di Walter Cocco
Il nostro amico e socio Walter Cocco ci scrive per raccontarci di aver cominciato una nuova ricerca, sulla storia della fabbrica Pellizzari di Arzignano. Tra i motivi che lo hanno spinto a intraprendere questo studio, ci sono la sua infanzia e la sua adolescenza – quando da casa vedeva la fabbrica –, e soprattutto la vita del padre, che alla Pellizzari ha lavorato per quarant’anni.
Cari amici di storiAmestre, dopo aver scritto della Marzotto di Valdagno e della sua storia vi volevo informare che da un po’ di tempo sto raccogliendo materiale sulle officine Pellizzari di Arzignano.
La storia di un’altra fabbrica e di un’altra lotta operaia. La mia è forse una fissazione, ma continuo a pensare che sia un interessante punto di vista per analizzare le trasformazioni sociali avvenute in Italia nel Secondo Dopoguerra e sono convinto che il “caso” Pellizzari abbia delle caratteristiche che lo rendono meritevole di essere studiato.
Vi confesso però che la ragione del mio interesse per questa ricerca è anche (forse soprattutto) strettamente personale.
Quando ero bambino dal cortile di casa potevo vedere la Pellizzari, la fabbrica dove lavorava mio padre, proprio dall’altra parte della strada. C’era una rete e un ampio pezzo di terra incolta, dei mucchi di materiale inerte e le erbacce avevano riconquistato lo spazio. Più in là un enorme cubo di cemento senza finestre dava inizio alla fabbrica. E lì, nel reparto trasformatori lavorava Momi, mio padre. La fabbrica ha dominato l’orizzonte geografico e mentale della mia infanzia e prima adolescenza. La sua sirena marcava la fine dei turni di lavoro, ma anche i gesti quotidiani all’interno delle famiglie.
In quella fabbrica mio padre entrò nel 1938, a quattordici anni e, fatto salvo un periodo di circa due anni in cui finì in un campo di lavoro in Germania, vi rimase fino alla pensione nel 1977. Era figlio di una numerosa famiglia proletaria con scarsi mezzi, perciò il suo ingresso in fabbrica rappresentò una svolta per la sussistenza familiare. Il lavoro operaio rappresentò per lui un’occasione di riscatto sociale e al tempo stesso la maturazione della coscienza del diritto a una società più giusta. Iscrittosi alla CGIL nel 1946 vi rimase anche dopo la pensione sino alla fine dei suoi giorni, nel corso della sua vita lavorativa ha partecipato alle lotte operaie e in particolare a quelle degli inizi degli anni Settanta per il salvataggio della fabbrica.
Il periodo che mi interessa analizzare comprende buona parte della vita lavorativa di mio padre e perciò avevo immaginato che, ricercando fra i documenti, mi potesse capitare di incrociare il suo nome. Tuttavia quello che mi è accaduto nel luglio 2016, spulciando fra i fascicoli dell’Archivio Luccini di Padova, merita di essere raccontato. I fascicoli depositati presso il Luccini contengono i documenti dell’attività sindacale della CGIL nella Pellizzari (non so perché non siano nell’archivio della CGIL vicentina presso la Biblioteca Bertoliana, ma è così). Esaminandone uno ho scoperto che – prima dell’approvazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970 – vigeva un accordo per cui l’azienda provvedeva alle trattenute sindacali in busta paga sulla base della scelta del lavoratore. Era prassi perciò indire periodicamente un «referendum» – proprio così veniva chiamato – attraverso il quale ciascun lavoratore esprimeva, in una scheda nominativa che probabilmente forniva l’azienda, la propria adesione a un sindacato. Per il referendum tenutosi il 18 settembre 1968 c’è un fascicolo contenente tutte le schede degli aderenti alla CGIL (con buona probabilità, dopo lo spoglio, ogni sindacato si teneva le proprie comunicando i nominativi all’azienda per la trattenuta) e la prima scheda del fascicolo era quella di mio padre.
Non posso nascondere che incontrarlo così mi ha emozionato. Mi potevo aspettare di ritrovare il suo nome in elenchi e liste aziendali, ma trovare un documento in cui lui esprimeva una sua decisione è stata un’emozione molto forte e credo che solo per questo sia valsa la pena intraprendere la ricerca.
Conviene che vi spieghi dov’era e cos’era la Pellizzari di Arzignano.
Arzignano si trova sulla bassa valle del Chiampo, quasi alla confluenza con la valle dell’Agno, nel punto in cui il torrente Agno prende il nome di Guà. Qui le due valli si aprono verso la pianura veneta nella parte nord occidentale del vicentino. A differenza di Valdagno, che si trova nella parte alta della valle contigua, dove a fine del XIX secolo la Marzotto era già una industria di importanza nazionale, il territorio arzignanese era in prevalenza agricolo anche se venivano tradizionalmente esercitate alcune attività manifatturiere, in particolare: l’industria serica che poggiava sulla bachicoltura, tradizionale reddito integrativo del mondo agricolo; l’industria estrattiva del marmo nell’alta valle; qualche conceria che poteva contare sull’abbondanza e sulla qualità delle acque e che darà vita nella seconda metà del Novecento a uno dei più importanti distretti della pelle italiani. Arzignano però, grazie alla Pellizzari, godrà di una precoce industrializzazione che trasformerà l’economia della valle già nel corso della prima metà del XX secolo.
La Pellizzari nasce nel 1901 come piccola officina per la produzione e manutenzione di macchine e utensili funzionali a una società prevalentemente agricola (molini e impianti di irrigazione), ma nel giro di pochi anni divenne una protagonista di quella seconda industrializzazione che ebbe il suo motore nell’energia elettrica. I prodotti che verranno progettati e fabbricati dall’officina arzignanese saranno proprio motori elettrici, pompe e impianti che utilizzano e alimentano la diffusione dell’energia elettrica. Nel volgere di pochi anni, soprattutto dalla fine del primo conflitto mondiale, la Pellizzari gode di una crescita industriale che trasforma l’officina artigianale di tipo familiare in una industria con centinaia e poi migliaia di addetti, contribuendo alla trasformazione del tessuto sociale arzignanese. Lo sviluppo industriale infatti porterà con sé la nascita di una classe operaia che, pur avendo legami famigliari con un ambiente prevalentemente agricolo, tenderà progressivamente a rendersi autonoma da quest’ultimo. La classe operaia delle officine Pellizzari, a differenza da quella dei lanifici di Schio o di Valdagno, man mano che acquisisce conoscenze e capacità di realizzare prodotti tecnologicamente avanzati, mette al centro della propria esistenza la fabbrica e si allontana dal mondo rurale. I giovani proletari che entrarono nelle officine in quegli anni di tumultuoso sviluppo tecnologico acquisirono, con la coscienza del proprio saper fare, anche coscienza di sé come soggetto sociale e del proprio ruolo nella società.
Le officine Pellizzari furono fondate da Antonio Pellizzari, ma il vero protagonista della trasformazione in moderna industria fu Giacomo, figlio maggiore del fondatore, anche per la scomparsa del padre nel 1912 e del fratello minore nel 1929. Giacomo si forma presso l’Istituto Tecnico Industriale A. Rossi e introdurrà sin da subito nell’azienda paterna la progettazione e la costruzione di pompe e successivamente di motori elettrici. Giacomo rappresenta la figura dell’industriale che nutriva una grande fiducia nella tecnologia come promotrice di progresso e nell’“homo novus” che cresceva e si formava nell’industria i cui saperi avrebbero prodotto ulteriore crescita tecnologica.
Lo scoppio del secondo conflitto mondiale e gli eventi successivi all’8 settembre 1943 segnarono una fase molto delicata per la fabbrica e la sua classe operaia. Con la repubblica di Salò e l’occupazione tedesca vi fu la militarizzazione della fabbrica, ma fu la decisione del comando tedesco di deportare il 10% della forza lavoro in Germania a scatenare la reazione operaia con gli scioperi della primavera del 1944. Le truppe di occupazione risposero con l’uccisione di quattro operai nel vicino castello di Montecchio Maggiore e la deportazione in Germania di molti lavoratori. Il figlio del padrone, Antonio Pellizzari (si chiamava come il nonno), avvicinatosi alla resistenza antifascista e ricercato perché renitente alla leva, si rifugiò in Svizzera, mentre il padre si nascondeva a Milano presso amici, pur mantenendo relazioni con i dirigenti della fabbrica.
La fine del conflitto e la riconsegna della fabbrica dai rappresentanti del C.L.N. nelle mani dei Pellizzari avvenne perciò senza particolari traumi.
Dopo le difficoltà dell’immediato dopoguerra, la fabbrica riprese la produzione e nel giro di pochi anni aumentò il suo prestigio nazionale e internazionale: nei primi anni Cinquanta l’industria arzignanese raggiunse il suo apice e fu promotrice di una stagione di interventi sociali e culturali in favore dei propri dipendenti e della cittadinanza che – seppur in tono minore – fanno pensare a quel che si racconta dell’Ivrea di Adriano Olivetti. Viene fondata la Scuola di Arzignano, dove vengono organizzati corsi di letteratura, pittura, architettura e musica1, e per capire lo spirito che l’animava basti pensare che fu questa a pubblicare i primi numeri della rivista Cinema nuovo di Guido Aristarco2.
La scomparsa di Giacomo Pellizzari (1955) e soprattutto quella prematura del figlio Antonio (1958) fece uscire di scena la famiglia industriale; dopo qualche anno l’azienda fu acquisita da industriali di Sesto San Giovanni la cui gestione durò un decennio (1961-1970) fino alla crisi che portò al fallimento agli inizi del 1971 e all’occupazione che si concluse con il passaggio dell’industria arzignanese da parte delle Partecipazioni Statali salvando circa 1.700 posti di lavoro.
Il periodo su cui intendo focalizzare la mia ricerca è il quarto di secolo che va dall’immediato dopoguerra (1946) alla conclusione della lotta per la difesa del posto di lavoro nel 1971 e il mio interesse non è soltanto ricostruire la storia della fabbrica e della famiglia industriale, sulla quale peraltro esistono già alcuni studi, ma anche l’evoluzione delle condizioni materiali e sociali di chi ci lavorava e della comunità arzignanese che è cresciuta intorno alla fabbrica.
La maggior parte della letteratura sin qui prodotta sulla Pellizzari si ferma alla fine della dinastia industriale che l’ha fondata3, a me piacerebbe riuscire ad aggiungere un altro tassello parlando anche della Pellizzari oltre i Pellizzari, quindi di tutto il decennio dei Sessanta e i primi anni Settanta, periodo in cui matura la crisi della fabbrica, ma che vede il contemporaneo sviluppo del distretto conciario da un lato e del distretto elettromeccanico che si sviluppa per germinazione proprio dalla Pellizzari.
Spero per il futuro di poter proseguire e tenervi informati sull’andamento della ricerca.
Un caro saluto,
Walter Cocco
- La partecipazione numerosa di operai e impiegati ai corsi di musica darà vita a un’orchestra diretta dallo stesso Antonio Pellizzari che si esibirà in ambiti nazionali e internazionali come il festival di Salisburgo. [↩]
- Antonio Pellizzari fu in prima linea nel sostenere la battaglia contro l’arresto seguito alla condanna per oltraggio all’esercito subita da Aristarco e dall’autore Renzo Renzi per la pubblicazione su Cinema nuovo del soggetto del film L’armata s’agapò, che esprimeva una dura critica alla guerra e all’imperialismo. [↩]
- Le pubblicazioni principali sull’argomento sono: Vittoriano Nori, Pellizzari di tre generazioni (1901-1958) al servizio del lavoro e della cultura nella patria Arzignano e nel vicentino, A. Dal Molin, Arzignano 1987 e il volume edito a cura del Comitato del cinquantenario (1955-2005) dalla morte di Giacomo Pellizzari: Giacomo Pellizzari il suo tempo la sua gente, a cura di Augusto Dal Molin, Antonio Lora, Comune di Arzignano, Arzignano 2007. Vi sono poi alcuni saggi brevi o articoli sulla Pellizzari e la famiglia imprenditoriale fra i quali ricordo Giovanni Luigi Fontana, Un’azienda propria immagine: Giacomo Pellizzari e l’elettromeccanica, in Mercanti, pionieri e capitani d’industria. Imprenditori e imprese nel vicentino tra ‘700 e ‘900, Neri Pozza, Vicenza 1993. [↩]
David Ajò dice
Mi piacerebbe entrare in contatto con Walter Cocco; qualche hanno fa ho fatto un lavoro analogo su Piazzola sul Brenta (una mostra ed alcune conferenze), assunto come caso esemplare della Storia d'Italia tra il 1848 ed il 1948; oltre che sulla documentazione da diverse fonti, mi sono basato sui miei studi nel campo della religiosità popolare (sono un collezionista di "santini" e socio della Fondazione di Storia, Vicenza). A vostra disposizione per un curriculum più dettagliato Buon lavoro David Ajò Noventa Padovana