di Nuto Revelli
Per l’anniversario dell’8 settembre 1943, quest’anno abbiamo riaperto La guerra dei poveri, le memorie della guerra e della Resistenza che Nuto Revelli pubblicò nel 1962. È un modo per ricordare anche il centenario dell’autore, nato il 21 luglio 1919.
Reduce dalla ritirata di Russia, Revelli si trovava a casa a Cuneo, in convalescenza. All’annuncio dell’armistizio, nel caos della città travolta da una “valanga grigioverde” di armate allo sbando, ritrova forze che non pensava più di avere. Per tre giorni passa da un comando all’altro, sperando di organizzare la resistenza; è la seconda delusione dopo il Don; arrivato “proprio in fondo al pozzo” smette di credere all’esercito e ai gradi e getta la divisa. La Resistenza comincia così.
8 settembre. La notizia dell’armistizio mi entra in casa dalla strada. Gridano che la guerra è finita, che Badoglio sta parlando.
Con Anna scendo in via Roma, quasi di corsa, perché sento che un’altra guerra sta incominciando.
La gente è raccolta di fronte ai caffè come al tempo dei discorsi del duce, come al tempo dei campionati mondiali di calcio, del giro di Francia. Chi non capisce, chi capisce a metà. Soldati che si abbracciano, bustine che volano. I soldati sono allegri come se la guerra fosse finita sul serio,
Non è Badoglio che parla. Un disco lento e monotono chiede che l’Italia insorga con prudenza. Sembra rotto il disco, tanto è rauco. Sembra l’annuncio di un treno in partenza, che dovrebbe partire ma non parte mai…
Riordino le idee. I tedeschi cosa faranno? I tedeschi saranno spietati. C’è da sparare.
Corro a casa. Indosso la divisa, prelevo i parabellum, filo in caserma.
Ho la licenza di convalescenza in tasca, per la pleurite, per il congelamento. Fino a ieri credevo di reggermi in piedi soltanto con le endovene di calcio. Sono più forte di quanto non pensassi.
Mi presento al primo ufficiale che incontro nel corpo di guardia. «Sono del 5° alpini, – gli dico, – sono a casa in convalescenza. Chiedo di poter fare qualcosa».
Il capitano, un certo Romiti […]: «Faresti meglio a startene tranquillo, a goderti la convalescenza. Qui perdi tempo, non si farà niente».
Nell’ampio cortile è schierato un battaglione di reclute. La compagnia armi di accompagnamento con i 47/32 si sta schierando.
Mi dico: se il battaglione parte mi infilo in coda e qualcosa riuscirò a fare.
Gli ufficiali si riuniscono a gruppi. Alcuni li conosco dal tempo della scuola, della Gil, del Guf; chi più, chi meno, erano fascisti come me, come tutti: Verra, i due Silvestri, Berra, Bocca, Cipellini, Brizio e altri.
Non so come la pensino oggi. Hanno appena lasciato la scuola di Bassano, sono ufficiali da tre giorni. Mi sembrano «imbranati»1.
Ho conosciuto un 2° alpini fatto con gli Astrua, i Gorresio, i Bonichi, i Parola, i Civalleri. Ho già vissuto un 8 settembre sul Don, a Belogore, con i Grandi, i Torelli, i Perego. Qui mi sento un estraneo.
[…] Con le ore che passano, i reparti si sciolgono.
Le pattuglie in bicicletta, che si erano sparse per la città a suonare la ritirata, sono rientrate da tempo.
Nel buio – gli ufficiali di qua, i soldati di là – parlano sottovoce come se i tedeschi ascoltassero. Unico argomento: arriverà l’ordine di sparare?
Soltanto le armi e gli zaini schierati nel cortile dicono che non siamo ancora un esercito di prigionieri.
Verso mezzanotte pare che la baracca riprenda a marciare. Per la prima volta si accenna all’eventualità di resistere ai tedeschi. Un reparto con quattro pezzi da 47/32 dovrebbe schiararsi a Madonna dell’Olmo per un’azione di sbarramento.
È un falso allarme. Cerco in città Piero Bellino, fantastico con lui fin quasi all’alba.
9 settembre. Torno al 2° alpini, sempre in divisa, sempre con le armi automatiche.
Tutto è apparentemente normale. L’ufficiale di picchetto ha la sciarpa azzurra, la «guardia» continua a schierarsi al passaggio dei rari ufficiali superiori che s’infilano in caserma.
Si attendono gli ordini. […]
Radio Scarpa qui non funziona, perché non esistono i comandi, perché manca qualsiasi iniziativa anche la più modesta, perché si gira a vuoto nell’attesa passiva di situazioni nuove.
Qui la scala dei gradi, delle responsabilità è scomparsa. Siamo come in un’immensa retrovia, e scappare è facile.
Si attendono ordini, che potrebbero non arrivare mai. Se i tedeschi non fossero in casa nostra, alle porte di Cuneo, forse alcuni ufficiali superiori andrebbero a giocarsi la partita a bocce, per far passare il tempo.
Radio Londra potrebbe sostituire Radio Scarpa, ma è un delitto ascoltarla,
[…] Scartoffie e pezze giustificative prima di tutto.
Dopo le scartoffie gli stipendi. Si parla infatti di distribuirli al più presto, prima, comunque, dell’arrivo dei tedeschi.
[…] È tremendo assistere a questa lenta agonia, sentire che la divisa, che le armi diventano un peso, un ingombro. È il secondo fallimento che mi arriva sulle spalle, a breve scadenza, ed è più pesante dell’altro.
Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato. Qui non si crede più a nulla.
Non appena apprendo che un piccolo reparto della 4a armata sarebbe arrivato dalla Francia raggiungo, con Piero [Bellino], via Statuto per controllare la notizia. Ci attacchiamo a tutto, alle notizie vere, alle notizie false: in fondo in fondo crediamo ancora in questo esercito scombinato, perché l’abbiamo visto combattere e pagare senza pietà.
Incontriamo il reparto, una breve colonna di pochi autocarri, di fronte al comando zona. I soldati sono spauriti, disorientati. I loro ufficiali sono in città a cercare abiti borghesi.
La 4a armata non esisterebbe più. Non ripiegherebbe dalla Francia, sarebbe in ritirata. Forse le unità motorizzate riusciranno a raggiungere l’Italia. Molti reparti non troveranno via di scampo.
Al 2° alpini nessuna novità. Aria di funerale: conversazioni stanche, piene di diffidenza, come se ognuno temesse di confessare la propria paura. […]
10 settembre. Notizie da Alessandria: là si resiste, si combatte. La Cittadella sarebbe una fortezza inespugnabile. Se Alessandria resiste, anche a Cuneo si sparerà. […]
Nel tardo mattino si piazzano mitragliatrici e mitragliatori alle finestre della caserma, dentro e fuori. Le armi sono però senza caricatori. Come se non bastasse, hanno l’ordine categorico di non sparare…
Una piccola folla di civili di fronte al portone principale, al portone carraio, grida, si sbraccia. Sono i familiari che portano notizie, che invitano gli alpini a scappare. Verso mezzogiorno si chiudono i battenti, gli alpini restano isolati.
Il grosso della 4a armata sta ripiegando in città. Colonne interminabili di automezzi lungo i viali, all’ombra, nell’illusione di sottrarsi agli attacchi aerei. Colonne in transito.
È una valanga di gente senza comando, che sosta, che scappa. Tutto è così brutto, così spaventosamente squallido, da sgomentare.
Soldati che hanno buttato le armi, sconvolti, alla ricerca affannosa di abiti borghesi. È dalla Francia che cercano abiti borghesi. Soldati a decine di migliaia.
Due marinai in bicicletta, nel grigioverde, spiccano come mosche bianche. A Vernante è fermo un treno blindato; fino a ieri guardava la Costa Azzurra.
Cavalleria, gruppi corazzati, colonne dei servizi. Molte autovetture francesi, requisite o rubate, piene di ufficiali e soldati pigiati come sardine.
Nelle colonne in sosta si liquida, si vende. Vale pochi soldi, l’esercito. Automezzi, coperte, equipaggiamento, carri officina, carri ospedale, tutto si vende. Un camion vale un abito borghese.
Anche i magazzini della Sussistenza liquidano. Le forme di formaggio rotolano verso la città come pneumatici. Fusti di olio, sacchi di farina, ogni bendidio. Gente ricca, gente povera. Corso Monviso sembra un formicaio, si trascinano carretti e biciclette cariche fino all’inverosimile.
Raggiungo con Piero il comando zona. Nell’anticamera, fascisti che confabulano, un gruppetto, cinque o sei, chi in divisa dell’esercito, chi in borghese.
Il colonnello B., capo di stato maggiore, con gentilezza squisita, taglia corto in partenza. […]
Come due fessi, a testa bassa, usciamo dal comando. Rituffarci nel disordine e riaggrapparci a una speranza è la stessa cosa. C’è una mezza armata a Cuneo. Credere con ostinazione nell’esercito vuol dire credere nei gradi. Cerchiamo il comando d’armata.
Nella villetta del presidio, in corso Garibaldi, c’è più gente in borghese che in divisa. Si diceva che fosse qui il comando d’armata, che qui i generali, a maniche rimboccate, lavorassero per riprendere in mano la situazione.
Passando da un ufficio all’altro non troviamo che scartoffie abbandonate. Nell’ufficio più ampio, al secondo piano, finalmente un ufficiale di stato maggiore lavora a tavolino. Piegato com’è sulle carte, ostenta, senza volerlo, le sue grosse mostrine d’oro che gli decorano il bavero della giacca.
Ci avviciniamo in punta di piedi, temiamo di disturbarlo.
Non fa una piega. Gli siamo addosso, ma non batte ciglio. È assorto come se compilasse un ordine di operazioni.
Sta compilando una carta d’identità falsa, non sa niente di niente. […]
In piazza Vittorio, nella parte che fa angolo con corso Nizza, organizziamo un servizio di smistamento per le colonne in transito. […] Vorremmo dirottare le colonne su per le valli, ma la bolgia è così infernale che veniamo sommersi. Chi cerca l’ordine è pazzo. Le colonne, dopo il viadotto, non svoltano a sinistra: cercano la pianura.
Torniamo in caserma, al 2° alpini. Per entrare si perde tempo perché la folla dei borghesi si è infittita: dalla strada i civili bussano, e l’ufficiale di picchetto risponde e apre soltanto alle voci che conosce. […]
È quasi sera quando suona l’adunata. Gli alpini, su nelle camerate, parlano sottovoce, come si parla in trincea. Confondono l’adunata con l’allarme: pensano ai tedeschi. […]
Torna la calma e gli ufficiali schierano i reparti.
Poi appare Boccolati con un breve seguito di penne bianche. Sulla sinistra del cortile c’è un riporto di terreno, una lunga collina che copre i rifugi antiaerei. Boccolari vi sale, come su un palco.
Con un largo gesto delle braccia, paterno, invita i reparti a sciogliersi. Insiste nell’agitare le braccia, vuole che gli alpini, alla buona, si stringano attorno al suo palco. E parla.
«I piemontesi, – dice, – abbandonino armi e bagagli, raggiungano le proprie case. I toscani invece verranno inquadrati in un nuovo reparto e raggiungeranno Prazzo».
[…] In questa confusione non mancavano che due eserciti, uno piemontese, l’altro toscano! […]
11 settembre. […] Primo messaggio dei tedeschi: un aereo sorvola la città a bassa quota.
Si dice che nella caserma dell’artiglieria i reparti siano inquadrati perfettamente, che attendono ordini. Raggiungo corso Umberto per controllare la notizia e intravvedo due motociclisti tedeschi che procedono a passo lento, mimetizzandosi nella confusione che li circonda.
Mi butto sul viale; afferro il primo, lo sto disarmando.
«Fermo», mi gridano alle spalle, e non ho il tempo di girarmi che mi trovo immobilizzato.
Sgroppando riesco a liberarmi. A manate spingo indietro tre ufficiali italiani, quelli che mi hanno aggredito, e chiedo cosa vogliono.
«Siamo del comando zona, – mi dicono, – siamo la pattuglia in servizio d’ordine. Un foglio del nostro generale ordina che tutte le forze tedesche in transito devono essere dirottate al campo raduno di Cervere».
I due motociclisti sono ripartiti a tutto gas. La discussione, pietosa e violenta, continua fra i civili incuriositi.
Purtroppo è un continuo girare a vuoto. Questa valanga di grigioverde, che ha invaso al città, a tratti ravviva ancora le speranze: ma non è che fango, soltanto fango.
La caserma dell’artiglieria ha le porte sprangate. All’interno gli ultimi reparti, con ordine e disciplina, stanno ultimando la smobilitazione: i fucili di qua, i moschetti di là, le coperte ben piegate e via.
Mi spingo verso la Stazione Nuova. Fermo un gruppo di soldati che corrono verso i treni. Sono artiglieri alpini e come tutti scappano.
«Non correte verso la stazione. Guardate, i treni sono fermi, non partono. Anche sulle locomotive i soldati sono appesi a grappoli. Con i treni non andrete lontano». […] Sembrano perplessi, capiscono che i treni sono una trappola. Ci pensano su, poi corrono ai treni.
È quasi notte quando torno al 2° alpini. […]
All’improvviso dalla strada gridano che i tedeschi stanno arrivando. Spariscono tutti. […]
In piazza Vittorio soldati che rasentano i muri come se fossero braccati dai tedeschi. Tutti sono vestiti alla meno peggio, tutti hanno rimediato una giacca o un pantalone borghese.
Incontro un sottotenente del battaglione reclute che sgambetta sotto i portici. Indossa una giacca a vento color latte, così lunga da coprirgli le mutandine. Non si vergogna, va a raggiungere i pantaloni borghesi…
Un bersagliere grida che i tedeschi sono sul ponte. Il grido si ripete nel buio come un’eco. Scappano tutti, soldati e borghesi.
È un falso allarme, ma i tedeschi non sono lontani.
Per l’ultima volta torno al 2° alpini. La caserma appare vuota come ai tempi delle manovre. Sono proprio in fondo al pozzo. Qui finisce il mio fascismo fatto di ignoranza e presunzione, in questa caserma buia, per sempre.
Sotto il porticato, oltre il cortile, rare ombre che corrono. Sembrano ladri: sono borghesi. Raccolgono le armi per fare la guerra ai tedeschi.
Rientro a casa che è quasi mattino. Mi tolgo la divisa: non l’indosserò mai più!
Nota. Tratto da Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1993 [prima ed. 1962], pp. 116-125 (sono le prime pagine del cap. 4). In una nota posta in apertura del libro Revelli avvisava che le pagine sulla ritirata di Russia erano una rielaborazione del diario di guerra già pubblicato nel 1946 (Mai tardi, Ed. Panfilo, Cuneo), mentre il resto del libro, dal rientro in Italia alla liberazione di Cuneo, era composto da diari e memorie basate su documenti, lettere, diari di banda e testimonianze.
- Revelli concludeva così la nota posta in apertura del libro, in cui spiegava la struttura e le fonti del testo: “Giudizi su persone e fatti sono a volte passionali e dovuti all’immediatezza delle situazioni. Per esempio il giudizio sul gruppo dei giovani ufficiali del 2° reggimento alpini (pp. 117 sgg.) si dimostrò completamente errato. Quasi tutti parteciparono infatti valorosamente alla lotta di liberazione sin dai suoi inizi”. [↩]