di Alberto Cavaglion
La rubrica “letture” fa eccezione per la seconda volta e accoglie un saggio lungo. Il nostro amico Alberto Cavaglion riprende il tema del 16 ottobre 1943, la razzia del ghetto di Roma, per mettere in luce il dialogo che si sviluppa, per via diretta e indiretta, e procedendo secondo cronologie diverse, tra Umberto Saba, Giacomo Debenedetti ed Elsa Morante. “Un discorso che – scrive a un certo punto Cavaglion – oggi sembra più che mai remoto e inattuale”. Rileggendo testi entrati nel canone della letteratura italiana del Novecento, Cavaglion si confronta con almeno tre temi storiografici: l’antisemitismo in Italia; il mito dell’italiano “brava gente”; le responsabilità del Vaticano, ovvero di Pio XII, nella Shoah. E per affrontare quest’ultimo punto, Cavaglion convoca un quarto autore: Enzo Forcella. Queste pagine sono anche un invito a rivolgersi alle fonti per mostrare la complessità degli eventi, invece di aderire a una retorica piuttosto che a un’altra.
Quanto segue offre solo una parte degli argomenti (e dell'apparato di note) di Cavaglion, privilegiando lo scontro di punti di vista tra Umberto Saba e Giacomo Debenedetti, e la “quasi postilla” rappresentata dalla lettura delle pagine di Enzo Forcella. Il testo integrale del saggio (basato sull’intervento tenuto a Firenze il 17 gennaio 2013, in occasione del convegno internazionale Dopo i testimoni, Memorie, storiografie e narrazioni della deportazione razziale, promosso dall’Istituto Storico della Resistenza in Toscana) si può ottenere cliccando qui.
Quanta parte occupi la vicenda degli ebrei di Roma nella storia della deportazione razziale italiana è cosa nota. Buone ricerche hanno messo in luce le sembianze spettrali della città durante l’occupazione nazista, ma studiare il ruolo che il 16 ottobre 1943 ha avuto nella letteratura italiana, fino quasi a rappresentare un piccolo canone a sé stante, vuol dire sostanzialmente ripercorrere una conversazione a tre: Saba-Debenedetti, Saba-Morante, Debenedetti-Morante. Il vertice è costituito da Saba, che di luce propria o per specchiato sembiante condizionerà il cammino degli altri due. La triangolarità si riflette nei rispettivi lavori e corrispondenze epistolari, nei saggi (numerosi) che Giacomo Debenedetti ha scritto su Saba e in un (solo) densissimo saggio, che sempre Debenedetti ha scritto su Elsa Morante, la quale a sua volta ha dedicato un profilo fondamentale a Saba, “poeta di tutta una vita”.
La rappresentazione di Roma come immagine materna, Grande Madre, è antica come la storia della città, ma nel nostro caso l’intensità di rimandi intertestuali, consci e inconsci, lascia intravedere una tessitura che ruota intorno a una coppia dominante di temi, entrambi connessi alla fecondità: la maternità e la creatività della testimonianza (e della poesia). Sarà la Morante a portare a compimento l’intreccio di un leitmotiv, che prima di lei era stato per forza di cose confinato in una riflessione di mera critica letteraria. Con La Storia (1974) la scrittura si materializza nel lavoro di una levatrice ebrea, soprannominata Ezechiele: la narrazione della razzia nel ghetto di Roma, costruita a partire dallo schema offerto da 16 ottobre 1943, sarebbe rimasta fredda come il grembo della rana d’inverno nella poesia di Levi posta in epigrafe a Se questo è un uomo se non vi fosse stato il precedente confronto-scontro fra Debenedetti e Saba sull’ebraismo e sulla poesia come “grembo materno”.
Il grembo della poesia
Il saggio di Giacomo Debenedetti su Saba, che è di maggiore interesse per noi, reca già nel titolo il concetto della fertilità: Il grembo della poesia. Apparve sull’“Unità” il 1° settembre 1946 (intitolato precisamente Umberto Saba e il grembo della poesia, è ora raccolto in G. Debenedetti, Saggi, Mondadori, Milano 1999, pp. 1060 ss.).
Debenedetti aveva una singolare predilezione per le metafore. Maternità ed ebraismo (“l’oscura e sempiterna regione delle Madri”) sono sempre stati per lui due ambiti da cui ricavare un repertorio di forme e simboli, a partire dal discusso saggio su Svevo e Schmitz scritto poco dopo la morte dello scrittore triestino. […] Su questi motivi s’era avviata, fin dal primo loro incontro a Torino dopo la Grande Guerra, una polemica resa più sfuggente e aspra dalle rispettive vicende biografiche, ciò che per molti versi rende insoluto il rapporto di Saba, ma anche di Debenedetti, con la tradizione ebraica.
Ad aggravare le cose vi era stato fin dalle origini un secondo nodo destinato a rimanere insoluto. Al problema di stabilire con esattezza il significato che ha l’identità ebraica nella definizione dei personaggi di un romanzo (o dei versi di un poeta) si sommava il gioco delle parti e la conseguente commedia degli equivoci. Debenedetti era il critico, Saba il poeta. Debenedetti non aveva però mai nascosto a Saba la sua vocazione di narratore e Saba non aveva mai nascosto a Debenedetti i suoi dubbi circa le sue reali capacità di narratore. L’amico era tanto dotato di virtù critico-stilistiche (e dunque capace di essere lui stesso una specie di madre o levatrice della poesia del Canzoniere), quanto incapace di trovare in se stesso l’argomento adeguato per mettere a frutto le sue indubbie qualità di prosatore. Di qui il severo giudizio espresso da Saba a proposito delle prove giovanili di Debenedetti, i racconti Amedeo e Suor Virginia.
Il sommarsi di questi malintesi, biografici e interpretativi, riempie di tensione emotiva il dialogo già prima che in Italia scattassero le disposizioni razziali. I nodi verranno al pettine quando Saba e Debenedetti si ritroveranno a Roma all’indomani della liberazione di Roma e soprattutto all’indomani della prova più impegnativa di Debenedetti scrittore, 16 ottobre 1943.
Dal punto di vista della tradizione, nulla da eccepire: l’ebraicità si perpetua come sappiamo per via materna, ma nel saggio del 1946, in modi assolutamente nuovi e inaspettati, ebraismo e poesia di Saba sono tenuti insieme da questa metafora. La poesia nasce e si sviluppa per via materna, come nella biografia di Saba. Debenedetti attribuisce ai versi del poeta triestino la bontà del latte materno. Lo fa in modo sottilmente allusivo e la cosa non sfugge al suo interlocutore. Subito dopo aver letto, Saba non ha difficoltà ad ammettere che la metafora adoperata dall’amico fosse legata a “quella cosa dolorosa che è l’ebraismo” (G. Debenedetti, Lettere di Umberto Saba, “Nuovi argomenti”, 41, nov.-dic. 1959, p. 27, lettera del 3 settembre 1946).
Saba […] non ha difficoltà a riconoscere che l’ebraismo, come la poesia, sia per lui compensazione e risarcimento. […] La poesia viene sempre in soccorso alle mancanze della vita. Per Saba, secondo Debenedetti, “la poesia tiene il posto di colei che passava una mano sul ginocchio sbucciato, e rimetteva in piedi il camminatore insicuro”. La poesia contraccambia la fedeltà di Saba, “che le depone in grembo l’ansia del proprio vivere” (Debenedetti, Umberto Saba e il grembo della poesia cit., pp. 1064 e 1069).
Il saggio del 1946 tocca l’apice dell’incontro-scontro di Debenedetti con Saba. La tenzone su temi ebraici era di lunga data e non si può prescindere anche da altre precedenti occasioni di dissidio. L’origine della controversia va fatta risalire alla primavera del 1924, quando il giovane critico torinese aveva preparato cinque conferenze sui Profeti, e le aveva lette presso la Comunità ebraica di Torino tra il marzo e l’aprile. Debenedetti aveva scritto a Saba perché si interessasse per fargliele ripetere presso il Circolo giovanile ebraico di Trieste. Debenedetti teneva molto a queste sue conferenze sui Profeti, mentre Saba era di diverso parere e cercò di dirottare l’amico verso altri temi. Debenedetti era affascinato dal substrato rabdomantico della Scrittura profetica: dal dono della preveggenza trasse alimento per la sua attività di critico letterario e qualcosa della lezione dei Profeti si percepisce soprattutto in 16 ottobre 1943, una sorta di secolarizzazione del messaggio originario, che s’incarna, all’inizio del racconto, nella figura simbolica della donna scarmigliata e vestita di nero, Celeste, annunciatrice di sventura come sarà Vilma la gattara ne La Storia di Elsa Morante.
Saba, memore di quelle lontane discussioni, diffidava verso chi si dimostrava così palesemente travolto da un afflato di trascendenza e dunque riprende a inquietarsi quando legge le pagine che l’amico inizia a scrivere sulla questione ebraica nella Roma occupata. Saba non credeva che esistesse uno specifico “colore” nella storia dell’ebraismo, la dimensione in cui si muoveva era poeticamente universalistica, avversa a ogni forma di separatismo “nazionale”. Non solo l’esordio di Debenedetti sui Profeti lo aveva preoccupato non poco, ma anche l’insistenza sull’ebraismo di. Svevo-Schmitz non lo aveva mai convinto […]. […] Ridotta all’essenziale la contrapposizione verteva sul fatto che Saba detestava ogni forma di retorica, ogni declamazione oratoria svuotata di concretezza. A Saba, come del resto anche a Montale (per Svevo), del metodo-Debenedetti non piaceva il “virtuosismo inutile”, l’importanza attribuita al mito (elemento che invece non dispiacerà alla Morante).
I nodi di questa controversia verranno a galla non tanto quando Giacomo Debenedetti pubblica per la prima volta 16 ottobre 1943, quanto in seguito alla pubblicazione del coevo e gemellare Otto ebrei, apparso in tre puntate nel settembre 1945 sul “Tempo” (ora in Debenedetti, Saggi cit., pp. 69 ss.). Le scorciatoie scritte da Saba mentre uscivano questi due scritti di Debenedetti rappresentano una specie di controcanto, spietato e smitizzante, della versione dei fatti fornita dall’amico. […]
Un’ultima considerazione generale si rende necessaria. […] A Roma Saba arriva dopo la liberazione, da Firenze, e trova ospitalità proprio in casa di Debenedetti (“Posso testimoniare di averle viste nascere pagina dopo pagina: me le leggeva giorno per giorno, ne godeva come di un’ispirazione nuova e anche per lui sorprendente” [Debenedetti, Lettere di Umberto Saba cit., p. 1 (ora anche in Saggi cit., p. 1091)]). Nel 1945, in una delle sue poesie più famose, Saba scrive di aver ritrovato nella capitale liberata la quiete che aveva perduto (“Avevo Roma e la felicità/ Una godevo apertamente, e l’altra/ tacevo per scaramanzia”). Il Saba romano del 1945-1946 risente del clima euforico dell’immediato dopoguerra (si pensi all’apertura de L’Orologio di Carlo Levi e al ruggito dei leoni che s’ascoltava per le strade di Roma in quei giorni), lo stesso clima atmosferico che volge al sereno l’animo di un altro cosmico pessimista, matrilinearmente ebreo, Arturo Carlo Jemolo, pure lui testimone oculare del 16 ottobre.
Di qui una nostra seconda, provvisoria conclusione. Il temporaneo, effimero ottimismo di Saba stride con lo “scandalo” della storia, denunciato da chi, come Debenedetti e Morante, era stato sfiorato dalla tragedia.
Libri “fatali”?
A osservare le cose più da vicino si dovrà adesso aggiungere una precisazione. È vero che, nella storia del rapporto tra letteratura e Shoah in Italia, la linea prospettica di Se questo è un uomo e la linea Saba-Debenedetti-Morante siano divergenti. Profetismo, ascendenze matrilineari, miti e mitologie non appartengono al mondo di Primo Levi, il cui rapporto con l’ebraismo (e anche con la poesia) fu più razionale (patrilineare?). In verità le due strade hanno avuto, almeno all’inizio, fra 1946 e 1947, proprio in Umberto Saba un punto di convergenza, il che, indirettamente, serve a illuminare la ragione del dissidio tra Saba e Debenedetti.
Dalla lettura della prima edizione di Se questo è un uomo Saba era rimasto a tal punto colpito da adoperare per quel libro una parola che gli capitava raramente di adoperare: “fatale”[1]. Oggi sappiamo che ebbe l’ardire, sconosciuto a Giacomo Debenedetti, di elevare protesta nei confronti di Giulio Einaudi, benemerito se non addirittura benedetto per aver stampato il Canzoniere nel 1945, persino in carta preziosa azzurrina, ma reo di non aver accolto il libro di Levi nel 1947[2].
Che cosa intendesse Saba per “fatalità”, ossia sulla poesia come vocazione, è abbastanza semplice da dire: in proposito vi sono infinite testimonianze che riconducono di nuovo alla fatalità della nascita all’origine della vita. I poeti sono i testimoni dell’estremo: loro malgrado sono “vocati” a poetare (come i “salvati” lo sono per testimoniare). Gli scrittori che valgono qualcosa, amava ripetere Saba, non vorrebbero scrivere e lottano contro l’impulso che li spinge a prendere la penna in mano, ma non possono farne a meno. Sono chiamati dal destino. Su questo tema della letteratura come predestinazione c’è molta aneddotica, di prima mano e di ottima qualità. […]
Sappiamo che, per Saba, Debenedetti aveva sempre faticato a trovare il suo “argomento fatale” (si veda Debenedetti, Lettere di Umberto Saba cit., p. 15). Non si tratta di una mera coincidenza lessicale. Il 3 novembre 1948, dopo aver letto Se questo è un uomo, Saba si rallegra con Primo Levi per aver scritto “più che un bel libro, un libro fatale”. E soggiunge: “Qualcuno doveva ben scriverlo: il destino ha voluto che questo qualcuno fosse lei”[3].
Non disponiamo, al momento, di giudizi espliciti su 16 ottobre 1943. Si conosce soltanto un cenno, contenuto nella lettera del 3 settembre 1946, viziata però dal fatto che Debenedetti ha appena pubblicato proprio l’articolo Il grembo della poesia. Saba ne è talmente lusingato da sorvolare sugli antichi dissapori ebraici. Così, più per captatio benevolentiae che per intimo convincimento, scrive poche righe alquanto enigmatiche:
Un’altra cosa tua – assai bella; quasi un capolavoro – ho riletto in questi ultimi giorni: 16 ottobre 1943. Ho detto “quasi” per un solo motivo; l’imitazione della descrizione della peste di Manzoni vi è troppo evidente. Ma forse m’inganno; e forse non è un motivo. Forse anche è una grazia. (Debenedetti, Lettere di Umberto Saba cit., pp. 27-28.)
Motivo o grazia? Sincerità o adulazione? I dubbi di Saba su Debenedetti narratore persistono anche dopo il secondo conflitto mondiale. Certo è che 16 ottobre 1943, due anni dopo la sua apparizione, continua a essere considerato da Saba “quasi” un capolavoro, non un libro “fatale” come Se questo è un uomo. Libro quest’ultimo, andrà pur detto, il cui valore estetico ha lasciato indifferente Giacomo Debenedetti per tutto l’arco della sua lunga e pluridecennale attività di critico.
Topicamente spaesato
Saba osservava nell’astratto profetismo di Debenedetti una insensibilità inadatta a comprendere il mescolarsi dell’odio e dell’amore e del sangue. Nelle Scorciatoie il duello si apre quasi subito, sul finire della prima serie, con la memoria di una gaffe, imperdonabile:
“Voi triestini – mi diceva ieri Giacomo Debenedetti – siete veramente figli del vento. È per questo che amate tanto moralità e apologhi, favole e favolette. È perché sei nato nella città della bora che scrivi Scorciatoie”. Quanto piacere mi avrebbe dato un giorno questa sua favoletta! Che buon augurio ne avrei tratto per il mio amico e per me! Ma oggi … Ma dopo Maidaneck! (Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini, Scorciatoia 26; rimando all’edizione contenuta in Tutte le prose, a cura di A. Stara, Mondadori, Milano 2001; si veda a proposito anche la Scorciatoia 154.)
A voler attribuire a queste righe valore di principio, verrebbe spontaneo dire che, nella leggerezza con cui Debenedetti adopera l’espressione “figli del vento” si cela un capovolgimento dei ruoli. È il poeta a precedere il critico nella comprensione di un dato che a noi più d’ogni altro interessa: dopo Maidaneck, oggi diremmo dopo Auschwitz, il significato delle parole e dunque anche della letteratura non può essere lo stesso di prima.
Saba contesta a Debenedetti l’incapacità di cogliere “il superstite amore” là dove invece rimane schiacciato dalla “materia greggia per una o due terzine dell’Inferno di Dante”. Saba non si limita a osservare le cose da un punto di vista superficiale, produce esempi concreti facendo un uso meno retorico e nebuloso delle testimonianze disponibili. Il più clamoroso esempio, che potrebbe fare gridare allo scandalo, riguarda l’episodio di Celeste Di Porto, la “Pantera nera”, la spia di piazza Giudia, cui era stato dedicato un famoso opuscolo (che vedo oggi trascurato anche dagli storici più avveduti) uscito negli stessi giorni di 16 ottobre 1943 (si veda la Scorciatoia 131, da confrontare con l’opuscolo, rarissimamente citato e di non facile reperibilità, Pantera nera: eri la spia di piazza Giudia, Stab. Tip. della s.a. Il giornale d’Italia, Roma 1945).
Saba ci ricorda che anche per Celeste Di Porto è necessaria una sospensione del giudizio, tenuto conto che avevano nutrito odio e amore per lei tanti giovani ebrei romani, come conferma la serenata a lei dedicata: “Stella d’Oriente ne hai fatti piangere tanti… Voglio cantare qui una serenata fino che Stella del porto viene ammazzata”. La storia di Celeste, scrive Saba in polemica con Debenedetti, dimostra che “senza una goccia di superstite amore, non si fa nessuna poesia, nemmeno una canzonetta popolare di odio” (Scorciatoia 131).
Sono le circostanze della vita, che avendolo fatto soffrire più di Debenedetti, portano Saba a “capire (amare) più degli uni e degli altri”. La sua perifericità di triestino, ma soprattutto di “misto” (“Solo mia madre era ebrea”, Scorciatoia 130) lo portano a criticare frontalmente il radicalismo a priori di Otto ebrei, in una precedente Scorciatoia, la 129, forse la più famosa:
Gli ebrei tedeschi amavano la Germania; ma non erano tedeschi. Tanto più i loro pazzi ospiti (sotto ogni pazzo – dice, una volta tanto, bene, il Talmud – c’è un cattivo) avrebbero dovuto tenerli di conto; coltivarli – per così dire – artificialmente. Molto, per loro natura, vitali; e innamorati del paese – ugualmente vitale – nel quale erano nati ma, in pari tempo, stranieri ad esso; erano, per definizione, i medici indicati al caso. E forse, se i tedeschi non fossero stati così malati all’inizio da respingere qualunque medico e qualunque medicina – li avrebbero impediti d’impazzire del tutto.
Gli ebrei italiani non potevano fare all’Italia (in quanto ebrei) né bene né male. Mediterranei come la maggioranza, viventi in Italia da secoli o da millenni; c’è – con qualche eccezione – meno diversità fra un italiano ebreo e un italiano non ebreo, che non, p. es., fra un bresciano e un calabrese. Una sfumatura etnica di più, non è che una nota di più di colore, in un paese che (etnicamente) somiglia al tappeto “scorciatorizzato” in quattro versi di Ungaretti, nel quale ogni colore si adagia e si espande negli altri colori “per essere più solo se lo guardi”.
Questa scorciatoia non è per te, lettore della NUOVA EUROPA, che certamente non ne hai bisogno. La sua punta – se punta ha – è contro OTTO EBREI, il famoso libro – topicamente spaesato – del mio amico Debenedetti.
Difficile spiegare, in questa scorciatoia, in che cosa consista “la punta”, di tutte la più appuntita, contro l’amico, ovvero in che cosa fosse “topicamente spaesato” Otto ebrei. Un giudizio per molti versi criptico, sul quale i lettori delle Scorciatoie hanno sorvolato. Che cosa intendesse Saba per “topicamente spaesato” è arduo dire, ma di certo il suo desiderio di sentirsi topicamente a suo agio, integrato nella storia d’Italia come un calabrese o un bresciano è un aspetto da ricondurre, di nuovo, all’antica tenzone con Debenedetti, da sempre sostenitore di una linea di distinzione tra il personaggio-ebreo e il personaggio-uomo. Qui la distinzione da fare è tra una visione ancora pienamente ottocentesca di emancipazione-integrazione, che Saba condivideva in modo non diverso da altri ebrei appartenenti alla sua generazione e pienamente convinti di una visione unitaria della condizione ebraico-italiana e una visione incline alla separatezza che era stata tipica di una generazione più giovane, largamente compromessa con il fascismo. A parole, in Otto ebrei, Debenedetti non chiarisce del tutto il suo pensiero: oscilla fra una concezione separatistica dell’ebraismo e il suo inevitabile superamento in chiave universalistica. È in questa oscillante vaghezza che Saba individua l’anomalia topografica.
La Scorciatoia 129 è importante anche per altre ragioni, che qui non si possono trascurare. Il dissidio Saba-Debenedetti è all’origine di due diversi modi di intendere la storia dell’antisemitismo fascista. I due amici, su questo specifico punto, erano agli antipodi.
A differenza di Debenedetti, Saba sosteneva che in Italia non vi era stato bisogno di difendersi dall’antisemitismo: “Prima di tutto, non c’è mai stato in Italia – tolti gli anni dell’agonia del fascismo – un bisogno di difendersi da queste cose” (Scorciatoia 130, e si veda anche la Scorciatoia 105 su Mussolini “carcerario” ma non antisemita)[4]. Saba contesta poi l’idea che nel nostro paese si debba parlare di una separatezza rigida, “noi-voi”, fra ebrei e italiani. Prima e dopo il fascismo la separatezza non è giustificata dalla storia degli ebrei, “mediterranei come la maggioranza”. In Otto ebrei pure Debenedetti si era espresso a favore di un umanesimo universalistico, auspicando la fusione di ogni differenza in nome dell’eguaglianza fra esseri umani, ma Saba al solito dubitava della sincerità dell’amico e non è facile dargli torto. Sotto tanta enfasi Saba temeva, come sempre, l’esercizio virtuosistico, dunque l’astrattezza. Non erano timori infondati, almeno a giudicare dal modo con cui in Otto ebrei Debenedetti enfatizza, per esempio, con un esercizio retorico guerresco e tardo-nazionalistico, quelle differenze che in teoria avrebbe voluto abolire (“Soldato Coen… Soldato Levi… Soldato Abramovic…” [Giacomo Debenedetti, Otto ebrei, ora in Saggi cit., p. 88]).
Consapevole di queste divergenze, Saba procede a colpi di esempi tratti dalla sua esperienza quotidiana: per chiarire meglio le idee a se stesso e convincere l’amico dei suoi errori Saba cerca di non lasciarsi travolgere da suggestioni letterarie o tanto meno mistiche. Nel contrasto fra retorica e realismo tende a far prevalere i fatti sull’immaginazione.
Un ulteriore esempio viene dalla Scorciatoia 75. La scorciatoia s’intitola “Un processo razziale” e descrive il meccanismo perverso attraverso il quale un giudice militare condanna un ufficiale reo di aver sposato nel 1942 “una signorina ebrea”. Il processo, scrive Saba, durò cinque minuti e dopo aver letto la sentenza il giudice battendo una mano sulla spalla del giovane imputato, gli disse: “Non hai fatto niente di male. Mi hanno detto invece che tua moglie è molto bella. Adesso ritorna subito da lei; uno di questi giorni sarai richiamato; e saprai la tua destinazione”. La conclusione va, come sempre nella direzione opposta a quella che è diventata negli ultimi anni vincente e cioè la linea-Debenedetti, delle lagrime e del sangue di Campo di ebrei. L’anticonformismo di Saba si manifesta anche in questa sua apologia, potremmo dire, del Bravo italiano: “Se il mio raccontino vuole, malgrado tutto, dimostrare qualcosa, dice che noi italiani siamo ancora – con eccezioni tanto più vergognose quanto più eccezioni – uno dei popoli migliori della terra” (Scorciatoia 75).
[…]
Nelle braccia della Grande Madre
[…]
La narrazione del 16 ottobre, almeno da due decenni a questa parte, è preda di una torsione polemica che l’ha prosciugata, nel senso che di letterario ha serbato assai poco. Dalle sponde manzoniane e ancora “profetiche” del 1944, quando Giacomo Debenedetti faceva risuonare l’epos arcaico del gergo giudaico-romanesco alla vista dei soldati tedeschi (“Oh Dio, i mamonni” [Debenedetti, 16 ottobre 1943, in Saggi cit., p. 44]), in pagine che hanno commosso un’intera generazione almeno quanto le strazianti descrizioni del Ghetto lasciateci da Elsa Morante tre decenni dopo (“C’erano molte centinaia di pupetti e ragazzini, per lo più riccetti, con gli occhi vispi” [La Storia, Einaudi, Torino 1974, p. 59]), ci si è attestati lungo le rive di una fredda questione di politica internazionale, gravida solo di acide polemiche e rancori. Il silenzio di Pio XII di fronte a quei vagoni riempiti sotto le sue stesse finestre e le variabili connesse agli alti e bassi dei rapporti diplomatici fra Stato d’Israele e Vaticano esauriscono da tempo, nel bene come nel male, ogni nostro discorso pubblico sul 16 ottobre.
Il libro che ha segnato la svolta fra la prima e la seconda fase a me sembra La parola ebreo di Rosetta Loy (Einaudi, Torino 1997), contro la cui impalcatura ideologizzante ha fatto in tempo a reagire Enzo Forcella, ultimo testimone oculare della razzia. La metafora di Roma come Grande Madre, nel 1943-1944, ha più di un volto. Nella Roma di quei giorni non c’era solo il richiamo, per la Ida della Morante, della stalla materna, dove si ascoltava una nenia bassa e sonnolenta simile a quella con cui “le madri ninnano le creature o le tribù si chiamano a raccolta nella notte”. Roma era anche la Grande Madre dei conventi e dei monasteri trasformati in luoghi d’asilo:
Soprattutto dopo il tramonto, quando il coprifuoco toglieva di mezzo i rari passanti e il transito degli ancora più rari veicoli, sull’intera zona scendeva una coltre di solitudine e di silenzio. Possiamo immaginare il brivido di paura e al tempo stesso, di inconfessato sollievo che attanagliava i rifugiati, se a qualcuno di loro accadeva di poter gettare uno sguardo su quel panorama di desolazione. Erano al tempo stesso dentro e fuori la bufera, nelle braccia di una Grande Madre, come in un intangibile témenos.
A scrivere così è appunto Enzo Forcella (La Resistenza in convento, Einaudi, Torino 1999, la cit. qui sopra a p. 77) anch’egli matrilinearmente ebreo come la Morante e Saba, e che riprendiamo, sia pure velocemente, sul finire di questa nostra esposizione. La Grande Madre che ci ha descritto nel suo diario postumo La Resistenza in convento è la Roma dei collegi e seminari pontifici, case parrocchiali, ospedali gestiti da enti religiosi, associazioni ecclesiastiche, catacombe, conventi femminili, dove molti ebrei sopravvissuti alla razzia del 16 ottobre trovarono salvezza (fra i tanti, Raniero Panzieri, per rimanere nel campo della matrilinearità ebraica). L’elenco è lungo e Forcella ce lo fornisce, dettagliatissimo. Vissero i mesi dell’occupazione nelle braccia di quella Grande Madre Giorgio Falco e Giorgio Levi Della Vida, per non dire di tre classi dirigenti che lì trovarono riparo: quella del pre-fascismo, quella del ventennio mussoliniano e quella in formazione che assumerà il potere dopo la Liberazione. Tutti giocavano a non sapere. Il Vaticano fingeva di non nascondere nessuno, gli antifascisti, a liberazione avvenuta, fingeranno di non essere stati mai in convento. Militari fuggiaschi, prigionieri inglesi e americani, ebrei, generali e ministri di Badoglio, dirigenti dei partiti antifascisti, sindacalisti, alti burocrati, principi, grandi industriali, mogli di industriali, giornalisti, scrittori, vecchi gerarchi.
È singolare quanto sia poco conosciuto questo libro di Forcella e assai poco utilizzato in questa ultima stagione di ricostruzioni, spesso affrettate, della politica vaticana durante l’occupazione tedesca. L’autore è stato uno dei più noti giornalisti, già collaboratore del “Mondo” di Pannunzio, di “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone e fu, dalla fondazione, una delle firme di punta di “Repubblica”. L’oggetto principale del libro è la ricostruzione della politica borderline della Santa Sede, la dissimulazione onesta con cui fu possibile salvare molte vite umane, ma un capitolo intitolato “Sotto le finestre di Pio XII” (La Resistenza in convento cit., pp. 98 e ss.) è un utile complemento alle cose che si sono dette qui a proposito di Debenedetti […].
[…]
Sull’azione gappista di via Rasella, La Resistenza in convento contiene pagine molto interessanti, ma è sulla deportazione del 16 ottobre, che Forcella si distingue, prendendo le distanze da una ricostruzione di maniera che sul finire degli anni Ottanta stava iniziando a prevalere su ogni altra. Forcella polemizza soprattutto con La parola ebreo. Forcella critica la frase di Rosetta Loy, nella quale la scrittrice dice che avrebbe desiderato veder comparire Pio XII “bianco e ieratico alla stazione di Trastevere per mettersi davanti al convoglio fermo sul binario e impedirne la partenza, così come era apparso tra la folla il giorno del bombardamento di San Lorenzo”.
Il capitolo sul rastrellamento degli ebrei ne La Resistenza in convento è assai breve, ma, come La Storia di Elsa Morante, possiede un grande valore letterario, a partire dall’incipit, con quella descrizione della telefonata che all’alba del 16 ottobre sveglia la principessa Enza Pignatelli Aragna Cortes. Un’amica la informava che i tedeschi stavano arrestando tutti gli ebrei. Leggendo, viene in mente il non diverso racconto di Vilma della Morante, le voci raccolte dalla Signora (ivi, pp. 93-94). Qui troviamo raccontata la corsa in macchina della nobildonna, per avere udienza dal Pontefice, ma prima la deviazione nella zona del ghetto per constatare di persona la veridicità della telefonata. Pagine di grande intensità sono anche quelle dedicate alle ragioni che portarono in extremis, forse per un superiore intervento vaticano al salvataggio di 253 persone rastrellate, per lo più “mezzi ebrei” come erano Forcella, Morante e Saba. Un episodio di cui anche oggi vedo che non si parla quasi mai.
Forcella, non avendo come Saba consuetudine con il grembo della poesia, guardava essenzialmente al dibattito storiografico e politico. Forcella denuncia l’unilateralismo, prevede con lucidità gli irrigidimenti che stanno per affacciarsi all’orizzonte nelle ricostruzioni del 16 ottobre.
Con l’intuito storiografico che lo distingueva si spinge più in là di quanto non abbiano fatto storici convinti che vi sia stato soltanto il silenzio del papa. Forcella, con parole di una semplicità disarmata e disarmante, inaugura un fronte per la ricerca storiografica. “Fantasia per fantasia”, ironizza Forcella, “si potrebbe osservare che alla stazione di Trastevere avrebbero potuto esserci anche gli uomini del Gap o di qualche altra squadra della resistenza armata, per bloccare con uno di quei loro arditi e spericolati colpi di mano la partenza dei vagoni piombati”. Invece il 16 ottobre pomeriggio il Cln era riunito per uno dei suoi periodici incontri clandestini. Nel corso della riunione si parlò soltanto di altre questioni politiche “evidentemente ritenute più importanti” (ivi, pp. 103-104).
Se tutti sapevano dell’invasione del ghetto e degli ebrei ammassati nel palazzo dell’ex Collegio Militare, perché a nessuno venne in mente di dire qualcosa, formulare una protesta a nome delle forze antifasciste per il barbaro rastrellamento del ghetto. Come spiegare tutto ciò? La risposta di Forcella è più di una ipotesi di lavoro: “Questa indifferenza rientrava nella generale sottovalutazione della immane tragedia ebraica che caratterizza tutta la vita pubblica italiana sino alla fine della guerra e oltre” (ivi, p. 94).
Note
1 Il carteggio Levi-Saba è ora disponibile in appendice a Massimo Bucciantini, Esperimento Auschwitz, Einaudi (coll. “Lezioni Primo Levi”, 2), Torino 2011, pp. 159-161.
2 Walter Barberis, Primo Levi e un libro “fatale”, in Atlante della letteratura italiana, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, vol. III, Dal Romanticismo a oggi, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2012, p. 754 (lettera di Saba a Giulio Einaudi del 26 ottobre 1948).
3 Bucciantini, Esperimento Auschwitz cit., p. 161.
4 Come Primo Levi, anche Saba era attratto dalla descrizione antropologica del carattere dell’Italiano. Per un confronto con le posizioni di Levi sull’antisemitismo fascista mi permetto di rinviare al mio Primo Levi, il 1938, il fascismo e la storia d’Italia, in Cultura della razza e cultura letteraria nell’Italia del Novecento, atti del convegno (Roma, 13-14 novembre 2008), a cura di Sonia Gentili e Simona Foà, Carocci, Roma 2010, pp. 213-218. Sul significato e la lunga durata della cultura liberale rinvio alla prima parte dei saggi raccolti nel mio Nati con la libertà. Dizionario portatile dell’ebraismo contemporaneo, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2012.
redazione sito sAm dice
Segnaliamo l’uscita del volume “Dopo i testimoni. Memorie, storiografie e narrazioni della deportazione razziale”, a cura di Marta Baiardi e Alberto Cavaglion, Viella, Roma 2014 (http://www.viella.it/libro/831) che contiene gli atti del convegno fiorentino del 2013 e naturalmente anche il contributo di Alberto Cavaglion che noi abbiamo presentato in anteprima.
vitaliano freguglia dice
si impara molto. bene autore e sito.