di Stefano Petrungaro
Pubblichiamo il testo della relazione che Stefano Petrungaro ha tenuto al primo incontro del ciclo “Fondata sul lavoro”, che si è tenuto presso la sede di storiAmestre il 26 settembre 2018.
Il dovere di avere un lavoro “normale”
Il punto di partenza di questa riflessione è quel lungo processo storico che nel corso degli ultimi duecento anni ha portato a due sviluppi: al tentativo di definire alcuni lavori “normali”, e altri no; all’imposizione del lavoro come dovere, al fine di ricevere pieni diritti sociali e in parte anche politici (per i “falliti” e chi è in carcere, per esempio, è prevista la sospensione dei diritti politici).
Etiche del lavoro ce ne sono sempre state, fin dall’antichità, e quello di lavorare è stato per la maggior parte della popolazione un obbligo da sempre, imposto dalla condizione sociale e necessario per vivere. Ma quello che è avvenuto in epoca contemporanea è stato qualcosa di nuovo, perché ha ancorato il lavoro a una serie di diritti e di doveri inediti. Con l’avanzata del capitalismo industriale ha preso forma infatti un’idea di lavoro il cui tipo paradigmatico era il lavoro industriale, caratterizzato da un contratto (per di più a tempo indeterminato), tempi e luoghi di lavoro chiaramente determinati, un salario, quindi una regolarità. Parallelamente, con la nascita del moderno Stato sociale, a quel tipo di lavori sono state collegate diverse forme di assicurazione, contro la malattia, gli infortuni sul lavoro, per la pensione (e, poi, la maternità) ecc.
Il lavoro è diventato sempre più, nel corso del tempo, oltre che il mezzo attraverso il quale il singolo dovrebbe persino “realizzarsi” personalmente, anche una questione collettiva, sociale e statale: non si doveva più lavorare solo per il padrone, o per la propria famiglia, ma sempre più per la collettività, il paese, la “nazione” e, infine, persino per la democrazia. A ognuno è così richiesto di fornire il proprio contributo in termini lavorativi. Perché, ci dicono, l’essenza della comunità politica si basa su questo, come esprime chiaramente il testo legislativo fondamentale della repubblica italiana, ossia la sua Costituzione, proprio nella prima frase del primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
E chi il lavoro non ce l’ha? O chi ne ha uno, o più d’uno, che però non sono riconosciuti pienamente, né dal punto di vista sociale, giuridico, né economico, come lavori “veri e propri”? Cos’è, un cittadino di serie B?
La questione è estremamente attuale e urgente, visto che quel lavoro che si presumeva “normale” (lo ripetiamo: quello formalizzato, con contratto regolare, a tempo indeterminato ecc.) si è chiaramente rivelato essere l’eccezione. Ne hanno goduto per alcuni decenni alcuni strati della popolazione di alcuni paesi del mondo. Gli altri, hanno sempre avuto altre forme di lavoro e, adesso, anche nei paesi “sviluppati” il lavoro “precario” notoriamente cresce e tende a prevalere, soprattutto per certi gruppi d’età (senza dimenticare le discriminazioni di genere, di classe, di nazionalità).
Il “non-lavoro”
Per capire meglio come si è arrivati alla situazione di oggi, è necessario indagarne la storia recente. Poiché la galassia delle occupazioni lavorative che rimane al di fuori di quel ristretto novero di lavori “normali/regolari” è infinita (basti pensare all’inattività del ricco che vive di rendita, alla strutturale irregolarità delle entrate di un libero professionista ecc.), è necessario restringere il focus. Io sono particolarmente interessato all’incrocio tra “non-lavoro” e marginalità sociale. Quello che mi preme capire è come prenda forma quel confine che stabilisce quando un marginale sociale sta lavorando, o “lavoricchiando”, o commettendo un reato. È un confine cruciale, poiché è quello che traccia il limite estremo del “non-lavoro”. Ma cos’è il “non-lavoro”?
Intuitivamente si potrebbe, a buon diritto, pensare a numerose sfere di attività non-lavorative: il tempo libero e il riposo, l’ozio, il volontariato, la disoccupazione. Tutti questi ambiti sono stati profondamente ridefiniti in epoca contemporanea. Vale a dire che parallelamente a quella moderna codificazione del lavoro cui si faceva riferimento prima, è avvenuta l’“invenzione del tempo libero” (come si dice in storiografia), la rifondazione dell’idea di “ozio” (che ovviamente non ha nulla a che vedere con l’otium antico), il volontariato e la disoccupazione moderni (l’idea di “disoccupazione” attuale è un’invenzione di circa un secolo e mezzo fa: è la risposta alla domanda “chi ha diritto a forme di sostegno per via della sua disoccupazione?”. Allora come oggi, non bastava esser senza lavoro, andava definito, anche qui, il confine tra chi meritava l’aiuto, e chi invece andava condannato). Anche il lavoro coatto e quello penale hanno subito notevoli ripensamenti (si pensi alla storia della schiavitù, allo sfruttamento come manodopera di prigionieri di guerra o deportati, ecc.). Tutto questo potrebbe essere legittimamente considerato non-lavoro rispetto a quel lavoro “normale” che abbiamo definito in precedenza.
Ma c’è anche un altro modo di intendere quella categoria, ed è quello scelto da me, in compagnia di diversi studiosi. Con “non-lavoro”, sulla scorta di quanto sostengono soprattutto alcuni sociologi rispetto alla contemporaneità, ci si può riferire ai “lavori irregolari”, tutto quel “resto” che si configura come una deviazione da quella presunta “norma”, ovvero l’infinita lista di attività lavorative non pienamente (o per nulla) considerate tali perché non continuative, prive di un’entrata fissa a cadenza regolare o non retribuite affatto, non definite per mezzo di orari di lavoro, non vincolate a un luogo di lavoro. Sono occupazioni che si trovano facilmente in basso nella gerarchia del lavoro. Hanno uno status (giuridico, sociale) talmente precario, che alcuni di essi – quelli che maggiormente interessano a me – rischiano continuamente di scivolare del tutto al di fuori della sfera non solo del lavoro, ma persino del non-lavoro, e di essere dichiarati semplicemente dei reati. Credo che uno schema, per quanto approssimativo, può aiutare a visualizzare quello che sto cercando di sostenere.
Perché usare la categoria “non-lavoro”? Ovvero: cosa mi interessa studiare?
La storia del lavoro ha tradizionalmente trascurato la galassia dei non-lavori. Ciò risente in parte dell’impostazione marxiana, che indicava chiaramente la classe operaia industriale come i “lavoratori” sui quali investire per la rivoluzione e il progresso della società, ed esprimeva il massimo disprezzo e una profonda sfiducia nei confronti di quel Lumpenproletariat di straccioni essenzialmente antirivoluzionari. Così, anche molti storici di ispirazione marxista hanno sviluppato nel tempo una importante messe di studi che si concentrava sul “movimento operaio”, con questo intendendo perlopiù i lavoratori industriali e le loro strutture organizzative (partiti, sindacati, ecc.), ed escludeva invece gli altri.
A questa visione angusta del “lavoro” hanno reagito, da sempre, le rappresentanti dei movimenti femministi, mettendo al centro della riflessione il lavoro domestico, anch’esso non riconosciuto, benché parte integrante dell’economia di ogni famiglia, società, e dello stesso sistema capitalistico.
A partire dagli anni Settanta anche nelle discipline umanistiche e sociali ha avuto luogo un rinnovamento teorico e metodologico, che ha portato a investigare con nuovo spirito temi come la storia della povertà e dell’assistenza ai poveri, del disciplinamento sociale, dei marginali, e più in generale la storia “dal basso”.
Se a questo aggiungiamo i ricchi sviluppi della microstoria, della storia antropologica, di quella di genere e culturale, nonché degli studi storico-economici sul “settore informale”, capiamo bene perché si è arrivati, nel quadro della cosiddetta “new labour history”, a una dilatazione della nozione di “lavoro”, che arriva a includere anche le attività prima escluse.
Perché allora servirsi comunque della nozione di “non-lavoro”? Io credo che possa essere utile nel caso di certi mestieri, ossia quelli esercitati da attori sociali marginali, proprio a sottolinearne il carattere subalterno rispetto ad altri lavori ritenuti non solo più nobili, ma anche pienamente riconosciuti in quanto tali. Il mendicante, il domatore d’orso, la prostituta (nei contesti in cui la prostituzione non è illegale), la chiaroveggente, sono individui che per vivere praticano attività che non si collocano – per riferirmi allo schema soprariportato – all’interno del quadrato del “lavoro”, ma nemmeno nel tondo delle “attività illegali”. Sono in mezzo, “precariamente” nel mezzo. Segnano appunto il confine tra i due ambiti. Una zona di frontiera ampia ed estremamente mutevole. Capirne le dinamiche significa capire meglio, di riflesso, come funzionano meccanismi importanti che regolano una società intera. Significa cioè mettere a fuoco processi di inclusione/esclusione sociale, di discriminazione di genere, di disciplinamento e ingegneria sociale.
L’utilizzo della categoria “non-lavoro” non implica un giudizio di valore. Usandola, io non intendo sostenere che non siano lavori, lavori seri, lavori buoni. È la società stessa in cui quei soggetti operavano a definirli tali. Forse non necessariamente usando queste parole, ma intendendo questo significato. Quella nozione mi permette allora di racchiudere in una sola espressione un insieme di attività, nonché un intero contesto culturale, sociale e giuridico, che intendo decostruire e osservare. È forse arrivato il momento, a questo punto, di fornire un esempio concreto.
Il caso dei venditori ambulanti nel Regno di Jugoslavia tra le due guerre
La vicenda dei venditori ambulanti nel mio caso di studio, che è la Jugoslavia tra le due guerre mondiali, inizia con un attacco a quel mestiere. Poco dopo la fine del primo conflitto mondiale, nuove misure legislative vengono introdotte per restringerne la praticabilità, o vietarlo del tutto, come avviene per esempio in Vojvodina, nel nord della Serbia, nel 1921. Tutti i rappresentanti della classe politica sembrano essere unanimemente d’accordo: sindaci, camere di commercio e dell’artigianato, governatori distrettuali: tutti contro. Le motivazioni? Schematicamente:
a) rappresenta il principale metodo per la diffusione di notizie false e allarmanti (argomento legato all’ordine pubblico);
b) è praticato perlopiù da non-Serbi, anzitutto ebrei, tedeschi e ungheresi, che di fatto sono spie (argomento questione di sicurezza nazionale);
c) è superfluo, ci sono già ottimi negozi e le infrastrutture sono migliorate (argomento economico);
d) è spesso una truffa, perché gli ambulanti raggirano gli ingenui contadini (argomento etico).
Ne dobbiamo concludere che la storia del commercio ambulante nel caso in esame si possa ridurre a una storia di repressione? No, perché in verità, fatta la legge, subito si iniziarono a introdurre le eccezioni. Già nel 1922 si riapre alla possibilità di vendere di casa in casa i prodotti della locale “industria domestica”. E poi, anche i coralli e le spugne dalmate, a guardar bene, si ripensò che fossero benvenuti. E anche i ćilimi (tappeti) erzegovesi. E via dicendo, di eccezione in eccezione.
Similmente, se certi documenti istituzionali chiariscono senza possibilità di equivoco che si trattava di un’attività considerata anti-moderna e anti-economica, il cui destino era solo quello di essere eliminata, è però anche vero che sono numerosissimi gli esponenti di istituzioni locali e regionali che si attivano in difesa degli ambulanti.
Conclusione: quello della marginalizzazione del commercio ambulante in Jugoslavia fu un processo altamente contestato. Non vi furono automatismi né sviluppi lineari. E un ruolo non marginale fu giocato dai marginali stessi, ossia dagli ambulanti, pronti a battersi per i propri diritti. Se c’era bisogno di organizzarsi collettivamente, non si tiravano certo indietro.
Inizia così il capitolo dell’attivismo organizzativo degli ambulanti. Subito nascono numerose associazioni a livello locale e ben presto (1924) anche la prima a livello nazionale, con sede prima a Zagabria, poi (1929) a Belgrado. E furono azioni coronate da notevoli successi. La Lega degli Ambulanti Serbi, Croati e Sloveni, questo il nome (d’ora in poi, Lega Ambulanti), riuscì ad accreditarsi presso le più alte istituzioni governative come il referente istituzionale per l’intera categoria professionale. Il Ministro degli Interni affidò subito all’organizzazione il delicato compito di rilasciare dei documenti d’identificazione, da esibire alla polizia. Quasi dei permessi di lavoro. La Lega Ambulanti acquista così il ruolo di mediatore tra le istituzioni governative e gli ambulanti.
Kucarac: testata dell'organo della Lega degli Ambulanti (Zagabria, 1 gennaio 1925).
Fonte: Archivio della Jugoslavia, Ministero dell'Industria e Commercio, 65-79-310, f. 1926.
L’immagine pubblica diffusa dalla Lega Ambulanti era in netto contrasto con quella incontrata all’inizio di questo paragrafo. Altro che spie, inaffidabili e anti-economiche. Essa rivendicava con orgoglio una lunga e onorata carriera dei propri membri, in giro per tutto il mondo, sempre riconosciuti per la loro alta professionalità e moralità, ora anche per la loro lealtà dinastica. E il ruolo economico del mestiere era senza alcun dubbio estremamente positivo, permettendo all’abitante di luoghi isolati di comprare oggetti utili, per i quali altrimenti si sarebbe dovuto recare in città, perdendo tempo prezioso da dedicare al lavoro dei campi. Altro che anti-moderna: era lo Stato jugoslavo che doveva ammodernarsi e cambiare quelle sue leggi ormai vecchie e superate!
Chi era allora il nemico della Lega Ambulanti? I commercianti sedentari e le loro Camere di commercio? Certo, con quelli era in corso una tesa e costante battaglia, ma c’era un soggetto forse ancor più pericoloso. Erano i membri di quelle masse di poveracci, “venditori di strada”, che – si legge nei documenti dell’associazione – propinano “articoli inverosimili” e sono “al di sotto di ogni standard igienico e di decoro”. Sono loro la contro-parte del “vero” ambulante, l’Altro più prossimo, da stigmatizzare e condannare.
È una dinamica costante nel mondo del non-lavoro. È l’espressione del conflitto sociale che si svolge all’interno di questa dimensione, dove alcuni tentano di migliorare la propria posizione, a scapito di altri. La battaglia combattuta dalla Lega Ambulanti è quindi duplice: a favore del riconoscimento sociale e dell’accettazione legale degli ambulanti regolari; e contro la vendita ambulante irregolare, quindi a favore di una sua repressione più effettiva.
La Lega Ambulanti ottiene grandi successi nella sua azione di lobbying: negli anni i delegati dell’associazione riescono a farsi ricevere da ministri dell’interno, dell’economia, persino dal Primo ministro. Che non solo concedono udienza, ma li ascoltano seriamente. Tant’è che la nuova “Legge sugli esercizi commerciali” (1931) riconosce ufficialmente il commercio ambulante, oltre che la Lega come organo di rappresentanza ufficiale.
Quella che era iniziata con un divieto, come una classica vicenda di repressione di un’attività lavorativa minore, ritenuta marginale, finisce, grazie anche all’attivismo degli ambulanti stessi, con il riconoscimento ufficiale della legittimità di quella professione. Nei termini del nostro schema, gli ambulanti jugoslavi sono riusciti a spostarsi dall’ellisse al quadrato. I quasi mille delegati al convegno nazionale di Belgrado nel 1932 dichiararono di essere piuttosto “soddisfatti” dei recenti risultati ottenuti. Direi che ne avessero buone ragioni.
Il caso degli artisti di strada nel Regno di Jugoslavia tra le due guerre
Se ho deciso di dedicare ancora alcune righe a un altro gruppo professionale che, come gli ambulanti, lavora in strada e muovendosi nello spazio, è perché questo secondo gruppo rappresenta un’esperienza molto diversa.
Anche in quest’ambito, come sempre, prese forma una chiara gerarchia interna. Se al vertice stavano i grandi circhi, sostanzialmente visti con una certa simpatia dall’opinione comune (“È arrivato il circo in città!”, giubilavano i quotidiani), la posizione intermedia è occupata dalle attrazioni e dai divertimenti da fiera, come caroselli, tiri al bersaglio e altalene. Questi ultimi forse non promossi a pieni voti (c’è sempre il pericolo che distraggano troppo la popolazione, soprattutto i giovani, che dovrebbero tutti pensare a lavorare), riescono comunque sempre a ottenere i permessi di lavoro e a esercitare la propria attività senza troppe difficoltà.
Tošo Dabac, Lo show del clown. Tratto da Tošo Dabac. Zagreb tridesetih godina, Zagreb, ATD – Arhiv Tošo Dabac, 1994, p. 56.
Quelli che occupano i gradini più bassi della gerarchia dell’artista di strada sono i girovaghi, quali i musicisti, i saltimbanchi, i clown e i maghi. Se si considerano le domande inoltrate alle autorità di polizia per il rilascio del permesso di lavoro, e se si comparano le domande dei venditori ambulanti con quelle degli artisti itineranti, si notano chiare differenze. Se i primi mostrano orgoglio e una certa sicurezza di sé, i secondi non indugiano certo a sottolineare l’utilità economica della propria attività o i loro diritti. Piuttosto, quello che sottolineano è lo stato di necessità, la loro povertà, e chiedono quasi di avere pietà.
In effetti, anche ufficialmente erano considerati come una forma mascherata di accattonaggio: sui permessi di lavoro si legge che l’intestatario (erano tutti uomini) è autorizzato “a raccogliere milodare (che significa offerte, ma anche elemosina) suonando l’organetto”. Più che un vero lavoro, è quindi ritenuta una forma di accattonaggio eccezionalmente accettata. Si colloca così ai veri margini della sfera delle attività legali (comunque ancora al suo interno).
Ottenuto il libretto di lavoro, era necessario un ulteriore permesso dalle autorità di polizia locali. L’analisi di tutti questi permessi collezionati all’interno del libretto di lavoro permette di capire come il sistema di controllo funzionasse concretamente. Quello che balza agli occhi è che raramente un artista girovago poteva fermarsi in un luogo per più di due giorni. Sospetti come sono sempre i soggetti in movimento, venivano presto allontanati.
Una pagina del libretto di lavoro di Viktor il mago. Fonte: Archivio Croato di Stato, 1545 fond iskaznica, b. 3.
E allora, per farla molto breve: il sistema di controllo, pensato per monitorare alcune categorie di persone a causa dei loro movimenti e di una loro sgradita “nomadicità”, finiva con l’aumentarne la mobilità. Se lo Stato jugoslavo, come tutti gli Stati moderni, guardava con sospetto e disappunto le persone che rinunciavano a una “normale” sedentarietà (che permette un controllo molto più facile), la principale ricaduta del sistema era paradossalmente di promuovere i loro spostamenti, resi ancora più veloci.
I permessi autorizzavano a rimanere, ma solo per un brevissimo tempo. Di fatto i permessi per rimanere obbligavano ad andarsene, e presto.
Questa prassi rivela molte affinità con quelle riguardanti vagabondi e elemosinanti, prassi che non miravano a risolve situazioni a volte effettivamente difficili, ma che semplicemente le spostavano più in là, scaricandole altrove, sul paese vicino.
In sostanza, gli artisti di strada erano persone non grate. Non si arrivò a proibire la loro professione, si tentò piuttosto di normarla e mantenerla, o spingerla ancor più, ai margini del non-lavoro.
Per concludere
Una conclusione generale: i due casi di non-lavori qui brevemente illustrati racchiudono esperienze molto differenti. Essi ci ricordano come la galassia del non-lavoro dei marginali sia estremamente eterogenea. E anche variabile: la precarietà del loro status (giuridico e sociale) può far sì che, anche nel giro di poco tempo, un’attività si sposti verso il polo del “lavoro” riconosciuto, oppure verso quello dell’attività vietata, ossia illegale. Cosa sia un lavoro, cosa sia un non-lavoro, e cosa sia un crimine, lo decidono sempre processi storici. Abbiamo sempre a che fare con costrutti sociali, che possono variare nel tempo. In che direzione e con quali forme, dipende da molti fattori. Uno di questi è senz’altro la capacità di organizzarsi collettivamente, di unire le forze, di mettere in campo strategie di resistenza.
Anche a questo riguardo i due esempi brevemente richiamati mostrano esperienze radicalmente differenti. Se gli ambulanti sono stati in grado di mettere in campo una vincente resistenza organizzata, gli artisti di strada hanno invece opposto una resistenza più informale. Questo non può non aver influito sugli esiti: se i primi sono stati sì marginalizzati, ma solo inizialmente e poi con molti ripensamenti, al punto da guadagnare un certo riconoscimento giuridico e pubblico, i secondi sono invece stati più chiaramente sospinti all’interno della sfera del “non-lavoro vero e proprio”.