di Enrico Zanette
Dal nostro corrispondente da Vittorio Veneto.
1. Mi avvicino all’entrata. Due colonne scrostate aprono su un viale alberato che porta a una villa. Alla sinistra e alla destra due basse costruzioni provviste di telecamere tengono in piedi una recinzione sgangherata.
Sebbene sia uno spazio pubblico, si ha l’impressione di entrare in un luogo che non si ha il diritto di percorrere. Dei tubi arrugginiti costeggiano per pochi metri l’entrata, un cartello stradale sbreccato e anch’esso arrugginito sembra indicare, più che la direzione, l’aria che tira. Silenzio, il parco è nell’incuria più totale, s’intravedono alcune grigie panchine di plastica che una volta dovevano esser state bianche; i lampioni che costeggiano il viale hanno come una specie di terriccio sulle palle di plexiglas ingiallite.
Qualsiasi cosa è ricoperta da un qualche agente corrosivo che alla lunga lo distruggerà: muschio, terra, muffa, ruggine regnano sovrani. Alzo lo sguardo sulla villa. Mi stupisce la grandezza: tre alti piani porticati. Doveva essere stata bella un tempo.
Ora, quelle poche persiane alzate e quei tendaggi strappati e svolazzanti, le danno un’aria spettrale che mi suggeriscono un titolo: “la casa dalle finestre che ridono”, come il film horror di Pupi Avati.
Una fontanella spinge a fatica pochi zampilli d’acqua che ricadono su una vasca piena di alghe e fango, dove sopravvive una specie di super pesce rosso, forse una piccola carpa arancione.
Salendo i gradini vedo la carcassa di un uccellino, che nessuno ha pensato di levare, pare un fossile mesozoico.
In un angolo poco più in là un paio di scarpe da ginnastica bianche che sembrano appoggiate in attesa del padrone. Dove saranno i piedi?.
Mi fa pensare a una vecchia pubblicità americana della Torazina (uno dei primi e più importanti neurolettici), nella quale, in un significativo effetto “before-after”, una donna internata lasciava simili scarpe, la scala di grigi e il vestito sporco per ritrovarsi catapultata su una moquetta colorata, moglie e madre ripulita con indosso un paio di calzature decisamente più eleganti. Che sia successo anche qui la stessa miracolosa conformazione al modello di genere dominante?
La porta d’ingresso della villa è sgangherata con una la maniglia posticcia che ha tutto il manico graffiato. Subito dentro mi trovo sulla sinistra una bacheca sudicia con alcuni avvisi scoloriti: il più visibile segnala una di quelle raccolte di tappi di plastica di cui mi è sempre sfuggito il senso.
Gli interni non sono meno lugubri e fatiscenti degli esterni: un divano sgualcito per l’attesa, le pareti dipinte di azzurrino ambulatoriale, la luce di vecchi neon esauriti; il tutto adornato qua e là da fioriere antidiluviane.
2. Mi avevano parlato del CSM (Centro di Salute Mentale) di Vittorio Veneto presso Villa delle Rose, ma non credevo fosse veramente in quello stato. Si trova in una zona periferica della città, vicino all’ospedale civile ed è lì “temporaneamente” da almeno da 20 anni, “temporaneamente” perché il trasloco viene periodicamente promesso e rimandato per le più svariate ragioni.
L. conferma le mie impressioni. È un amico in cura presso il CSM da diversi anni e sembra non stupirsi un granché del mio racconto. In fondo non trova scandaloso che gente come lui sia destinata a una struttura periferica e fatiscente. E poi a lui piacciono le rovine, i luoghi abbandonati, le discariche, cose che da sempre, devo ammettere, affascinano anche me. Non si lamenta molto, ma da quello che mi racconta capisco che lo stato di abbandono e la marginalità della posizione è in realtà solo l’aspetto più visibile di un problema più profondo.
Mi racconta che per carenza di personale le visite con lo psichiatra sono fissate a intervalli molti ampi, nel suo caso addirittura ogni sei mesi. Queste sono poi molto brevi, 10-20 minuti di colloquio, che terminano di solito con la conferma del piano terapeutico personalizzato. Se uno avesse bisogno di più tempo è disponibile un solo psicologo, cioè veramente uno per tutto il CSM, che ha naturalmente tempi di attesa impressionanti. Tutto ruota quindi attorno al piano terapeutico che, in altri termini, significa farmaci a go-go. L. è in pieno regime farmacologico, caratterizzato da una combinazioni di benzodiazepine, antidepressivi SSRI e neurolettici; roba potente – altamente contestabile da un punto di vista terapeutico – che stenderebbe un gigante. Tutto sommato lui la regge abbastanza bene, anche se la sedazione specie la sera lo inchioda a letto subito dopo cena, cosa che in fondo non gli dispiace poi tanto. È così da anni e la situazione non sembra migliorare.
In questo quadro è chiaro che la “casa dalle finestre che ridono” è solo un aspetto, quello più scoperto, dell’insufficienza del servizio di cura e prevenzione della sofferenza mentale degli abitanti di Vittorio Veneto. Un cambiamento di sede potrebbe essere allora un inizio, magari perché no, in centro, nel palazzo del municipio, ma risolverebbe in modo ipocrita solo la superficie. Questo clima di abbandono favorisce invece però l’assistenza privata, chiaramente solo per quelli che se lo possono permettere, rinnovando la questione di classe del trattamento differenziato della sofferenza mentale, di una psichiatria di seria A per i ricchi e una di serie B per tutti gli altri.
Più in generale, quello che sorprende è che la fatiscenza dei luoghi, l’insufficienza del personale e l’abuso dei farmaci hanno dato vita a un sistema di cura in fin dei conti economico e da un certo punto di vista funzionante (almeno per l’istituzione). Che possa essere un modello, più che un’eccezione condannabile? Il mio amico L. non è più, come nella gestione manicomiale, sottoposto obbligatoriamente dalla cura, ma utente volontario di un servizio, dopo che lo si è convinto che la sofferenza che prova è un prodotto di processi bio-chimici difettosi. Non più isolato perché scandaloso, ma più discretamente marginalizzato. Non più privato della libertà, ma quotidianamente sedato. Il tutto a creare un circolo vizioso in cui la sedazione rafforza l’emarginazione e l’emarginazione richiede sempre maggiore sedazione per non vedere, per non vedersi. Come nel processo d’istituzionalizzazione manicomiale accade che la sofferenza perde il suo significato originario e l’individuo rimane schiacciato dalla diagnosi, ridotto nell’autonomia, paternalisticamente assistito dagli altri, protetto da sé e dal mondo. Un sistema che più che alla cura pensa a legittimare se stesso e suoi tecnici.
Emerge un’istituzionalizzazione della sofferenza mentale diversa nella forma, ma simile nella sostanza: non più brutale e centralizzata, ma leggera e diffusa. È come se il manicomio sopravvivesse esternalizzato capillarmente nelle famiglie, e le sue mura siano state sbriciolate per farne tante pillole addette a inibire processi bio-chimici invisibili. Non abbiamo più da indicare indignati, i muri, i cancelli e le cinghie contenzione, ma gli appartamenti, le case a schiera e le camerette (i nuovi luoghi della psichiatria), l’abuso incontrollato di farmaci, di televisione e di tutto ciò che offre la florida industria dell’evasione. Il manicomio è come se vivesse tra noi e in molti casi si è trasformato in una prigione dorata.
Enrico Zanette dice
Qualche giorno fa la redazione del sito sAm ha segnalato che il mio articolo era stato ripreso da “Oggi Treviso”. Rendo noto ai lettori che l’articolo è stato rimosso da “Oggi Treviso”, dopo poco più di ventiquattro ore, senza che io ne fossi informato. Da quanto ne so l’articolo aveva avuto una certa risonanza. Su mia richiesta, i responsabili del giornale ci hanno tenuto a precisare che non era vero che l’articolo fosse stato rimosso: piuttosto non era più “in chiaro”…
Lia Botter dice
Grazie per lo scritto di Enrico Zanette, che mi è molto piaciuto anche perché mi ha ricordato l'incipit di uno dei più famosi racconti di Anton Cechov, diventato un classico della letteratura non psichiatrica sulla psichiatria e sul trattamento psichiatrico (come si sa, Cechov era un medico). L'ho voluto ricopiare, eccolo: "Nel cortile dell'ospedale c’è un piccolo padiglione, circondato da tutto un bosco di lappole, di ortica e di canapa selvatica. Il suo tetto è rugginoso, il tubo del camini è a metà crollato, gli scalini della scala principale sono marciti e c'è cresciuta l'erba, e dell’intonaco sono rimaste soltanto le tracce. La facciata anteriore è rivolta verso l'ospedale, quella posteriore guarda nella distesa dei campi verdi da cui lo separa il grigio recinto dell'ospedale, tutto chiodi. Questi chiodi con le punte rivolte all'insù, e il recinto e lo stesso padiglione hanno quello speciale aspetto triste che da noi hanno soltanto le costruzioni ospedaliere e carcerarie. Se non avete paura di bruciarvi alle ortiche, andiamo per lo stretto sentiero che porta al padiglione e guardiamo che vi si fa dentro". L'edizione che ho in casa è "La corsia n. 6", in "Racconti", introduzione di F. Malcovati, traduzione di vari, Garzanti, Milano 1996, vol. II, p. 639. Grazie, un cordiale saluto, Lia Botter
Stefano Tranchini dice
Questo articolo, scritto con intelligenza e lucidità e documentato fotograficamente, mi riempie di speranza. Allora esiste ancora qualche Giornalista che sa quello che scrive, che sa pensare e tradurre in parole non banali la realtà che indaga. È un piacere leggere articoli di questo calibro per quello che portano a conoscenza dell’opinione pubblica, per il modo in cui sono scritti, per lo stimolo a riflettere ed agire. Spero di imbattermi ancora in letture di questo livello.
redazione sito sAm dice
Segnaliamo che l’articolo di Enrico Zanette è stato ripreso dalla testata giornalistica “Oggi Treviso”. Ora si legge anche all’indirizzo http://www.oggitreviso.it/viaggio-al-centro-di-salute-mentale-81628 dove ha ricevuto altri commenti.
Piero Colacicchi dice
"Il manicomio diffuso" è un bel titolo, di effetto, ma secondo me un po' ambiguo. Se per manicomio diffuso s'intende che il controllo sui cittadini da parte dei cittadini stessi, l'imposizione di comportamenti e pensieri che garantiscano la stabilità della pace sociale e e della morale corrente viene messo in atto e garantito dagli psichiatri attraverso la diffusione di pregiudizi e, se ritenuto necessario, l'uso della violenza (ché anche l'imposizione di farmaci paralizzanti non è diverso dalla camicia di forza) allora posso essere d'accordo. Se invece s'intende dire che servono strutture più efficienti, più pulite e più lucide perché il "disagio" di chi vede la propria libertà negata con la forza fisica o con quella, altrettanto potente, dell' opinione "di chi ne sa di più", sia meno evidente, allora sono in totale disaccordo. Quando in gioco è, letteralmente, la nostra libertà (e in questo campo si parla di fatti concreti e verificabili) i tentennamenti e i distinguo possono portare a risultati davvero catastrofici.
Gabriele Vitello dice
Grazie per l’articolo molto interessante e ben scritto su un tema per lo più assente nel discorso pubblico.
Adriano Botteon dice
Grazie per il bellissimo articolo.
Da vittoriese aggiungo un particolare non da poco: la nostra Uls-7 ha speso recentemente (2012) oltre 500 mila euro per acquistare dal Comune un palazzo storico a Serravalle (palazzo Vascellari) proprio per destinarla a nuova sede del Centro di Salute Mentale; idea strampalata contestata sia politicamente sia da operatori del settore per la clamorosa inadeguatezza del palazzo stesso. Infatti il progetto è caduto nel dimenticatoio.
Ma qui si va oltre: parole, quelle sull’istituzionalizzazione della sofferenza mentale e sul rafforzamento dell’emarginazione, che fanno male ma che spronano a capire quale sia la direzione e l’obiettivo che la politica e la società civile dovrebbe perseguire.
Nadia Caldieri dice
Grazie per aver raccontato e fotografato.