di Carlo Freguglia
Passata l’estate, lasciato il fico, il nostro amico Carlo Freguglia continua a tenerci al corrente delle sue letture. Questa volta ci parla di Nicola Gardini, I Baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana (Feltrinelli, Milano 2009). L’articolo è già apparso su “el Campanon. Rivista Feltrina”, a. XX, n.s., 31 (giugno 2013), pp. 56-60; ringraziamo la direzione della rivista che ci ha gentilmente concesso di riprenderlo.
Non va mica bene segnalare un libro a quattr’anni e passa dalla sua uscita. Salvo che ne sono venuto a conoscenza poche settimane fa. L’ho visto citato in una filippica contro un ex sindaco di Venezia. Per mia fortuna, e a mia parziale scusante, è stato ristampato in edizione economica proprio quest’anno.
Il libro parla parecchio di Feltre. Specialmente della sua università per antonomasia, vale a dire la sezione staccata di un istituto milanese nato sulle ceneri della Bocconi lingue, fiorita in cittadella or sarà mezzo secolo grazie agli auspici congiunti del professor Silvio Baridon e dell’onorevole Leandro Fusaro. L’unica vera, quella che, oltre a produrre laureati in gran copia, ha generato sulle principali vie d’accesso al borgo, grazie a degli amministratori più entusiasti che lungimiranti, una specifica segnaletica in bandone (città universitaria). Un’università che da qualche anno ha chiuso baracca e burattini ma, grazie a dio, non la biblioteca. Cosa ne sia della segnaletica vi saprò dire.
Ho comprato il libro di Gardini aspettandomi un libro-documento, una specie di diario-requisitoria che denunciasse le magagne dell’università in Italia, un complesso di cose con cui ho il dente avvelenato. Ma come ci spiega Gardini “Noi diciamo che leggiamo storie, invece non leggiamo che trame, cioè un racconto imperfetto e deficitario” (p. 158). C’è chi assicura che le trame, diversamente dalle storie, sono in numero finito; meglio, pochissime. Non saprei dirvi se siano proprio sette; sette e non una di più, come ha sostenuto di recente Christopher Booker (The seven basic plots. Why we tell stories, Continuum International Publishing Group, London-New York 2004). Se stiamo a quelle sette la trama del libro di Gardini appartiene alla classe in cui ricadono Cenerentola, il Brutto anatroccolo, Eliza Doolittle e Clark Kent.
Booker l’ha nominata Rags to Riches. Noi vediamo una persona comune, trascurata da tutti come degna di scarsa considerazione, che improvvisamente muove verso il centro del palcoscenico, e si rivela come del tutto eccezionale (p. 51). Di storie con questo schema, afferma Booker, ce ne sono un’infinità. Mi terrò a Cenerentola, come universalmente nota. Cenerentola ha anche un valore documentario? Come no? Per suo tramite possiamo sapere quali erano i servizi imposti alle massere del ‘600, di quali attrezzi fossero dotate le cucine, le differenze in materia di vitto, alloggio e guardaroba tra padrone e collaboratrici domestiche, eccetera.
Lo stesso valga per l’università ed i suoi manovratori nel libro di Gardini. Se ne parla diffusamente, ma è contorno. Sono storie, non trama. La trama è di come un valente giovane studioso italiano forte di un dottorato ottenuto a New York, pienamente soddisfatto del suo posto di insegnante di latino e greco in un liceo milanese, passi attraverso sette anni di mortificazioni tra Palermo, Firenze, Salerno e Feltre (lenite soltanto da qualche fugace ritorno a New York) solo per essersi lasciato tentare dalla carriera universitaria (raggruppamento L-FIL-LET/14).
Una vita perduta? La cronaca di uno scacco?
Nossignore: nella seconda metà degli anni 2000 i suoi cospicui titoli scientifici gli varranno un posto di professore di letteratura italiana ad Oxford, Keble College. Le notizie su usi e costumi vigenti nell’università italiana, chiquerazo letterature comparate, non possono mancare e di fatto non mancano, ma sono somministrate secondo le esigenze della trama. Altri saprà valutarne la pertinenza.
Dicevamo di Feltre. A Feltre Gardini arriva nel 2003 come ricercatore incaricato. Ci arriva con una valigia di perplessità. Gli ordini sono ordini e non si discutono. Sta di fatto che si trattava di sede piuttosto secondaria che staccata, senza reputazione (“non presentava l’attrattiva del prestigio” p. 116). Il milanese Gardini può consolarsi solo col fatto che era più vicina (ed economica) di Palermo. Giusto un meno peggio.
Salvo che tanto fu vedere Feltre che innamorarsene. “Di Feltre mi piaceva tutto” (p. 119). Nell’ordine: la tratta ferroviaria, non veloce, ma pittoresca, con Piave blu, monti e boschi. Gli studenti: un po’ crudetti, ma gentili ed amichevoli. L’albergatrice: di temperamento affabile, cerimoniosa con i clienti di qualità. La trattoria Aurora: buona per cucina e prezzi. Il libraio: un libraio “bravissimo” dagli occhi azzurri. Il personale di segreteria: serio e volonteroso, tutt’altra cosa dagli amministrativi palermitani, lavativi e strafottenti. Infine una collega (Nora Capello nel romanzo): ben avvertita da subito dei meriti singolari del nuovo docente. Non basta. Colta, ricca di signorilità, generosità, umanità (p. 118). Feltre insomma è insieme una rivelazione ed una mano santa che sana le piaghe. Stop alla piccozza di acciaio ceruleo che ti ha sfiancato per anni. Si tira il fiato finalmente.
In tutte le trame tipo Cenerentola, prima che arrivi il figlio del re con la scarpa spaiata a sciogliere il groppo raggruppato, c’è la fata buona che ti regala il ballo a corte, con carrozza, cavalli, gualdrappe e palafrenieri. Un anticipo omeopatico della felicità perpetua in agguato dietro l’angolo.
«A Feltre, una volta chiamato, avrei comprato casa, mi dicevo. La sera, dopo cena, passeggiavo per le antiche vie, nell’aria fredda e ammiravo i palazzi e fantasticavo. Guardavo attraverso le imposte scostate e dagli alti soffitti cercavo di immaginare il resto. E mi domandavo: “quanto costerà una casa così?”». (p. 121)
Il titolo, Baroni (al plurale) è giusto se stiamo alla fiaba di Cenerentola. Le sorellastre sono due. Con la matrigna (quando c’è, e nella versione di Felice Romani non c’è) fanno tre. Nel romanzo un po’ meno. Il villain in realtà è uno solo. Gli altri sono comparse, o, se vogliamo restare in ambito palermitano, pupi manovrati o giocattoli vanesi del destino.
Il villain si chiama Carmelo Corona. Ecco un rapido elenco delle sue caratteristiche. Il suo nome “è una specie di marchio di fabbrica”. “Un uomo di potere”. “Uno che ha la mappa degli atenei italiani davanti agli occhi dalla mattina alla sera”. Un palermitano che, nonostante sia rettore in una università del nord, mantiene e coltiva rapporti strettissimi con Roma e Palermo (p. 24). Non basta dire rettore. Si tratta di presidente nato compulsivo. Presiede di tutto, comitati tutti-frutti, premi letterari, teatri, perfino “un istituto bancario”. Un luminare delle letterature comparate? Dipende dai punti di vista. Per dire del wattaggio del suo inglese, mi è uno che pronuncia bleak come se fosse scritto black, con tanti saluti a Dickens. Peggio. In un ristorante di New York si rivela sprovvisto perfino dei rudimenti (“water please” p. 104) per farsi portare l’acqua. Di gentile aspetto? Ha la faccia “dei califfi delle fiabe animate” (a proposito di Cenerentola), una “imperscrutabile maschera” dalle “antiche ascendenze mediorientali” (p. 39). Carnagione? Olivastra. Un gentiluomo? Giudicate voi. È perennemente “incollato al cellulare” (p. 38), anche quando proprio non si dovrebbe, ad esempio presiedendo una commissione di concorso (p. 95). Saluta e non saluta, a seconda gli giri (p. 39). Promette e non mantiene, sempre a seconda gli convenga. Non concepisce che i suoi ordini non vengano eseguiti. E poi spilorcio; spilorcio al punto da non farsi scrupolo di accettare, lui pluristipendiato, inviti a pranzo da ricercatori impecuniosi, oltretutto in trasferta (New York). A tavola mangia, beve, parla di continuo, tutto pur di non ascoltare i pur giusti preghi. Un soggetto insomma che, quando sul Quirinale non sedesse ben saldo a gambe larghe un bi-presidente dell’integrità di Giorgio Napolitano, rischieremmo di trovarcelo commendatore della repubblica.
Torniamo a Feltre. Gardini narra della chiusura dell’università (pp. 140-143). Ma il centro drammatico è un altro. Verte sulla perdita ben più grave subita dalla nostra quondam università a causa della decisione (di Corona) di non assegnare a Gardini, che nel frattempo si era guadagnato l’associazione, il posto di professore.
Nora Capello, al telefono, “con un sospiro”:
“Mi dispiace tanto! Io e gli altri abbiamo insistito. Era scontato che toccasse a te. Era un tuo diritto. Che perdita per Feltre! La letteratura è finita! Quanto mi dispiace…”.
Insomma un feltrino ha parecchi buoni motivi per leggere questo libro. Alcuni dei quali magari lietamente enigmistici. Da abitante di un paese della cintura devo ammettere di sapere poco degli arcana di Feltre. Riesco solo nelle cose facili. Direi che Nora Capello sia la professoressa Nella Giannetto, di buona memoria. Così l’albergo Dorelli è probabilmente il Doriguzzi. Non sono invece riuscito ad indentificare il libraio Eugenio. Nessun libraio a Feltre “con begli occhi azzurri” (p. 117).
Sono certo che i lettori più addentro di me nelle segrete meccaniche cittadine riusciranno, sempre che non si tratti di un personaggio di fantasia, ad identificare chi sia, al secolo, il professor Carmelo Corona. Nel caso fatemi cortesemente sapere. Sono un lettore goloso dei profili biografici dei rettori italiani. Li ho trovati nel sito ufficiale della CRUI (acronimo che sta per Conferenza dei rettori delle università italiane). È un pozzo di san Patrizio. Ci sono personaggi le cui avventure fanno fare una figura da chiodi agli eroi de Le mille e una notte. Segretari nazionali della CGIL-università, ma anche plurirotariani e, al caso, berlusconiani di provata fede. Allievi di Armando Plebe che per farsi largo nella vita hanno saputo mulinare una laurea in storia della filosofia come neanche il paladino Orlando la sua fida durlindana. Alcune biografie presenti nel sito della CRUI sono i più recenti (a me noti) testimoni di epica nature e di poema cavalleresco (in verso libero) precomico.
Non vi interessa niente di Corona, di Feltre, della sua università, dei torti subiti da Gardini (tanti e dolorosi)? Il libro costa poco. Compratelo lo stesso. Vi troverete contenti, datemi retta. Per certi versi somiglia ad un coltellino svizzero. I 44 (brevi) capitoli e l’Avvertenza che li precede sono impreziositi da eserghi. Salvo errore ne ho contati 57, in sette lingue diverse. Tutti autori di grossa cilindrata. Fate conto che il più scarso del mazzo (a mio gusto, s’intende) è Marguerite Yourcenar.
Insomma con soli sette euro oltre ad un romanzo-verità ad alta gradazione etico-politica vi portate a casa gratis una mini-ape (poliglotta) del Fumagalli. Un florilegio di aforismi, massime ed obiter destinati a venir buoni in varie circostanze della vita.
Centrali, oltreché numerosi, i memento sulla scarsa educazione civica del nostro disgraziato paese. “Le ingiuste voglie in Italia più poterono che le buone legge” (L.B. Alberti). La coscienza civica è “artificiale e vacillante (…) La sua vita è ancora esteriore e superficiale” (F. De Sanctis). “In realtà l’Italia è un luogo orribile: basta andare qualche giorno all’estero e poi tornare” (P.P. Pasolini). “Lo spirito pubblico in Italia è tale che, salvo il prescritto dalle leggi et ordinanze dei principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada” (G. Leopardi).
Amarissime verità che è sempre salubre sentirsi rammemorare, tanto più se da qualcuno che ha avuto la disgrazia di sperimentarle sulla propria pelle. Grazie a dio, sono frammiste a gemme di speranza destinate a splenderci in cuore a lungo. Ma cosa dico a lungo. Vita natural durante. Una per tutte. “C’etait le jeudi”. Autore Gustave Flaubert. Volete che non rifiorisca per tutta la vita che ci sarà data, almeno una volta a settimana? Finalmente un controcanto colto e degno all’emistichio plebeo “sabato trippa” che ci perseguita da generazioni.
Si aggiungano i non pochi suggerimenti di galateo. Poniamo che in qualche ufficio pubblico l’impiegato non vi badi. Smettetela di raccontarla sdegnati che voi stavate lì come quello della mascherpa, Gardini vi offre il modo di variare con distinzione. Potrete dire che voi vi sentivate peggio che invisibili, “come il defunctus in una delle Intercoenales di Leon Battista Alberti”.
Avete avuto a che fare con uno che si crede un padreterno e se ne sbatte delle regole della creanza (e di voi per buon peso) tipo Corona? C’è Svetonio. Svetonio te lo sistema per le feste con due participi fulminanti: “bacchantem atque grassantem”. Non facciamoci sempre riconoscere, colle solite giaculatorie stereotipate a base di testa-diquì-faccia-dilà. C’è uno che vi sta giustamente (e solennemente) sulle balle (magari il padreterno scostumato di cui sopra)? Ci pensa sempre Svetonio “non defuit plerisque animus adoriri”; altro sì che il floscio, unto “ma va a mmorì ammazzato”. Italiani, forza, usiamo Svetonio!
Chiudo segnalando un altro distinto pregio del libro. Alcuni dei capitoli mettono in secondo piano le traversie biografiche per affrontare di petto questioni culturali di prima rilevanza. Farò qualche esempio. Abbiamo temi di storia della ricezione, quali la fortuna antica e moderna del mito di Ippolito. Di teoria della letteratura, come la differenza tra storia e trama (con concisi, perspicui cenni sulla concisione di Maupassant). Di filosofia morale, e sarà il capitolo dedicato alla felicità ed alla speranza. Di satira di costume à La Bruyère, e ci godremo un agile parallelo tra le figure del poeta (il bene) e quella del barone (il male).
Impromptus e volteggi che, oltre a deflagrare inattesi nel bel mezzo del plot, com’è proprio del miglior romanzo-saggio, esibiscono un enciclopedismo, mi permetto di dire, vertiginoso. Insieme acrobatico e sodo come un uovo. E infatti quelli lassù ad Oxford, madòsca viola…, non gli basta mangiare cinque volte al dì.
Andrea dice
Carmelo Corona = Giovanni Antonino Puglisi
Cesare Villani = Sergio Rufini
Sonia Carnazzi = Lucia Rodler
Attilio Fecaloro = Michele Cometa
ecc.
Giuditta Guiotto dice
Il libraio è Sandro Dalla Gasperina e la sua libreria è “Agorà”