebbe essere tranquillamente abolita (sempre che io trovi un ristoro altrove). Noi intanto stiamo cercando di salvare la scuola pubblica laica e solidale facendo saltare altri programmi, in modo che non solo sopravviva ma sia migliore.
Nota. Questa è revisione del testo che mi ero preparato per aprire la chiacchierata in strada il 14 novembre. Ringrazio chi era presente, perché in un modo o nell’altro mi ha aiutato a migliorarlo mentre lo pronunciavo; alcuni dei loro suggerimenti impliciti sono finiti in questa versione. Ringrazio anche gli amici e le amiche che lo hanno letto per primi: Andrea Bencini, Piero Brunello, Alberto Cavaglion, Maria Beatrice Di Castri, Gloria Ghetti.
Il discorso lo avevo cominciato così:
Buongiorno, mi chiamo Filippo Benfante, da una ventina d’anni lavoro nell’editoria, con vari ruoli, per lo più con contratti da autore, traduttore o collaboratore occasionale. Negli ultimi dieci ho lavorato soprattutto nel settore della scolastica: collaboro in vari modi all’edizione di manuali di storia per la scuola superiore. Solo di storia, perché solo in questo campo ho una formazione specifica che ha un valore di mercato, cioè su cui posso far leva per ottenere compensi decenti, che si faticano a trovare nell’editoria.
Il testo è frutto della mia esperienza di lavoro e della mia (quasi) quotidiana riflessione su di essa. È composto di cose scritte in altre occasioni e pubblicate in altre sedi, in particolare:
L’orco della fiaba o…, in Insegnare la storia, trasmettere la memoria, oggi…, a cura di Ruggero Zanin, Ca’ Foscarina, Venezia 2012, pp. 112-116, di cui si legge una versione (più corretta) anche su questo sito.
La Prima guerra mondiale nei libri di scuola in Italia e in Francia (1919-2014), in Guerra mondiale, racconti nazionali. La Prima guerra mondiale nei libri di scuola in Europa, con suggerimenti di letture e di film, a cura di Piero Brunello e Luca Pes, Itinerari educativi-Comune di Venezia, Venezia 2015, pp. 49-75.
Questi due articoli contengono anche tutte le note a piè di pagina che danno conto delle letture che, nel corso degli anni, hanno collaborato alle mie riflessioni sul mio attuale mestiere. Qui mi limito a ricordare che i versi di Eugenio Montale sono i primi di La storia (da Satura I) e che le citazioni da Bloch vengono dall’edizione Marc Bloch, Apologia della storia, o mestiere di storico, trad. di Carlo Pischedda, introduzione di Girolamo Arnaldi, Einaudi, Torino 1995 [prima ed. francese 1949, prima ed. italiana 1950], pp. 26-27, 127, 75, rispettivamente.
Infine, mi hanno aiutato due Quaderni di storiAmestre: Bloch notes. Domande e riflessioni nell’anniversario della morte di Marc Bloch (1944-2004), a cura di Elena Iorio e Filippo Benfante, storiAmestre, Mestre 2005 (la prefazione si legge su questo sito); Gigi Corazzol, Pensieri da un motorino. Diciassette variazioni di storia popolare, storiAmestre, Mestre 2006.
Le manifestazioni di Priorità alla Scuola del 25 giugno 2020, citate nel testo, sono documentate su questo sito con gli interventi di Maria Beatrice Di Castri e di Filippo Benfante, da Firenze, e di Georgiana Gheorghe Floricica, da Sacile (a cura di Enrico Zanette).
La lezione di Maria Beatrice Di Castri sulla Ginestra di Giacomo Leopardi ha inaugurato, il pomeriggio del 10 novembre 2020, il presidio di Priorità alla Scuola Toscana, tenuto a Firenze dal 10 al 14 novembre 2020.
Le foto sono di Priorità alla Scuola Firenze.
(f.b.)