Le città da sempre sono luoghi di incontro ma anche di scontro. In questi tempi il rischio dello scontro o del reciproco isolamento tra persone di culture differenti è molto presente soprattutto se nulla si fa per mettere in comunicazione tra loro i diversi gruppi sociali che compongono il tessuto cittadino. Qualche decennio dopo ci penserà la storia a rileggere i fenomeni per mettere a fuoco dinamiche e significati tra micro e macro storia.
Nello stile di ricerca che da sempre caratterizza storiAmestre, ovvero “l’andare a vedere” e quindi il cercare di leggere e comprendere i cambiamenti che attraversano la città nel mentre avvengono, lo scritto che segue è il frutto di un incontro tra donne: alcune che cercano di aprirsi strade di autonomia in città e altre, radicate da tempo, che provano ad avvicinarsi, a intrecciare pensieri conoscitivi comuni.
La prima parte riporta un’intervista fatta dal gruppo di ricerca di sAm Voci fuori luogo al gruppo Liber-alo durante un incontro, mentre la seconda deriva dal lavoro di rielaborazione e riflessione che alcuni componenti del gruppo Voci fuori luogo hanno intrapreso proprio per approfondire la ricerca e la conoscenza sui temi e problemi che l’incontro ha generato. Percorso conoscitivo che se da un lato aiuta a conoscere gli attuali “vicini di casa”, dall’altro evidenzia assonanze e differenze con se stessi e la propria storia individuale e collettiva. Emerge come in culture diverse vi siano tracciati esperienziali comuni, modi di fare e stare, che seppur collocati in momenti differenti della storia personale di ciascuno e della storia collettiva generale, vengono utilizzati in modo analogo.
Crediamo che questo “andare a vedere”, mettendo in comunicazione la propria storia personale e culturale con quella di coloro che si incontrano, possa aiutare a comprendere l’oggi e a far sì che le realtà urbane siano davvero luoghi di scambio e confronto e sempre meno terreno di scontro, rifiuto e isolamento.
Dove va il vento
Intervista al gruppo Liber-alo
Giovanna:« Mi piacerebbe capire come è sorto questo gruppo e ognuna di voi perché viene qui, che difficoltà incontra e qual è la cosa per cui le piace venire qui».
Hasna parla con Sazia in bangladesci poi traduce:
« Lei vede che ho voglia di creare questo gruppo, ho voglia di creare tantissime cose. Lei da sola non ce la fa a realizzare il suo sogno, quindi lei viene, partecipa per fare una cosa insieme e imparare tantissime cose».
Hasna prosegue:
« Io vorrei dire da dove nasce questa idea per il gruppo. Vivo da venti anni in Italia, da 19 anni a Mestre-Venezia. Per me l’integrazione non è stata facile, l’inserimento per me è stato molto complesso, non sapevo neanche che esistesse un corso di italiano, il Centro donna, vari servizi. Io ho conosciuto tutto dopo, ma in quel momento di inserimento in Italia, facevo fatica e tutto questo percorso [l’ho] fatto da sola. Sentivo una mancanza di consapevolezza, mancanza di informazione. Mi rendevo conto che forse ci sono i servizi, forse ci sono spazi per le donne, ma solo dopo ho imparato, ho conosciuto piano piano, non c’era nessuno che mi dava informazioni.
Anche prima di cominciare a lavorare come mediatrice linguistico culturale conoscevo alcuni bangladesci e anche loro avevano questa esigenza di conoscere vari servizi, avevano tantissime difficoltà a esprimersi, a sapere e avere consapevolezza di dove poter andare se c’è un problema. Non sapendo soffrivamo entrambi. La mia sofferenza mi ha aiutato a capire che forse sarebbe meglio trovare qualche spazio per noi, per dare informazione e aiutare altre persone che hanno stesso bisogno che ho avuto io. Questa cosa l’ho coltivata anni fa, poi piano piano ho cominciato a lavorare come mediatrice, ho incontrato tantissime famiglie in tutti questi anni, conosciuto anche da vicino i loro problemi, le loro esigenze, bisogni e vulnerabilità».
Giovanna: « Per quanti anni hai fatto la mediatrice?»
Hasna: « Questo è il tredicesimo anno. Nell’arco di questi anni è cambiata la società, cambiati un po' i servizi, i corsi, le modalità. Noi mediatrici portavamo le difficoltà delle famiglie bangladesci, delle donne.
Molte cose sono cambiate: ci sono tantissimi corsi e [possibilità di] integrazione, alla voce aiutare stranieri. Ma alla fine vedo che manca qualcosa…Provo a spiegare: una donna viene conosciuta come un’utente…: io sono operatore, tu sei utente. Tu mi comunichi, mi dici, racconti, io ti aiuto. Quello che racconti è un tuo problema. In questo modo di fare vedo che c’è uno spazio vuoto che non si riesce a esprimere con lingua italiana. Io riesco a esprimermi abbastanza bene italiano, però quando incontro una donna bangladesci [ e parlo con lei nella nostra lingua], esce tutta un’altra cosa.
Un altro punto: quando organizzano un corso dicono: dalle nove a mezzogiorno impariamo italiano, ma c’è un obiettivo e si devono rispettare le regole. Quindi io ho cominciato a pensare che forse servirebbe uno spazio dove non ci sono regole, dove queste donne verranno a parlare per stare insieme, condividere loro gioia, dolore, felicità o problemi. Non necessariamente una deve venire e raccontare tutto, può anche solo ascoltare, uno spazio libero dove la donna può venire con i bambini, senza il marito: questa è un’idea per le donne. Donne che possono venire con i bambini, perché una mamma, io penso, non può mai stare felice avendo pensiero per suo figlio. Io avevo questo pensiero: di dare una possibilità per i bambini e lasciare questo spazio per le donne. Io credo che ogni donna ha una risorsa dentro, una luce, penso che questa luce nemmeno loro la conoscono… non sanno di avere qualche capacità, qualche potenza. Pochissime donne conoscono questo essere risorsa per la società…[solo] la famiglia dà valore.
Io attraverso questa idea di fare laboratorio, di fare qualcosa insieme, voglio mostrare loro che dentro hanno una capacità, una competenza: voi sapete fare meglio quelle cose, tiratevi fuori. E sto aiutando a tirare fuori loro capacità. Dico sempre che nostro gruppo si chiama Liber-alo. Alo per noi significa luce, quindi libera la tua luce, porta fuori. Io sto aiutando le donne a portare fuori questa luce, questa competenza, questa capacità».
Incontro tra il gruppo Liber-alo e il gruppo Voci fuori luogo. 27 maggio 2023
Giovanna: « Quello che mi ha colpito del gruppo è che vi siate organizzate autonomamente. Incontri organizzati da altri per chi poi vi partecipa forse non funzionano proprio per quello che dici tu: se vi organizzate autonomamente tirate fuori le vostre cose, la vostra luce».
Hasna: « Sì, non lo si può fare sotto di qualcuno che comanda, dà le regole. Questa idea nasce così: un progetto senza progetto, senza stabilire cosa facciamo, come facciamo, no! Insieme! Credo, ho fiducia di fare qualcosa insieme. Ho fiducia sulle donne, c’è qualcosa dentro ognuna, ogni donna è nata con qualche risorsa. Io credo in questa capacità. Magari lei ha tantissime capacità, io ne ho una. Un’altra donna ha capacità di pazienza. Io non ce l’ho, ma lei ce l’ha. Non solo devo saper fare, devo saper essere! Tutte e due le cose».
Giovanna: « E Sazia e Nafisa, perché viene Nafisa?»
Nafisa parla in bangladesci e Hasna traduce:
« Quando era piccola, aveva questo sogno di poter fare qualcosa, viene al gruppo non solo per lei, anche per gli altri: aiutare persone che hanno bisogno, anziani, bambini, persone deboli, vulnerabili. Così lei, quando ha conosciuto questo gruppo, quando lei è venuta il primo giorno, lei è scoppiata di gioia, perché ha detto: finalmente ho trovato quel spazio dove posso realizzare mio sogno. Lei dice, questo non è un gruppo, è come una famiglia per lei, lei sta bene, si sente felice di venire qua per poter fare qualcosa e mostrare quello che sa fare».
Giovanna: « E Sazia, cosa dice?»
Arriva il marito di Sazia, ma resta fuori e osserva dal vetro.
Hasna: « Io non voglio mettere in imbarazzo le donne, anche i mariti sono benvenuti. Alcuni uomini pensano: ma chissà cosa sta facendo? Perché questo è forse il primo esperimento che sto facendo come una donna immigrata autonomamente, senza un supporto, anche un aiuto. Ma ringrazio tanto soprattutto il gruppo di lavoro di via Piave che mi ha dato questo spazio. Avevo questa idea da tantissimi anni e ho chiesto a tantissime persone. Tanti aiutano, fanno, ma mi dispiace, nessuno ha voluto aiutarmi, nessuno ha trovato modo. [Dicevano] ah sì, bella idea, però nessuno mi ha aiutato. Solo il gruppo di via Piave mi ha detto: va bene. Palma e Fabio».
Giovanna: « Capisco, ecco, magari, Sazia, cosa ti piace di più del venire qua?»
Dialogo in bangladesci tra Sazia e Hasna che traduce:
« Sta dicendo che lei ha saputo di questo gruppo, lei viene per stare insieme, qui riesce a comunicare, parlare e conoscere nuove persone. Sta bene. Un’altra cosa dice: questa risorsa che stiamo dicendo, questa luce che ognuna ha dentro è la possibilità di dimostrare che io sono capace, che ho una luce dentro. Quindi questo [è] stare insieme. Ormai tutti sanno che questo l’ho creato io, lei lo vede positivo e quindi viene qua per stare con le altre».
Il marito di Sazia entra e saluta. Breve dialogo tra di loro in bangladesci, ridono.
Anna: « Hasna avrà detto: perché non ti fermi qua? »
Giovanna: « Sperava che lui venisse con le brioches!»
Ridiamo anche noi.
Hasna: « Alla marmellata!»
Il marito: « Non so quante siete».
Hasna: « Prossima volta ti mando un messaggio in whatsapp».
Marito: « Bene, fa piacere, siete poche?»
Hasna: « Due al lavoro, una non so perché non c’è, un’altra non ce la fa perché sta male».
Il marito, rivolto a noi:
« Ma avete capito marito di chi? (si ride) …Io vado al lavoro adesso, ieri sera non l’ho neanche vista. Tornato dal lavoro tardi».
Giovanna: « Volevi vederla».
Marito: « Ho visto, intravisto, ma …Okey, bene, vi saluto».
Anna: « Grazie, ciao».
Hasna: dice qualcosa in bangladesci rivolta al marito che esce.
Giovanna: « Questi disegni che fate, questi ricami, questo modo di ricamare, sono del Bangla? Cos’è tipicamente vostro?»
Hasna: « Io penso che in Bangladesh, 99% delle donne sa fare questa cosa. Adesso c’è la macchina da cucire, ma una volta [solo] ago filo. Abbiamo strettamente contatto con ago filo. Bangladesh adesso sta cambiando, ma è un paese molto caldo. Periodo d’inverno non abbiamo il piumino, [è] come fosse la vostra primavera, 18-20 gradi, 15, qualche zona anche 10, ma solo per una settimana, tre giorni. Le donne utilizzano un sari usato per fare coperte lenzuola. Uniscono due o tre sari, per appesantire, si chiama notsky cata. Una cosa molto famosa in tutto il Bangla, va anche in tutto il mondo».
Giovanna: « Quello che per noi sarebbe un copriletto, per dire».
Hasna: « Un copripiumino… Da noi utilizzano meno lana, le donne hanno imparato qua. Stiamo pensando di dare opportunità a queste donne che sanno fare uncinetto, questo modello che utilizziamo per futuro».
Giovanna: « Ma l’uncinetto non è della vostra tradizione, neanche i ferri?»
Hasna: « No, non essendo freddo».
Anna: « Voi avete cotone e seta?»
Hasna: « Anche, cotone principalmente».
Discutono tra di loro in bangladesci per studiare come riempire un telo.
Hasna: « E’ vuoto, studiamo come fare il prato, le margherite».
Anna: « Posso chiedere una cosa? Tu hai fatto la mediatrice culturale, l’hai fatta con gli adulti o hai anche lavorato con le scuole?»
Hasna: « Io lavoro dappertutto, dal tribunale all’ospedale, reparto neonatale, comune, CSM, qualsiasi ambiente, anche sociale, dappertutto».
Anna: « Quindi hai avuto occasione di conoscere i vari ambienti in cui c’è bisogno di questo tuo intervento, e della scuola che immagine ti sei fatta? Della scuola italiana?»
Hasna: « Io non ho sempre una bella idea della scuola italiana e ti spiego perché. Mia figlia è nata qua, ha tredici anni e mezzo. Ha imparato solo lingua italiana. Ancora lei sente a scuola che lei è una straniera. Sì, mia figlia non parla perfettamente italiano come altri italiani, ma non fa errori grammaticali come me, perché lei è nata italiana, cresciuta qua, è l’unica lingua che parla. Capisce un po' il bengalese ma non lo parla. Ma gli insegnanti fanno sentire che lei è una straniera. Lei subisce questo da parte di insegnanti, che a mia figlia: “Ah, stai migliorando! Sei una straniera. Vieni dal Bangladesh”. Mia figlia piange per questa cosa, non può avere una bella idea».
Maria: « Prima c’erano due bambini, dove sono adesso?»
Hasna: « Andati a casa, perché abitano vicino».
La mamma dei bambini parla ad Hasna in bangladesci
Hasna: « Sono andati a casa da soli. Non abbiamo deciso ancora [ come fare], perché per i bambini serve un altro spazio per poter lavorare liberamente. Non possiamo lasciare da soli i bambini, serve anche baby sitter. Adesso vediamo quante donne [vengono], perché abbiamo cominciato la settimana scorsa».
Giovanna: « Volevo anche chiederti, Hasna, qui vicino c’è la sede del Venice Bangla School, ma quello spazio non va bene, vero?»
Hasna: « E’ una cosa diversa. Non siamo qua per imparare italiano, ma per stare insieme. Poi quello spazio è gestito da un nostro capo di comunità…»
Le donne parlano tra loro in bangladesci, ridono e scherzano.
Giovanna: « Questa esperienza ci piace molto, perché è un’esperienza di libertà femminile».
Hasna: « Vorrei portare questa esperienza anche altrove, non so dove, dove porta il vento».
A questo punto ci mostrano il telo che hanno portato a Giavera del Montello alla festa Ritmi e danze del mondo 2022.
Hasna: « Abbiamo portato questo telo e chiesto a chi arrivava di ricamare un punto. Ci sono tantissimi punti ricamati da tante mani diverse».
Ci mostrano anche le foto della danza che hanno fatto con i vestiti tradizionali bangla.
Giovanna:: « Quand’è successo?»
Hasna: « 16 luglio dell’anno scorso. Eravamo sul palco per ballare, qua abbiamo fatto allenamento. E’ stata una cosa bellissima, tutti sul palco. Donne che portano velo, hanno grande rispetto per religione, ma…»
Anche Sazia e Nafisa parlano di questa esperienza in bangladesci e ci fanno sentire la musica.
Giovanna: « I colori degli abiti sono particolari?»
Hasna: « Sono primaverili, il primo giorno di primavera in Bangladesh festeggiano le donne e si rappresenta il rosso, giallo, verde».
Giovanna: « Mi piacciono la musica, le danze che avete fatto, una ricchezza anche per tutti e tutte… aiuta a star bene in questa città».
Hasna: « Qua, in Italia, Londra, in tutte le parti del mondo, tu quando decidi per un’idea bella, sempre c’è una parte di negazione o di negativo. Io sto affrontando anche questo, so che nella comunità bangla c’è anche questo vento, [questa] spinta. Ma sono decisa, determinata nella mia idea. Non sto facendo male a nessuno. Non è un centro che sto dicendo: donne, dai divorziate dal marito. Donne combattete per qualcosa. Io dico: donne combattete per conoscere voi stesse. Conoscere non fa male. Come io non sto facendo male di nessuno, non ho paura di nessuno».
Giovanna: « Un cambiamento nella cultura, verso maggiore libertà, ma ci dici che è difficile cambiare».
Hasna: « Non viene così semplice, facilmente. Ho imparato la libertà personale [come] donna bangladesci, nessuno mi dice: tu sei libera! Perché mi deve dire qualcuno che sono libera? Sono nata libera. Non è che la libertà si dà un kilo o un etto nel latte, ma libertà la devo sentire. Non è che qualcuno o qualcosa mi porta la libertà. La libertà è mio diritto, mio pensiero. Nessuno mi può obbligare a sentirmi che io non sono libera. Ognuno di noi stiamo coltivando questa idea che siamo liberi. Non utilizziamo male questa libertà, ma per conoscere noi stesse. Altrimenti restiamo sempre nel labirinto di religione, società, cultura, permesso. No, facciamo tutto, ma sapendo che siamo liberi. Dopo viene tutto. Dobbiamo credere in noi stesse, che siamo libere. Manca nella nostra società, nessuno vuole che noi abbiamo consapevolezza di questa libertà. Una lotta con se stessa, non con sparo, con pistole, con carro armato. Una libertà di sentimento».
Giovanna: « Mi viene in mente questa borsa [mostra una borsa di stoffa], l’ha fatta una mia amica, l’ha disegnata, l’ha pensata, però lavora da sola, mentre qui l’idea è lavorare come gruppo, allora mi chiedo: cosa c’è di speciale nel lavorare come gruppo?»
Hasna: « Io penso che a lavorare insieme, non solo conta quello che vedo, ma conta il respiro che sta girando dentro ognuno, lo sguardo, anche il silenzio conta tanto. A noi mancano queste cose, siamo abituate a stare sotto comando di qualcuno, può essere padre, fratello, marito, suocero, suocera o figlio […] come essere senza una identità. Noi donne dobbiamo essere conosciute da qualcosa o da qualcuno».
Maria: « Quando ero bambina, quando passeggiavo, mi chiedevano sempre: di chi sei figlia? Tu esistevi come figlia di. Dopo diventavi: di chi sei moglie? Quando il mondo è diventato più libero: con chi stai?»
Hasna: « Sicuramente quando cammino, tantissime donne che non mi conoscono dicono: Bhabhi, come stai? Non essendo io moglie di nessuno, si può dire cognata. Se non sei moglie devi essere Bhabhi. La società ancora non è così avanzata da poter dire: potrebbe essere non sposata, oppure divorziata oppure vedova. Quindi Bhabhi. La nostra rappresentazione in emigrazione avviene soprattutto attraverso un rapporto, una relazione con qualcosa, con qualcuno. Se io sono anziana, nel senso di 50 anni o mezza età, non lo so, si potrebbe dire zia, nonna. Quindi il riconoscimento avviene attraverso un legame. Perché non posso essere conosciuta con il mio nome? Anche se ti chiami Boudurnessa, si deve dire Bhabhi Boudurnessa, oppure Nafisa Bhabhi.
Però … loro [si rivolge alle altre bangladesci presenti] non mi chiamano Bhabhi, ma sorella, io sono loro sorella ».
Giovanna: « Sorella come si dice?»
Hasna: « Apa».
Giovanna: « Noi Apa… allora .. »
Hasna: « Volete assaggiare tè, biscotti? Noi qui,condividiamo… So che questo cammino sarà difficile, è stato difficile. L’anno scorso avevamo un gruppo, quest’anno stiamo modificando un po’, perché dove c’è conflitto, dove idee non si incrociano, meglio cambiare strada. Sto cambiando strada, dove mi porta il vento vado, perché l’idea è di andare, di non fermarsi. Vado dove mi porta il vento».
Giovanna: « Ma le persone di Giavera dell’anno scorso sono qui?»
Hasna: « Sazia è nuova, …siccome hanno 3-4 bambini, oppure hanno problemi in famiglia, due tre donne sono in Bangladesh, una lavora, una è malata. Due donne hanno avuto un bambino. Nafisa…Stiamo imparando a chiamarci con il nome, non Bhabhi … Hasna».
Prendiamo insieme tè, biscotti e latte. Il tè è buono, ma ha un gusto strano.
Giovanna: « E’ profumato».
Anna: « Avete usato latte in polvere?»
Hasna: « Sì»».
Anna: « Forse è quello il profumo».
Giovanna: « Ci sono spezie?»
Hasna: « No, non mettiamo spezie, non bustine, voi utilizzate bustine, ma lì mettono conservante per conservare lungo tempo, non c’è filtro, da noi vendono [tè] sciolto».
Buono, molto buono prendere il tè insieme chiacchierando.
Il dopo intervista nel gruppo Voci fuori luogo
Il gruppo Voci fuori luogo ha ascoltato la registrazione, letto la trascrizione e ne ha discusso insieme a lungo. Alcuni hanno anche scritto pensieri, ricordi, domande suscitate da quanto emerso nell’incontro con il gruppo Liber-alo, che potete leggere di seguito.
Alcune parole chiave
Gianfranco Bonesso
“Tutto questo percorso fatto da sola” Questa frase mi ha fatto pensare che solo una città ricca di occasioni e opportunità permette anche questi percorsi individuali. Aver fatto la mediatrice, aver potuto incontrare famiglie e altre donne, non è una situazione che si può sperimentare facilmente nelle città italiane. Questo non lo dico per valorizzare il lavoro pubblico, ma per evidenziare le giuste dimensioni di un contesto, che pure non limita la cifra insostituibile della carica individuale, che ha favorito la costruzione di reti e la ricerca del tempo liberato.
Alo-luce, libera la tua luce, porta fuori. Tra le parole chiave, mi ha colpito Alo, la luce. Parola ricorrente, magnetica per chi la pronuncia e molto significativa anche per tutto quello che evoca. Luce di volta in volta rappresenta la risorsa creativa, presente nell’ “anima”. Una potenzialità che può essere fatta emergere dalle donne, liberandola. Luce è competenza potenziale. La luce esprime anche la volontà del farla uscire. Una luce che tutte hanno dentro. Anche lo stare insieme liberamente esprime questa luce. E sembra che la luce sia anche sinonimo di cambiamento e di libertà.
Da antropologo mi piacerebbe capire da dove venga questa specifica idea della luce.
Il venire alla luce (nascere) mi sembra un processo molto simile a quello descritto da Hasna. Ma intravedo anche i processi maieutici del trarre la luce dall’allievo.
La luce ricorda sia l'illuminazione del Buddha sia la luce dei testi Sufi indiani e arabi, entrambi fenomeni culturali e religiosi molto vicini al Bengala.
La luce contrapposta alla tenebra è presente in tutte le nostre tradizioni culturali e religiose, cristiane e non, ad esempio gnostiche. È persino fondamento della “religione laica” della razionalità, storicamente rappresentata dall’Illuminismo e dalla filosofia tedesca.
Non so se questa mia reazione sia impregnata di esotismo, in qualche modo rintracciabile nell’Orientalismo, tanto criticato da Edward Wadie Said1. Eppure l’evocazione di questa luce onnipresente mi spinge a cercare lontano.
Il mio nome. Vorrei metterlo in relazione con il termine di parentela che viene dal paese di provenienza. Termine di parentela che è termine anche di rispetto, termine con cui ci si rivolge amichevolmente ad uno sconosciuto facendolo entrare con una parola nella cerchia della famiglia. La questione è il recupero del nome individuale, ma anche il rifiuto dei termini di parentela che vengono dal paese di origine.
Hasna non vuole essere chiamata Bhabhi (la cognata, o meglio la moglie del fratello maggiore nella terminologia dell’India settentrionale). E’ un termine di rispetto, che fa appartenere la persona a cui ci si rivolge soprattutto alla classe di età del fratello più grande, ma indirettamente definisce anche il suo status come sposata. Ma Hasna si ribella, perché devo essere definita sposata? Perché non essere chiamata solo col mio nome? Questa è una rottura con i sistemi di onore, di classificazione e di rispetto di un gruppo e con tutto quello che implicitamente veicolano.
Poi c’è un passaggio in cui lei dice, che comunque loro la chiamano “sorella” e non Bhabhi, ma Apa2.
Libertà. Un’altra parola chiave, interessante per come è considerata, la libertà.
Una libertà delle donne, prima di tutto.
Una libertà che si deve sentire.
Una libertà che non viene da fuori, nessuno ti libera.
Una libertà che è consapevolezza, che come la luce viene da dentro di sé.
Una libertà che è credere in se stesse.
Una libertà di sentimento.
Una libertà per cui si lotta prima di tutto con se stesse.
Una libertà che non vuole troppe regole (per esempio del gruppo: tempi, modi, ecc.).
Una libertà che non vuole custodi, neanche se sono i familiari.
Una libertà che si sente nel respiro, nell’aria intorno.
Credo che questo senso di libertà l’abbiamo provato in particolare noi, quelli e quelle della mia generazione, alla fine degli anni ‘60 e tutti gli anni ‘70. Probabilmente in maniera diversa tra maschi e femmine, ma sicuramente in modalità che riguardavano le parti sociali e politiche, ma anche quelle emozionali e le regole di vita.
Pensieri per ridurre la distanza
Maria Giovanna Lazzarin
Accanto a tante differenze mi pare che emergano, in questo incontro tra noi, tanti sentimenti, esperienze, pensieri in cui ci ritroviamo. Ascoltare questa registrazione mi ha emozionato e fatto tornare a quando avevo Giacomo piccolo, un anno, due anni, 1977-78. Lavoravo come insegnante e mi piaceva incontrarmi con un gruppo di insegnanti del MCE (Movimento di Cooperazione Educativa). Mi aiutava a conoscermi, come dice Hasna, a trovare delle risorse anche per il mio lavoro, mi appassionava. Ma ero sempre sulle spine. Per sentire che potevo andare al gruppo dovevo prima sistemar casa, preparar cena. Far tardi mi metteva in ansia. Mia mamma era casalinga, tutta la sua vita erano i figli, il marito. Io venivo da quella tradizione, le volevo molto bene, non era facile cambiare.
L’idea di far emergere la propria voce mi fa pensare anche ai collettivi femministi degli anni 70 in cui si cercava la propria voce3. Non a caso anche il gruppo Liberalo sorge come gruppo di sole donne che vogliono parlare liberamente senza vincoli né di tempo né di ingerenze maschili.Vedo questa radicalità soprattutto in Hasna, vedo la voglia di trovare la propria voce, la propria energia, il proprio valore, il proprio sogno, in una parola, la propria luce.
Ma c’è qualcosa di diverso rispetto ai nostri collettivi degli anni Settanta. Nell’intervista Hasna presenta la forte unione familiare, il senso del noi, presente in Bangladesh e da cui provengono. Ma una volta arrivate qui, queste donne hanno trovato anche un’altra dimensione, quella del valore personale e individuale della libertà. In Europa è una storia iniziata almeno due secoli fa, da quando inizia la lotta per il voto alle donne, dalle suffragette, dal primo femminismo. Mi colpisce che il discorso possa essere simile, che ci si possa subito intendere e capire, penso però che nel passaggio dal Bangladesh all’Italia queste donne si trovano a fare o a dover fare, dentro se stesse, un gran salto personale. Mi chiedo quanto questo processo sia in atto in Bangladesh e come lo stanno vivendo queste giovani donne che si inseriscono in un contesto in cui l’individualismo è accentuato.
Alain Touraine e i suoi collaboratori in Francia agli inizi 2000 hanno chiesto a un gruppo casuale di donne di varia estrazione sociale e diversa religione: che ruolo hanno oggi le donne nel mondo globalizzato? Come interpretano l'eredità del femminismo? Che definizione danno di sé? Dalla ricerca emerge4 che le donne intervistate detestavano la “politica” e non avevano nemmeno troppa simpatia per il “femminismo”, ma erano determinate a partire dal loro essere donna per costruirsi una vita libera in un universo in cui il velo può convivere con l'ascesa professionale, un credo profondo non esclude l'adesione a costumi laici, la tradizione sa sposare la modernità.
Ecco mi pare che questa modalità sia presente anche nel gruppo Liber-alo.
Cucire insieme
Anna Maria Mazzucco
Leggendo la trascrizione dell’incontro con Hasna mi ha colpito in particolare un punto su cui desidero soffermarmi: l’esperienza del “cucire insieme”. È un tema che ha a che fare sia con la mia infanzia e mia madre sia con la mia esperienza, già negli anni della pensione, con i gruppi dei genitori affidatari.
Da bambina amavo molto cucire insieme alle mie amiche: facevamo vestiti per le nostre bambole, era un gioco divertente che occupava le giornate estive. Mettevamo insieme scampoli di stoffe, ritagli più o meno grandi che le mamme ci davano: e ci riunivamo a casa mia, nel cortile sotto la pergola della vite, munite di forbici, metro, aghi, fili di colori diversi, ditali e, verso gli undici- dodici anni, anche della macchina da cucire che mia madre mi permetteva di usare. Riunivamo le nostre bambole, tutte ovviamente col loro nome, ben pettinate e ben vestite, sceglievamo i ritagli di stoffe e decidevamo se fare gonne, vestiti, mantelline o altro… Era un gioco molto amato. Ci piaceva tagliare e cucire insieme, fare e disfare, provare e riprovare alle bambole i nostri tentativi di taglio e cucito, a volte facevamo anche qualche piccolo ricamo (centrini per la casa per lo più), altre volte ci avventuravamo in piccoli lavori all’uncinetto o ai ferri.
A casa, la mamma la ricordo, praticamente ogni giorno, nel pomeriggio, con il suo cestino da lavoro, a rammendare calze e calzini, a cucire a macchina, ad allungare e accorciare gonne, ad allargare e stringere vestiti (i miei venivano adattati a mia sorella, più piccola di me). La mamma era brava a cucire e molto mi insegnò nella mia infanzia e adolescenza.
Ricordo anche un’altra esperienza di cucito, anzi di ricamo vissuta insieme ad altre bambine. Era l’età della scuola elementare, nel pomeriggio andavo dalle suore per imparare alcuni semplici punti per ricamare centri tavola, per fare gli orli delle tovaglie e tovaglioli. Mi piaceva lavorare con l’ago e contemporaneamente chiacchierare con le altre bambine, confrontare i lavori fatti, le scelte dei colori dei fiori da ricamare oppure consigliare e scambiare tra noi i fili colorati da ricamo, così lucenti e lisci.
Poi verso i diciassette anni, seguii con alcune amiche un corso di taglio e cucito che mi permise di fare, con mia grande soddisfazione, qualche vestito estivo per me e negli anni successivi qualche gonna e vestitino per mia figlia e i costumi di carnevale per mio figlio e mia figlia bambini. Negli anni da adulta però il cucito non fu più un lavoro condiviso con le amiche, divenne un’attività rilassante, piacevole, divertente, talvolta anche necessaria, ma sempre individuale. E lo è tuttora: mi piace cucire, ma lo faccio da sola.
Il discorso di Hasna sul cucito fatto da adulta assieme alle amiche mi ha colpita, emozionata e ha richiamato alla mente le mie esperienze infantili e adolescenziali… non senza una certa nostalgia per quel piacere dello stare insieme, del condividere, del parlare, ridere, cantare anche. L’ago e il filo mi hanno sempre attirato: hanno il potere di dare forma a un tessuto informe, unire ciò che è separato, abbellire con ricami colorati, riparare ciò che si è strappato.
Ago e filo sono strumenti fortemente simbolici che spesso, nella mia esperienza di conduzione dei gruppi di genitori affidatari vissuta per diversi anni col MCE, sono stati utilizzati per stimolare la circolazione dei racconti di affidi, il confronto di pensieri e riflessioni, lo scambio di emozioni e progetti. Parlare delle proprie esperienze di affido, talvolta dolorose e fallimentari, altre invece ricche di promesse e soddisfazioni, è più facile se ci si può appoggiare ad un “oggetto”, avere tra le mani materialmente uno strumento vero e proprio, come può essere la forbice che taglia carta corde e tessuti ( ma simbolicamente anche relazioni) o l’ago col filo che cuce, rammenda, ricama, metafora dell’imparare a ricucire rapporti lacerati, riparare strappi ed errori, colorare e abbellire con la leggerezza e il divertimento i momenti della vita… Ogni volta che nel gruppo degli affidatari noi del MCE proponevamo come occasione di partenza – animazione per il lavoro la cosiddetta “borsa degli attrezzi di lavoro” (con attrezzi veri e propri dal martello alla forbice, al metro all’uncinetto, ai ferri da lana, all’ago e al filo … perfino al trapano), lo scambio di esperienze, la ricerca di soluzioni a problemi davvero intricati fluivano con facilità. In particolare, se tra le mani di qualche genitore affidatario capitavano l’ago e il filo, allora le parole che circolavano nel gruppo diventavano un vero e proprio “cucire insieme” i pensieri, i desideri, i progetti, le difficoltà. E i discorsi che nascevano e fiorivano erano come un tessuto che gradualmente prendeva la forma di un drappo o un vestito o un mantello …
In quello che Hasna raccontava dell’esperienza del cucito collettivo sia nel suo gruppo che tra le donne in Bangladesh ho intravisto gli incontri periodici degli affidatari, in cui il cucire era ovviamente un lavoro simbolico.
Ma ascoltando Hasna ho anche pensato a Maria Lai, al suo instancabile lavoro con il filo che unisce e lega. In una delle sue opere-performance denominata Legarsi alla montagna (performance che ha interessato nel 1981 tutta la popolazione del paese sardo di Ulassai e di cui ho visto la documentazione filmata che mi ha molto emozionata) un filo azzurro lungo ventisette chilometri viene legato dai cittadini per tutto il paese a porte, finestre, terrazze. Il filo arriva fino al monte Gedili, montagna simbolo del paese. L’arte di Maria Lai diventa così arte relazionale e il filo, con cui lei ha lavorato tutta la sua vita creando opere bellissime, unisce tutti gli abitanti di Ulassai in modo diverso. Ognuno si lega al proprio vicino in modo più o meno stretto a seconda dei legami di vicinanza, amicizia, amore o contrasto…
Ho accennato a Maria Lai perché nelle sue opere ho intravisto la potenza dell’ago e filo nello stabilire relazioni tra le persone e nel far emergere emozioni, pensieri, speranze, progetti. Forse anche la luce, di cui ha parlato Hasna.
Sull’autonomia
Cate Minosso
Mentre leggevo l’intervista ad Hasna e al gruppo Liberalo mi sono venuti in mente due ricordi. Il primo mi ha fatto tornare a quando insegnavo italiano nel corso per principianti al centro civico di via Sernaglia a Mestre. Il corso era frequentato da molte donne bangladesci che venivano per imparare l’italiano, ma anche per incontrarsi e parlare tra loro. Un giorno dovevo insegnare le preposizioni su e giù e ho pensato di chiedere loro che azioni – su e giù -facevano per mettersi bene il velo. La volta dopo mi hanno portato in dono uno dei loro veli e mi hanno insegnato a metterlo. Ho trovato che mi stava bene ed era comodo. Da allora quando viene l’inverno lo porto spesso perché tiene caldo e ripara le orecchie.
Il secondo ricordo mi è venuto in mente quando nell’intervista si sente arrivare il marito di Sazia. Ero andata a casa di una giovane donna per insegnare l’italiano come lingua straniera. Il marito, un uomo d'affari della stessa nazionalità, in un italiano impeccabile, molto scrupoloso e dedicato negli affari e nella cura della famiglia, mi confessò accoratamente di trovarsi molto sotto pressione. "Io non ce la faccio più". In un contesto come quello italiano, gli era impossibile far fronte a tutti gli impegni (lavorativi e burocratici) e prendersi anche la responsabilità di qualsiasi cosa, incluso l'accompagnare la propria moglie in ogni posto lei si dovesse recare. "Io gliel'ho detto, vi dovrete arrangiare di più ed essere più autonomi, io non posso esserci sempre".
In questo contesto, l'autonomia linguistica era un elemento fondamentale.
NOTE
1 Edward Wadie Sa'id , Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli 2013, dove sostiene che la maggior parte degli studi occidentali svolti sulle popolazioni e sulla cultura d'Oriente (in particolare relative al Medio Oriente) svolsero la funzione di autoaffermazione dell'identità europea e giustificarono il controllo e l'influenza esercitata nei territori colonizzati.
2 I bengalesi in Bangladesh usano questo termine: Apu/Apa/Api per chiamare la sorella maggiore che ha la sua origine dall'urdu: Apa che ancora una volta ha avuto origine dalle lingue dell'Asia centrale. Ma i bengalesi nel Bengala occidentale/India non lo usano, chiamano la loro sorella maggiore Didi. La gente chiama la sorella Apu. È l'equivalente di Didi utilizzato principalmente dai musulmani in Bangladesh. Le persone urbane chiamano la loro sorella Apu e le persone rurali usano Apa. Note raccolte in internet, interventi liberi.
3 Penso a Carla Lonzi, che per me è stata una maestra, quando scrive:” dovevo sganciarmi dal bisogno femminile di approvazione. Dovevo affermare tutto sul nulla…fino ad arrivare al vuoto. In realtà era solo su quel vuoto – che era me stessa – che potevo ascoltare finalmente la mia voce interiore.”. In Carla Lonzi, Taci, anzi parla: Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, 1978.
4 I risultati della ricerca sono raccolti nel libro di Alain Tounaine, Il mondo è delle donne, Il Saggiatore 2000.
NOTA DELLA REDAZIONE
L'intervista è stata registrata il 18 febbraio 2023 da Maria Giovanna Lazzarin che l'ha poi trascritta integralmente e concordata col gruppo Liber-alo. Oltre a lei erano presenti Anna e Maria del gruppo Voci Fuori Luogo, Hasna, Sazia, Nafisa e Boudurnessa del gruppo Liber-alo. La redazione del sito ha fatto alcune piccole modifiche grammaticali alla trascrizione e aggiunto qualche parola, segnata con [ ], per rendere più scorrevole la lettura nel passaggio dall'oralità alla scrittura.
La foto dell'Incontro tra il gruppo Liber-alo e il gruppo Voci fuori luogo del 27 maggio 2023 è di Maria Marchegiani. La foto del telo ricamato collettivamente a Giavera del Montello è di Maria Giovanna Lazzarin. La foto dell'opera di Maria Lai Tenendo il sole per mano è di Anna Maria Mazzucco.