di Ilario Dittadi
Era molto diversa, allora, la piazza del mio paese. Vecchie case con i mattoni anneriti dal tempo, la bottega del tabaccaio che vendeva anche aringhe in barile e legumi secchi, quella del fabbro, l’osteria con la corte delle bocce. La strada maestra, bianca, tutta sassi e buche la tagliava a metà lasciando ai lati due slarghi sui quali, da sempre, si consumavano le rare rappresentazioni: la sagra di San Valentino, l’arrivo degli zingari con i loro cavalli, i cani, le frotte di bambini sporchi e bellissimi, le loro donne vestite con fogge insolite, strane, e che parlavano una lingua misteriosa.
E il cerchiaggio delle ruote dei carri, che il fabbro con i suoi garzoni eseguiva appunto sulla piazza, in data prefissata dimodoché tutto il lavoro fosse fatto in una sola volta, sempre in autunno. Non si può certo dire che anche quella non fosse una rappresentazione. Veniva scavata una buca non molto profonda che gli stessi garzoni avrebbero riempita d’acqua, vicino a questa accatastavano un gran mucchio di fascine sotto le quali si mettevano i cerchioni di ferro da arroventare. Al momento giusto, tra fiamme altissime e nugoli di faville i cerchi venivano tolti, adattati alle ruote e fatti girare sulla buca d’acqua che raffreddandoli li faceva aderire. Appositi chiodi, anch’essi predisposti, completavano l’opera di fissaggio.
Era così, allora, la piazza del mio paese, pensavo, mentre infilo la chiave nella serratura della portiera dell’auto appena parcheggiata su quella stessa piazza quarant’anni dopo. Laggiù una siepe d’erica, nell’angolo là in fondo la fontana da cui tante volte avevo bevuto a garganella e mi ero bagnato i vestiti giocando con quelli che erano i miei amici o compagni di scuola. Dal lato opposto, proprio dietro l’auto, la pesa pubblica, che lavorava molto, specie sul finire dell’estate con la raccolta delle barbabietole, sui carri delle quali mi divertivo a saltare abbrancando poi le redini degli animali che li trainavano, con il bonario consenso dei contadini e del pesatore. Com’è cambiata, adesso che l’attraverso per raggiungere l’ombra della pensilina del bar e osservarla con calma da uno dei tre o quattro tavolini posti all’esterno.
– Desidera qualcosa? – mi chiede sottovoce una bella ragazza dal corpo perfetto e dai lineamenti che mi ricordano qualcuno, forse suo padre, sua madre? Avrei voluto chiederle il nome e di chi fosse figlia, ma noto la sua espressione un po’ contrariata di chi si sente osservato e decido di non farlo. – Una birra ghiacciata, grazie – Accendo una sigaretta mentre constato con piacere che qualcosa di antico in quel mio paese, in fondo, è rimasto. La voce volutamente bassa della ragazza mi ricorda, infatti, il riposo pomeridiano di allora: un rito più che un’abitudine, ancora evidentemente conservato, e che non avevo notato attraversando la piazza. Nell’udire il fruscìo dei sandali trascinati dalla giovane donna che mi porta la birra mi giro, e nel farlo scorgo il foglietto di un annuncio funebre sul muro del bar, che prima non avevo notato. Leggo istintivamente il nome e l’età del defunto. Si tratta di un uomo di ottantadue anni, e quel nome non mi è del tutto nuovo, ho anzi la sensazione di dovermi ricordare qualcosa, che però mi sfugge. Cerco di far mente locale: non ci riesco… eppure devo! Rileggo più volte il cognome sapendo benissimo che quasi nessuno nei paesi del Veneto di quel tempo era conosciuto con il cognome, tutti o quasi, infatti, avevano un soprannome.
– Signorina – chiamo a mezza voce estraendo il portafogli.
– Le vado a prendere il resto – mi risponde qualche attimo dopo.
– Aspetti, senta, quell’uomo, quello del necrologio, lo conosceva?
– Di vista – mi risponde alzando le spalle. – Era malato da molto tempo, vedovo, viveva con una figlia sposata.
– Ma sa cosa facesse… che lavoro intendo?
– Da molti anni non lavorava più, ma un tempo, quand’era giovane credo che scavasse pozzi. Almeno così mi pare.
Ma certo, adesso ricordo, e traduco d’istinto il nome dall’italiano: Giovanni Battista, perché non ci avevo pensato prima! Tita per l’appunto: lo scavatore di pozzi. L’uomo, forse, più povero di tutto quel povero paese. Viveva con la famiglia in una casupola nel letto di un fiume deviato, e quando si scoprì che su quel sito esisteva un buon strato di sabbia da costruzioni si cominciò a scavare, e si scavò tanto e tanto fondo che la casupola di Tita finì con l’emergere come un promontorio da quegli scavi che ne lambivano ormai le fondamenta.
Il nuovo proprietario che aveva comprato il terreno per sfruttare la cava di sabbia intimò a Tita di andarsene, e se ne andò infatti, con la famiglia, in una baracca di legno che il Comune, povero anch’esso, aveva messo a disposizione. – Colpa sua – usava dire, ironico, mio padre, – non si deve nascere poveri a questo mondo. – ma non lo disse più da quando il maggiore dei miei fratelli gli rispose con altrettanta ironia: – E noi allora, in un mondo come questo cosa ci stiamo a fare?
Tita aveva scavato anche il pozzo di casa nostra. Cominciava col fare una buca circolare, e posato il primo tubo di cemento, vi si infilava dentro continuando a scavare sotto il tubo che lentamente si abbassava. Scavava anche per parecchi giorni con un badile a manico corto sovrapponendo mano a mano un tubo dopo l’altro finché l’acqua affiorante non lo ricopriva quasi per intero. Per far fronte al freddo trangugiava bicchieri di vino che lo riducevano letteralmente come uno straccio.
Io l’avevo osservato in quel suo lavoro da talpa, avevo anzi aiutato mio padre a tirare su il secchio pieno, dal quale ogni volta cadeva acqua e terriccio su quell’uomo alterandone le sembianze. Era minuto, umile, remissivo, proprio di chi è abituato a vivere di briciole e di comandi. Fu anche per questo, direi soprattutto per questo che quel giorno, in chiesa, Tita mi fece una grande impressione.
S’era sparsa voce in paese che il vescovo in persona avrebbe presenziato all’inaugurazione di una nuova ala dell’asilo, e che, con l’occasione, egli stesso avrebbe celebrato la messa e impartito la prima comunione ad un gruppo di bambini e bambine. Ben presto la cosa fu confermata dal parroco, che anzi, mise a soqquadro mezzo paese perché non si sfigurasse. – Se il signor vescovo si degna di venir fin qua, bisogna accoglierlo come si conviene – andava dicendo.
Io, allora, ero chierichetto, e a quel tempo, essere chierichetto, ritenevo non fosse affatto cosa da poco. In chiesa, pensavo, tutti quanti, ricchi e poveri, uomini e donne, grandi e piccoli devono starsene buoni, silenziosi ai loro posti, solo a noi chierichetti, oltre naturalmente ai preti era dato muoversi liberamente, entrare e uscire dalla sacrestia, salire sugli altari. Tutti posti, insomma, dove i normali fedeli non potevano andare. Ero anche considerato un buon chierichetto per il fatto che sapevo biascicare il latino (allora in uso nei riti religiosi), meglio di altri. Era questa la motivazione per cui ero stato scelto a servir la messa del vescovo, e ne ero fiero.
Il gran giorno venne. Tutto era stato ripulito, lisciato. tirato a nuovo. Mobilitati i cantori, i cappati, i ragazzi delle voci bianche, le “figlie di Maria”, le suore. Il parroco ci tempestò di ordini e di raccomandazioni. A me intimò perentoriamente, almeno per quel giorno, di non pulirmi il naso sulla manica della tonaca. Le suore si presero cura della sistemazione dei banchi sui quali avrebbero preso posto rispettivamente le bambine e i bambini della prima comunione.
Si fecero prove e controprove su ogni cosa che si sarebbe dovuta dire e fare in quell’occasione tanto importante. E, quel giorno, mentre l’attendevamo sull’altar maggiore, la porta si spalancò e il vescovo fece il suo ingresso preceduto dal cappellano crocifero. Era alto, austero, solenne, con la croce dorata che gli brillava sul petto. Avanzava lentamente benedicendo i due lati di folla assiepata in chiesa. Poi cominciò la messa. S’udivano le gravi parole del vescovo, dei preti, e giù, nella navata, un sommesso brusìo. Ad un certo convenuto momento il cappellano fa un cenno a me e ad un altro chierichetto: capiamo subito, ce l’avevano insegnato una dozzina di volte: si doveva andare a prendere le candele che i bambini tenevano in mano quale offerta per la chiesa. Seguiamo il prete giù per i gradini dell’altar maggiore e cominciamo la raccolta dalla destra, cioè dalle bambine. Noi due con le braccia tese e il cappellano che toglie di mano alle bambine le lunghe candele ornate di fiocchi di carta e ce le porge.
Nel primo banco le bambine erano decisamente ben vestite, una di loro in particolare ricordo che indossava un magnifico abito, largo nella parte inferiore, tutto nastri e trine e aveva in testa un velo con tante stelle ricamate. Anche le altre, chi più chi meno erano ben acconciate. Continuiamo a raccogliere candele di banco in banco; in ognuno vi erano cinque bambine. Soltanto sull’ultimo banco notai ch’erano in due: una era la figlia di Tita. Erano vestite male, erano semplicemente buffe, sembrava indossassero camicie da notte, e il pallore del volto accentuava ancor più le loro miserevoli condizioni. Non avevano velo, portavano un fazzolettino bianco sul quale era stata appoggiata una coroncina da rosario. Raccogliamo anche le loro candele e passiamo ai banchi dei bambini. Finito anche con questi, con le braccia cariche andiamo in sacrestia a riporle, e quindi, rimessa in ordine la cotta sgualcita, usciamo per tornare all’altar maggiore. Fu proprio allora, mentre salivo i gradini, che sento un uomo gridare forte : – Perchè l’avete messa sull’ultimo banco?
Il vescovo che stava officiando smette e si volta di scatto, tutti naturalmente guardiamo in quella direzione. Sgusciato attraverso la barriera d’uomini cui il parroco aveva affidato il compito di tenere indietro la gente, Tita, con gli occhi sbarrati, pallido come un morto, indicava verso la figlia. – Perché è povera e malvestita, è per questo che avete voluto nasconderla? – Gridava come un ossesso mentre in chiesa si era fatto un silenzio di tomba. Dopo qualche attimo di sbigottimento il parroco gli si avvicina di corsa intimandogli il silenzio. Per tutta risposta riceve una spinta che per poco non lo fa cadere.
– E invece io parlo – gridava – questa non è una chiesa è un mercato e noi non abbiamo soldi per andare al mercato.
Si avvicina alla figlia piangente, le toglie il fazzoletto di testa, butta la coroncina verso l’altar maggiore ed esce come una furia trascinando la bambina e seguito dalla moglie anch’essa in pianto dirotto. Del prosieguo di quella memorabile giornata non ho ricordi. Quel che rammento molto bene è che da quel giorno inventavo ogni scusa per non servir messa. Non lo feci più infatti.
Distolgo gli occhi dal cartoncino listato a lutto, finisco lentamente la birra, poi chiamo la ragazza:
– Mi farebbe un piacere grande?
– Certo, se posso – mi risponde.
– Il funerale di quell’uomo passa per di qua domani, vero?
– Si, il cimitero è laggiù dopo quella curva.
– Lo so – le dico mettendole in mano il resto dei soldi cambiati per pagare la birra.
– Se le lascio questi metterebbe un mazzetto di fiori sulla bara quando passa?
– Certamente, il fiorista è proprio qui all’angolo – mi dice un po’ sorpresa – Ma perché, lo conosceva?
– Sì – le rispondo, – aveva scavato anche il pozzo di casa mia.
La saluto, attraverso con un’ultima occhiata la piazza assolata e silenziosa, e risalgo in macchina.