Nel cinquantesimo anniversario dell’avvio dei corsi di “150 ore per il diritto allo studio” (anno scolastico 1973-74) pubblichiamo l’intervista a Pino Albanese e Gabriele Stoppani, due storici insegnanti delle 150 ore a Mestre-Venezia, curata dalla nostra socia Chiara Puppini .
L’intervista mette in evidenza come le 150 ore abbiano contribuito a completare un processo di alfabetizzazione che era una delle lacune del miracolo economico.
I due insegnanti raccontano gli inizi di questi corsi in un confronto serrato tra il sindacato e il Provveditorato agli studi e descrivono i cambiamenti avvenuti dagli anni Settanta al Duemila, indicando una precisa linea di frattura: la crisi della fabbrica fordista a partire dagli anni Ottanta, con un processo lento e strisciante di delocalizzazioni, chiusure di reparti con cassa integrazione a zero ore, esternalizzazioni delle produzioni, precarizzazione del lavoro di fabbrica. Le fabbriche, anche dove rimangono, sono stravolte al loro interno. Va in crisi anche il progetto delle 150 ore, sviluppato negli anni Settanta quando la classe operaia era riuscita ad affermare alcuni diritti nel posto di lavoro: il diritto alla parola, alla contrattazione, alla salute, allo studio e alla formazione.
Chiara Puppini
Nel lontano 2009 Marina Scalori, Angiola Tiboni, Sergio Serra, Giancarlo Cavinato, Pino Albanese, Maurizio Angelini ed io ci trovammo a ragionare sugli “anni ruggenti” vissuti dentro la scuola veneziana, inserita nella vivace realtà sociale e industriale degli anni Settanta. Eravamo quasi tutti ormai approdati alla pensione, dopo aver condiviso – insieme – esperienze molto intense e singolari: i corsi abilitanti, la fondazione del sindacato Cgil – Scuola, le sperimentazioni negli istituti superiori Stefanini e Massari, l’esperienza delle 150 ore. Tra noi c’erano docenti di grado diverso e dirigenti. Decidemmo di seguire, come filo conduttore, le vicende del sindacato Cgil – Scuola, usando gli archivi del sindacato e alcuni archivi personali per le fonti scritte e le interviste per le fonti orali.
Nello stendere la narrazione, decidemmo di coinvolgere lo sguardo di un giovane storico che quegli anni non li aveva vissuti: Giulio Bobbo, ricercatore all’IVESER (Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della società contemporanea). Non seguì alcuna pubblicazione perché il lavoro, per alcune discussioni mai concluse nel 2012, non venne portato a termine, ma vennero realizzate alcune interviste tra cui quella a Pino Albanese e Gabriele Stoppani – di cui qui presentiamo una trascrizione e rielaborazione – sull’esperienza delle 150 ore, proposte nella piattaforma dal sindacato unitario dei metalmeccanici (Flm) nel 1973.
Incontro e registrazione avvenuti nella sede Spi di Mestre-via Salettuol 8 maggio 2012 mattina, presenti: Chiara Puppini (C.P.), Pino Albanese (P.A.), Gabriele Stoppani (G.S.) e Giulio Bobbo (G.B.).
Giulio Bobbo: Siamo qui per ragionare e ricostruire gli eventi che portarono ai primi corsi delle 150 ore, all’interno di uno studio, che attualmente è in analisi, per ricostruire la storia della CGIL scuola a Venezia dal 68 alla fine degli anni Ottanta. Abbiamo pensato che questo studio ha punti di forza e momenti di debolezza. Una delle debolezze è dovuta al fatto che, per quanto riguarda certi periodi di tempo, abbiamo una carenza di fonti scritte, perché non siamo riusciti a recuperare una serie di documenti del sindacato che ci permettessero di costruire le cose in modo organico.
Essendo questo uno studio che vuole avere una pretesa di scientificità, ma vuole anche essere la proposizione di un’esperienza, abbiamo deciso di affidarci alle fonti orali. L’esperienza su cui parliamo oggi è quella delle 150 ore, interessante non solo perché si trattava di un’esperienza sindacale, ma anche perché cominciava a gettare un ponte tra due contesti sindacali diversi: quello degli insegnanti, che fino a qualche anno prima erano inquadrati nel sindacalismo di categoria e quello del mondo del lavoro confederale con cui non c’erano stati grandi rapporti. Per cui le 150 ore rappresentavano anche questo, nella piattaforma dei metalmeccanici.
Stiamo parlando dell’esperienza didattica, sociale e politica che ha segnato la crescita personale di molte persone e dell’esperienza organizzativa di un sindacato all’epoca nato da poco e frequentato da persone giovani. Vogliamo ricostruire, per quanto possibile, questo contesto attraverso la voce di chi ha dato un contributo da questo punto di vista. Quindi vorremmo ascoltare la vostra esperienza di insegnanti, come è stata impostata.
Una storia lunga
Gabriele Stoppani: Una storia lunga: noi ci troviamo ad insegnare ai primi corsi 150 ore nell’anno scolastico 74/75. Già nel ‘73 /’74 c’era stata l’opportunità che i lavoratori avessero il diploma di terza media in un anno. I primi furono anni particolari: l’anno scolastico ‘74/’75 andò da gennaio ad agosto, nel frattempo gli insegnanti erano comandati in altre scuole con incarico a tempo determinato. Poi le cose si stabilizzano, però solo negli anni Ottanta gli insegnanti possono entrare con incarico a tempo indeterminato e quindi occuparsi solamente di questa materia.
Per una decina d’anni si cominciava a insegnare nelle scuole del mattino, poi si veniva comandati nelle 150 ore.
C’erano già state delle esperienze scolastiche per gli adulti. L’Italia è un paese straordinario: nel libro Cuore c’era il maestro Perboni che insegnava alla sera ai genitori dei bambini, che erano analfabeti; poi il maestro Manzi per televisione. Prima delle 150 ore c’erano i corsi Cracis riservati ai lavoratori per il conseguimento della terza media, che venivano svolti all’interno dei luoghi di lavoro e prevedevano due anni con le stesse materie e discipline del mattino. Si dà il caso che io abbia insegnato precedentemente proprio in un corso Cracis, che aveva un programma praticamente di riassunto, un po’ come avveniva alle superiori serali. Poi l’esame veniva negoziato con la scuola territoriale, in quel caso l’Einaudi a Marghera. Insomma era una sorta di corso preparatorio a un esame di Stato che veniva svolto con gli stessi criteri dei ragazzi del mattino.
Per molti decenni c’è stato questo equivoco: concepire le serali come una ripetizione del mattino, stessi programmi, svolti magari in un tempo parziale. La concezione dell’educazione permanente dell’adulto – semmai c’è stata – esce negli anni successivi e soprattutto grazie all’intuizione delle 150 ore, che sono un’idea di educazione permanente, di studio per tutta la vita. Non di studio legato esclusivamente a dei programmi o al conseguimento di un titolo per far carriera all’interno del posto di lavoro per cui fino a una certa età ci si prepara per il lavoro, quindi finisce lo studio e dopo una certa età ci si prepara per la pensione e finisce l’attività lavorativa.
Le 150 ore nascono esattamente ribaltando questa concezione e sposando l’idea di un’educazione permanente – innestata in maniera straordinaria in Italia dal movimento dei lavoratori – vale a dire di uno studio e una ricerca senza fondo per tutta la vita.
In altri Stati d’Europa questa idea di educazione permanente era già in auge, però avveniva attraverso un movimento intellettuale e una classe politica che faceva questa offerta di studio, di scuola aperta nel tempo e per sempre, dal bambino fino all’adulto.
Il fatto del tutto straordinario è che in Italia è la classe operaia nel ‘71 -’72, sull’onda del 68, con milioni di ore di sciopero, che non dice vogliamo la scuola, vogliamo la terza media, ma vogliamo 150 ore di studio. Tutti e tre i sindacati furono d’accordo su questo nella piattaforma FLM [Federazione Lavoratori Metalmeccanici che riuniva tutti i lavoratori metalmeccanici delle 3 sigle sindacali Cgil, Cisl, Uil] . È famosa la frase di Benvenuto: se uno vuole imparare, cosa deve imparare?, se vuole suonare il violino, il mandolino, il piffero, lo faccia.
L’idea non era recuperare un diploma, ma dedicare parte della propria vita per lo studio.
I primi corsisti
G.B. Mi interessava molto sapere quando sono cominciati questi primi corsi, chi erano i corsisti, erano più uomini, più donne, operai, impiegati?
G.S. Quando siamo entrati noi, nel ‘74-’75, nascono due corsi: a Marghera la sede presso l’Einaudi ha tutti operai delle grandi industrie, mentre a Venezia, dove siamo stati destinati noi, si iscrivono 100 infermieri.
Avevamo preso l’incarico il giorno prima come insegnanti di lettere. Quale sarà il programma? Avete avuto il contratto? Si, ma non capiamo niente. Allora questo sarà il libro di testo, ecco questo sarà il nostro libro di testo e lì abbiamo cominciato.
La prima riunione l’abbiamo fatta alla FLO, Federazione lavoratori ospedalieri, siamo andati all’ospedale Giustinian e abbiamo subito fatto un’assemblea per spiegare ai lavoratori cosa avremo insegnato.
Poi ci siamo un po’ sistemati e abbiamo deciso: facciamo la lettura della realtà vissuta.
Inizialmente la nostra sede era nella scuola Dante Alighieri, ma già due anni dopo si sono aggiunti altri due corsi, uno alla Giudecca e uno alla Pisani del Lido.
Nel ‘69/’70 era nata la Federazione dei metalmeccanici, sulla spinta dei metalmeccanici nasce FLO dei lavoratori ospedalieri e sanità e FLC della chimica, cioè quel grande movimento di unificazione del mondo sindacale che poi andrà a puttane.
Gli ospedalieri in quel momento stavano attraversando una riorganizzazione e serviva la terza media per il passaggio da ausiliario – infermiere generico a professionale. Per cui vengono in gran massa dai loro posti di lavoro: Murano, Ospedale Civile, Fatebenefratelli, Giustinian, ECA [Ente Comunale di Assistenza], IRE[Istituto di Ricovero ed Educazione]. Devono prima avere la terza media e poi fare il corso al “Massari” [Istituto tecnico per Geometri] per il biennio alle superiori. Nel giro di 5 anni però questa domanda si è contratta.
In ogni modo fino all’80 è il mondo del lavoro che frequenta, pensiamo che negli anni ’70 la grande maggioranza dei lavoratori non ha la quinta elementare.
Ci sarà il problema delle brigate rosse, della violenza di fabbrica e così via che vivremo marginalmente. Nel ‘78 noi eravamo ancora a Venezia e il 16 Marzo del ‘78 [rapimento di Aldo Moro e uccisione di 5 uomini di scorta] ce lo ricordiamo bene: abbiamo chiuso la scuola, siamo usciti in piazza in una manifestazione del sindacato in campo santo Stefano, e la gente dice: Ma cosa fate? Chiudiamo la scuola e facciamo sciopero. Senza che fosse stato indetto dalle organizzazioni sindacali, eravamo abbastanza scoperti dal punto di vista attuale.
Poi vi sarà uno spostamento della massa operaia ai lavori autonomi, come piccoli imprenditori, capitani di industria, di negozianti che volevano aprire ma non avevano la terza media. Dagli anni ‘80 si sposta alle casalinghe e successivamente ai drop out, disagio nostrano e agli stranieri.
Il ’68 trasforma il lavoro da merce a elemento costituzionale. L’articolo della costituzione – l’Italia fondata sul lavoro – trova riscontro in quel contratto dei metalmeccanici e nei nostri corsi. Non tutti sono uguali, ma dato che sappiamo che non sono uguali, come facciamo un discorso di promozione dell’uguaglianza? Quindi si crea una situazione diversa dall’idea di lavoro come merce, un’idea che risponde ai centri di promozione della formazione umana che è il compito che dovrebbe avere lo Stato (articolo tre della Costituzione).
Queste sono le 150 ore: una parte sarà il discorso del diploma per rispondere a una situazione presente: la parte della classe operaia che non è andata a scuola, ha bene o male la quinta elementare se sono uomini, la seconda elementare se sono donne.
I processi lavorativi chiedono maggiori conoscenze, per cui si risponde in quel momento col discorso della terza media, però non era questa la prospettiva. La prospettiva era non separare nella vita il momento dello studio dal momento del lavoro, ma pensare a un processo di crescita individuale, un processo unico che interessava l’uomo da quando nasce fino alla sua morte .
Questa è una visione non statica della democrazia, non prende atto punto a capo, ma cerca di cambiare, di spingere in avanti le situazioni, è la democrazia partecipata della nostra Costituzione. Non è dire: le cose stanno così punto e a capo, la scuola non può intervenire a modificare le situazioni di partenza perché non è il suo compito, la scuola deve solo prendere atto delle diversificazioni. Un po’ quello che è successo con la riforma Gelmini1. Ma lo stesso discorso si può fare per la visione del lavoro: io vedo il lavoro come elemento dell’homo faber, l’uomo che trasforma il mondo, l’uomo che partecipa al mondo, oppure vedo il lavoro come vorrebbe Marchione: come pura merce che non deve creare problema?
Organizzare i corsi
G.B. Quindi nel ‘74 vi trovate a dover recepire una decisione sindacale, un importante input nazionale che istituisce e dà la possibilità di creare, organizzare e mettere in atto questi corsi. Gli utenti a Marghera sono gli operai, a Venezia, per tutta una serie di motivi che riguardava l’attività produttiva presente a Venezia, gli ospedalieri.
Pino Albanese: E quelli del Casinò e i comunali, però il nucleo erano gli ospedalieri con i rappresentanti sindacali. Noi ci siamo trovati per la prima volta a discutere con i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, perché l’operazione era fatta partire dai sindacati insieme all’ufficio scolastico provinciale e il sindacato ci mette i suoi funzionari confederali: l’Anna Migliorini per la CGIL, la Chiara Ghetti per la Cisl, Gianni Lombardo responsabile confederale della Uil, Roberto Panciera per la Cgil, Tuti del Giustinian responsabile per la Cisl. La scuola non è preparata a gestire la fase di iscrizioni: chi fa le domande, dove, come vengono. Le prime domande vengono raccolte dal sindacato e il sindacato le porta alla scuola, cioè a noi, perché le segreterie non vogliono. Il Provveditorato, cioè Condorelli, subisce, accetta, discute sulle sedi, perché le scuole – anche l’Einaudi – non vogliono questa contaminazione con il sindacato e con i lavoratori. I lavoratori sono sporchi, sono poveri, e quindi il sindacato avrà anche da contrattare, da baruffare per avere l’apertura della scuola, gli spazi per fare i corsi.
Dagli anni ’80 la frequenza si sposta alle casalinghe, seguendo l’idea che le 150 ore non fossero solo per gli operai, ma per tutti coloro che vogliono studiare. La gran parte delle donne che frequentano i corsi vengono dalla campagna veneta – l’urbanesimo ha coinvolto anche questo territorio – dalla campagna sono venute ad abitare in città, si sono sposate, i mariti sono andati in fabbrica. Le donne, che lavoravano nei campi, hanno la seconda, la terza elementare. Sulla spinta dei loro mariti, poi vengono anche loro a prendere la licenza: alcune sono infermiere, poi arrivano le casalinghe.
Le 150 ore nel ‘97 diventano centri territoriali permanenti, ci sono momenti di crescita poi momenti di decrescita dal ‘97 in poi. Oggi credo che su 100 persone il 90 % ha la licenza di terza media.
G.B. mi interessa sapere qual era l’impegno dei sindacato della categoria che beneficiava delle 150 ore e quale poteva essere l’intervento del sindacato scuola e voi in quanto insegnanti come vi siete inseriti.
P.A. Noi siamo arrivati a conoscerci per caso, perché ci siamo trovati la mattina della convocazione in Provveditorato. Per fortuna c’è un altro elemento positivo del sindacato a monte, perché qualcuno pensava di gestire la baracca in modo personalistico. Il sindacato nazionale vuole, invece, che le 150 ore siano, a tutti gli effetti, elemento dell’organizzazione scolastica, per cui le nomine avvengono a chiamata dal Provveditorato, a tutti quelli che sono in graduatoria viene offerta la possibilità di insegnare alle 150 ore. Noi ci troviamo lì, a questa scelta casuale. Ci hanno detto: ci sono questi posti nelle scuole per adulti, per lavoratori, accettate, non accettate? E noi abbiamo accettato e abbiamo cominciato. Siamo stati chiamati il primo di gennaio e abbiamo fatto un corso di formazione di 20 giorni organizzato insieme da sindacato e università con Luigi Ruggiu e Umberto Margiotta. A febbraio abbiamo iniziato a insegnare e abbiamo smesso il 31 agosto. Quindi senza neanche fare ferie, perché a settembre dell’anno prima avevamo già cominciato a fare supplenze .
G.S. Anche il secondo anno abbiamo frequentato un corso di formazione. Eravamo in 52 in Comune, 4 insegnanti per modulo: due di lettere, uno di matematica e uno di lingua straniera. Anche nelle materie c’è stata una scelta. A Venezia avevamo come sedi la Dante Alighieri, il Lido, la Giudecca, in terraferma l’Einaudi, la Bandiera e Moro poi Giulio Cesare e Campalto. C’erano poi due corsi a Chioggia, uno a Mirano, uno a Spinea, due San Donà, uno a Portogruaro.
Insegnanti e sindacato
G.B. Mi interessava capire il vostro processo di professionalizzazione e di sindacalizzazione.
P.A. Io non ero iscritto al sindacato, Lele (Stoppani) non era iscritto al sindacato, ci iscriveremo dopo al sindacato e cominciamo a partecipare a questo nuovo modo di conoscere.
G. S: Io avevo un incarico di supplenza annuale al Sarpi, veniva pagato tutto l’anno, una volta. Ho lasciato quella supplenza per un incarico che mi è stato proposto come scelta. Ci siamo iscritti dopo, perché abbiamo visto che la gestione del sindacato era la gestione giusta, era la strada giusta, insomma già c’era condivisione.
Il sindacato partecipava attivamente a due livelli: a livello di ideale e di gestione pratica. I docenti e anche il Provveditorato accettano obtorto collo questa nuova rotta, che però tutto sommato son posti in più. C’è questo aspetto, però viene sempre visto come un aspetto di categoria.
E per questo noi aderiamo a un sindacato che ha un’idea, e tra l’altro anche unitaria e anche vediamo la qualità, devo dire, delle persone, dei sindacalisti di allora che colgono appunto il programma generale del sindacato dei lavoratori. Perché la domanda è: quale studio? Lo studio a tutto campo. E a tutto campo cosa vuol dire? Vuol dire che se uno ha il diploma può frequentare l’università, che se ha la terza media può frequentare le superiori e quindi i corsi devono essere riconosciuti. Il datore di lavoro chiedeva alle segreterie la dichiarazione di frequenza, perché le ore potevano essere godute nell’arco della giornata: smettevi il turno, invece di otto ore facevi quattro ore o uscivi prima. Oppure potevi raccogliere e goderle come ferie. Insomma la decisione era lasciata al lavoratore. Allora l’idea generale era che le 150 ore fossero fruizione dell’esercizio del diritto di cittadinanza. Facciamo l’esempio delle donne. Ci accorgiamo, assieme ad altri, quando vengono a prendere la terza media, che non hanno neanche la quinta elementare. Oggi ci meravigliamo che le donne straniere, soprattutto nei paesi islamici, non le mandano a scuola. Ma negli anni Settanta ci trovavamo che chi si iscriveva in terza media non aveva la quinta elementare, anche se l’introduzione della media obbligatoria è il ‘62/’63, quindi quelli nati nel 50 dovrebbero averla la quinta elementare! Altro che esercizio del diritto di cittadinanza! Quindi questo filone è interessantissimo per vedere e controllare le dinamiche politiche e sociali della nostra storia, di quarant’anni di storia.
G.B: Parlando di storia operaia ci sono due movimenti opposti: l’uscita della scuola da dentro il cancello a fuori in un contesto certo, e l’entrata del sindacalismo, dell’assemblea e della commissione di fabbrica all’interno, per cui ci si riappropria all’interno della fabbrica dell’aspetto politico e si esce dalla fabbrica per l’aspetto educativo. Interessante e più o meno nello stesso periodo.
P.A. Cioè diventa l’apertura del mondo, interessarsi un po’ a tutto, dal punto di vista pedagogico-didattico. Ad esempio non era peregrina l’idea di partire dal contratto di lavoro, ma era il riappropriarsi di un elemento della propria vita che era già codificato e vediamo un po’ come decodificarlo .
C.P. Mi ricordo dei corsi su Porto Marghera, storia di Porto Marghera. Devo aver conservato un fascicoletto che hanno prodotto i ragazzi delle 150 ore sulle storie di Porto Marghera. C’era Leda Cossu che faceva il corso alle superiori sulle donne…
P.A. Ma dal punto di vista sindacale -politico quella delle 150 ore è stata una fiammata, è partita nel ’75, nell’84 era già finita, finita perché si era normalizzata, perché il sindacato l’ha mollata. L’interesse dell’organizzazione rimane come interesse della categoria, rimane un interesse del sindacato, ma poi anche le categorie di fabbrica mollano completamente, nel senso che siamo noi che dobbiamo stimolare i sindacalisti per l’ottenimento delle 150 ore, perché i padroni a un certo punto non vogliono più darle le 150 ore, fanno di tutto per non darle e quindi devi reimpostare una vertenza per fargli avere le 150 ore.
G.B. Ma perché una vertenza se c’è già il contratto di lavoro?
P.A. Eh certo c’è il contratto, ma l’ottenimento di un diritto non era di fatto quello scritto sul contratto, la legge non è sufficiente a determinare la cosa, anche perché molto spesso, nella fabbrica, esistono altri corsi controllati dall’impresa direttamente. Allora tu entri in contrasto con l’impresa, che vorrebbe magari pagare quelle ore per darle per corsi interni, col computer o individuali.
G.B. Quindi voi identificate la stagione diciamo creativa, la stagione più interessante diciamo quella degli anni Settanta/Ottanta, quindi da quando nascono fino agli anni ‘82/’83 massimo.
P.A. Sì esattamente come nella politica, cioè nell’85 Craxi, il craxismo ha ripercussioni enormi sul tipo di visione della realtà, c’è un passaggio culturale che si vede anche nel sindacato, coincide in pratica con la battaglia dei tre punti di contingenza2. Là si rompe il meccanismo. La crisi del mondo del lavoro comincerà là, e in fabbrica a Marghera comincia un processo di dismissione, di esclusione della fabbrica, e noi lo sentiamo tutto, lo sentiamo perché il dibattito un po’ alla volta viene meno. Il venir meno di quella spinta propulsiva che era stato il movimento operaio, complici le brigate rosse, complici tutta una serie di altri elementi ha ricadute pesanti sul mondo della scuola. Tutto quanto il discorso dell’educazione permanente resta fermo per 10 anni, si blocca. Arriveremo a un discorso di legislazione sull’educazione permanente nel ‘97. Il mondo sindacale ritorna indietro, ritorna indietro e si spacca. Tutta quella spinta propulsiva, che era stata della FLM, la FLO, FLC, ritorna indietro.
G.S. Qui si è aperto un discorso che arriva al presente: allora ritorniamo alla storia e ai momenti ruggenti diciamo così fino all’85, perché dopo avviene un abbandono delle categorie. L’educazione permanente verrà ripresa all’inizio degli anni Novanta non dalle categorie, ma dal mondo della scuola, e dal nostro sindacato – Cgil scuola – che riprende in mano la partita e arriva alla legge del ‘97. Io ho seguito, nel mondo del sindacato, la partita che porta all’istituto dell’educazione permanente.
Professor, cosa studiemo?
G.B. Il ruolo dei sindacati, all’inizio, era quello di informare i lavoratori su quello che era un nuovo diritto, coinvolgere le scuole che dovevano andare a ospitare questo corso, identificare quello che poteva essere il corso, ma volevo chiedervi: c’erano delle linee generali sulle quali voi vi dovevate riferire o avevate una indicazione nazionale?
G.S. Sicuramente c’è questo momento più alto diciamo e dopo le idee vanno applicate. C’è la gestione della visione, vuol dire anche i programmi. Questo è interessante, ad esempio: professor cosa studiemo? La Divina Commedia? Diciamo che le categorie intervennero già nella formulazione delle linee programmatiche, che lasciavano molta apertura alla programmazione dell’insegnante, quindi non legarlo logicamente alla conoscenza della materia, dell’erudizione, ma tenere presente l’essere protagonisti. E’ una delle idee forti che vengono dal mondo operaio che viene volentieri a scuola: già lavoremo, non potevo far altro, giocare a bocce? Eh no! perché qua io dimostro al mondo che non ho studiato non perché fossi scemo, ma perché non mi avevano dato l’opportunità di studiare, perché la vita era organizzata che a sei anni già lavoravo. Abbiamo avuto anche i maestri vetrai che andavano a lavorare a sei anni. E le casalinghe dopo dimostrano che la testa c’è, e quindi vanno volentieri a scuola. Si scelgono le quattro discipline fondamentali: italiano, storia – geografia, matematica, lingua straniera. Però, calma, tu non devi fare lo studente, insomma vorrei un’offerta, ecco, che fosse di altro tipo dal punto di vista didattico.
E allora su quali temi? Ecco tutti gli aggiornamenti che venivano fatti appunto dalle FLM, FLO, FLC erano di discussione con gli insegnanti che a loro volta si mettevano in discussione. Facciamo l’esempio della lettura dei contratti. Il contratto è una cosa meravigliosa, nel senso che c’era la difficoltà della lingua italiana, perché per capire il tipo di linguaggio ci voleva una lezione di diritto. Poi capire cosa volevano significare non solo dal punto di vista semantico, ma anche dal punto di vista economico e finanziario. E qui subentrava quella che Sylos Labini chiamava la matematica al servizio. Quindi la disciplina non solo fine a sé stessa, ma come dovrebbe essere la vita, cioè uno acquisisce lo strumento, la materia, come strumento per incidere sul miglioramento della società, perché migliorando me stesso miglioro gli altri. Questo era il concetto che a me piace molto, quando ognuno ha cura di sé, cura anche l’altro.
Un giorno a settimana si bloccava l’insegnamento, si discuteva con il consiglio di classe aperto con gli studenti su come andavano le cose, su cosa avrebbero voluto fare, c’era questo impianto che dava l’opportunità di fare qualsiasi programma, purché dopo si doveva mediare anche con l’esame.
G.B. Una domanda: avendo a che fare con degli studenti particolari, che quindi arrivavano in classe già con un’esperienza di vita formata, come e quanto è cambiata l’esperienza e come avete aggiustato, diciamo, come avete fatto evolvere la vostra esperienza in quel contesto, attraverso la risposta, attraverso il feedback di queste persone che lavoravano?
P.A.I primi anni era abbastanza problematico, nel senso che i primi ad arrivare sono stati i delegati sindacali, tutti i delegati sindacali che non avevano la terza media venivano a prendersela…ed erano molto interessati alla lettura della busta paga. Erano meno interessati all’italiano di un certo tipo, noi abbiamo fatto delle forzature, abbiamo fatto storia del tempo presente, dal ‘48 in poi, del dopo la Resistenza, con la Repubblica. D’altra parte il tempo era poco, si è scelto di fare operazioni che tagliavano i programmi d’un certo tipo e, naturalmente, quando parlavi eri seguito. La voglia di parlare era tanta che superava anche le difficoltà di ordine linguistico che c’erano. D’altra parte un delegato sindacale, che parla in fabbrica, che tiene un’assemblea, non ha il problema dell’italiano, lo capisci e ti capisce. Poi sbaglia i congiuntivi. Ma quello che mi ricordo era che soltanto alcuni, pochissimi, parlavano in dialetto, sapevano parlare in italiano e lo parlavano da dio. Noi avevamo adeguato molto il linguaggio, su questo ci siamo formati alla scuola di don Milani, se vogliamo: Il padrone è il padrone perché conosce 1000 parole, l’operaio perché ne conosce 300. Su questo discorso del linguaggio abbiamo costruito gran parte della nostra esperienza della didattica, liberando la lingua, il vocabolario, il lessico dalle parole difficili per poter poi costruire ambiti di insieme di parole anche un po’ più complesse e quindi dargli più spessore. Ma le parole semplici sono sufficienti per qualsiasi cosa. Le grandi idee passano proprio con parole semplici, non con parole difficili. Dato che la comunicazione serve per comunicare, non serve parlare dei linguaggi in cui la gente non capisce niente. Questa operazione è quella che abbiamo fatto poi per trent’anni.
G. S. Sì perché l’iter pedagogico con l’adulto, nel corso di 35 anni, è stato appunto il protagonismo nel senso di usare la propria lingua. Ci accorgevamo che il parlato era ben posseduto, era in mano, quando cominciavano a scrivere… qualche disastro, anche di capitani di industria eh! Oppure sindacalisti, a parte qualcuno, qualche sindacalista. Però qualcuno è arrivato qui alla terza media, poi ha fatto l’università. Ricordo Alfredo Aiello che è venuto a fare la terza media, l’abbiamo mandato a Marghera e poi addirittura ha scritto un libro: “Ciminiere ammainate”, interviste dei protagonisti della storia di Porto Marghera, da un punto di vista operaio -sindacale.
G.B. Penso che voi eravate giovani – 26-27 anni – e vi trovavate con persone che si avvicinano al mondo dell’educazione dopo una vita dura di lavoro, ed erano anche più vecchi di voi, ognuno con una sua storia, con una sua visione della vita. Quindi mi interessava capire come questo scontro, questo confronto di due mondi diversi porta a una mediazione dell’offerta formativa e a un’evoluzione delle esperienze nel contesto delle 150 ore.
G.S. C’è una disponibilità di fondo, forse anche noi ci sentivamo lavoratori della scuola e questo mi permetteva, nonostante l’età, di confrontarmi, di scontrarmi con altri, che lavoravano e che venivano a scuola per migliorare sé stessi, come noi abbiamo migliorato noi stessi, ascoltando gli altri. Questo è il discorso dell’interazione pedagogica nel mondo degli adulti. Tantissimi però rinunciavano all’incarico, proprio perché se tu vai con un altro atteggiamento, poi ti trovi in imbarazzo, perché non hai questa disponibilità o il sentirsi parte di un processo e di una società; non sai come usare quel metodo di far conoscere a me stesso e agli altri qualcosa in più da 100 a 200 a 300 parole.
Non ho mai scelto il sistema di semplificare troppo, nel senso di abbassare quello che è il livello di comunicazione. Spiegare tanto questo sì, anche parole difficili. Noi diamo degli stimoli, noi siamo quelli che propongono delle opportunità; abbiamo usato il cinema, il teatro come strumento, abbiamo fatto venire esperti: Wladimiro Dorigo sulla storia di Venezia, Cesco Chinello per quella di Marghera, Sergio Barizza sulla storia di Mestre, Francesco Rizzoli per la musica.
Si capiva che un mondo diverso entrava in contatto con una realtà mai vista nella scuola.
L’intervista è stata deregistrata, rivista e rielaborata da Chiara Puppini e M. Giovanna Lazzarin. Tutti gli intervistati hanno dato l’autorizzazione alla pubblicazione del testo.
NOTE
1 Con “riforma Gelmini” si indicano le le riforme emanate tra il 2008 e il 2010 dall’allora Ministra della Pubblica Istruzione Maria Stella Gelmini, che ha riguardato tutti gli ordini di scuola e ha avuto tra le conseguenze la riduzione degli organici e delle sperimentazioni. Si veda in particolare la legge 133/2008 recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria a cui ha fatto seguito la legge 169/2008 recante disposizioni urgenti in materia di Istruzione e Università.
2 Il 14 febbraio 1984 il governo di Bettino Craxi con un decreto legge bloccò la scala mobile, cioè il meccanismo di aumento automatico dei salari che li adeguava rispetto all’inflazione. Questa data è oggi documentata da tutti i centri studi internazionali come l’inizio della rovina dei salari in Italia. Dopo alcuni mesi di grandi lotte operaie il governo corresse il decreto e ripristinò il meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’aumento dei prezzi, ma il Decreto Craxi portò a un cambiamento strutturale nei rapporti sociali e di classe del nostro paese, instillando l’idea che la scala mobile fosse causa e non conseguenza della rincorsa dei prezzi e affermando la centralità delle imprese rispetto al lavoro.
NOTA DELLA REDAZIONE
La foto dello striscione “150 ore – Venezia” manifestazione a Roma, verso il Min. Pubblica Istruzione; inizio anni ’70 è di Chiara Ghetti, che negli anni Settanta ha organizzato i corsi 150 ore nella Provincia di Venezia, prima come FLM poi come CISL.