di Mario Infelise
Dopo quanto accaduto a Parigi e in Francia il 7 e 9 gennaio, abbiamo chiesto ad alcuni amici di mandarci un loro contributo, in segno di condanna degli attentati, di solidarietà per le vittime, e allo stesso tempo per superare i sentimenti di paura e isolamento che questi tragici avvenimenti provocano e cercare di scambiare idee su quel che sta accadendo e sulle conseguenze che ne deriveranno. Mario Infelise è stato il primo a raccogliere il nostro invito, riflettendo storicamente su uno degli aspetti della vicenda, e cioè sul tema della libertà di espressione.
Ancora a caldo è difficile comprendere tutte le implicazioni di quanto è successo. Emerge invece a pieno la sgradevolezza di un insieme, in cui tende ad assumere evidenza soprattutto il peggio. Basta leggere i commenti dei lettori ai giornali on-line, da qualsiasi parte provengano, per non riuscire a vedervi niente di buono. E anche quando si evitano i luoghi comuni più truci, è difficile uscire dalla retorica. Sì, d’accordo: “Je suis Charlie”, ma di fatto la sensazione prevalente è che abbiano vinto gli altri. Dove gli altri sono i fautori della guerra santa o della crociata, ovvero dell’intolleranza da una parte e dall’altra. Oppure – ed è questo forse l’aspetto più problematico – quelli che invocano la misura e che la satira va bene, ma più di tutto conta il rispetto.
Non serve qui ricorrere a qualche bella citazione famosa a favore della libertà della stampa e rileggersela per tranquillizzarsi. Ce ne sono tante a partire da quanto ha scritto John Milton nel 1644 nel primo pamphlet esplicitamente contro la censura. Ma, come dicevo, tutto questo ora suona retorico. Perché non c’è solo l'assassinio dell'intera redazione di un giornale – e non dimentichiamo anche di alcuni ignari avventori di un supermercato kosher – c’è anche il panico di fronte alle conseguenze che questo gesto avrà su scala più ampia e sul lungo periodo. Lo si avverte già oggi, a distanza di un solo giorno dalla grande manifestazione di Parigi.
La questione è complicata. Nelle reazioni più diffuse l’appello alla moderazione mi pare stia assumendo un peso crescente. Come da subito hanno teso a fare inglesi e americani, che solidarizzano con i francesi (quando non dicono che se la sono cercata), ma non pubblicano le vignette, o come Mark Zuckerberg per il quale Facebook non censura nulla, tranne quanto appare nei luoghi in cui di Maometto non è possibile parlare. E in effetti mai come oggi risulta chiara la differenza tra la libertà francese (e quella continentale) e quella americana, tra la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (in cui si dice che ogni cittadino può parlare e scrivere liberamente salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge) e il primo emendamento della costituzione americana di due anni dopo, che sembra scritto in contrappunto. Dove si scrive che non ci può essere legge che regoli la stampa e la libertà religiosa, ma dove evidentemente si costituisce un rapporto tra le due cose ponendo di fatto limiti impliciti. È d’altra parte noto che nella storia europea continentale la libertà di espressione è stata raggiunta contro la religione dominante ed è garantita dallo stato. In America invece è il perno dei diritti dell’individuo, ed è associata alla libertà di praticare qualsiasi religione. Il problema diviene quindi far convivere religioni differenti, senza lasciarne prevalere alcuna. Il cosiddetto laicismo in America è incomprensibile. Questo, credo, possa spiegare la distanza assunta dai giornali americani e la mancata presenza a Parigi di un alto rappresentante del governo.
L’insistenza nelle discussioni degli ultimi giorni su queste distinzioni lascia pensare che gli attentatori qualche risultato l’abbiano già ottenuto. Credo che avesse inquadrato perfettamente la situazione il giurista napoletano Gaetano Filangieri nel 1780 che aveva teorizzato l’importanza di stabilire una libertà di stampa senza riserve. Era del tutto consapevole anche dei rischi e degli abusi che questa poteva comportare. Ma non vedeva altra soluzione. L’unico rimedio possibile ai danni prodotti dalla libertà della stampa era la stessa libertà della stampa: “se il male che l'uomo può far colla stampa, può esser difficilmente occultato e facilmente riparato, e quello che può far colla spada, può esser facilmente occultato e difficilmente riparato, perché temer più la stampa che la spada, e spiare colui che scrive, e non colui che è armato?”.
Parole chiarissime che possono servire anche nella situazione attuale, a patto che si accetti di dover digerire di tanto in tanto anche manifestazioni ripugnanti della libertà di pensiero. Ma se occorre invece distinguere tra ciò che è satira e ciò che è bestemmia, sarà fatale pensare anche a qualcuno che avrà l’incarico di decidere i limiti.
Il pericolo è appunto andare in questa direzione. Temo che passata l’ondata dell’indignazione, saremo sopraffatti, oltre che dai controlli, dagli appelli alla ragionevolezza e alla necessità del rispetto. Già oggi si parla di rivedere gli accordi di Schengen sulla libera circolazione e di intensificare i controllo sul Web. E se non trionfa la censura, trionferà l’autocensura, anche in nome della correttezza politica, che ha certamente delle ragioni, ma che spinge a chiudere gli occhi e le bocche. Una vignetta di Robert Mankoff del New Yorker del 2012 rappresenta efficacemente questa situazione: un foglio bianco ed una scritta: “please enjoy this culturally, ethnically, religiously and politically correct cartoon responsibly. Thank you”.
Sarebbe tuttavia facile fermarsi qui, non lasciandosi prendere dagli ulteriori interrogativi che vengono dalla storia. È lì che sorge il dubbio che la cosiddetta “libertà di espressione” funzioni solo se gli estremi opposti del dicibile sono piuttosto ravvicinati (era così nel nord Europa, forse negli Usa). Quando la varietà delle opinioni tende ad allargarsi e a prefigurare ipotesi possibili del reale molto diverse, se non antitetiche, i problemi prima o poi tendono a venir fuori. Attorno al 1989 pensavamo di andare per la prima situazione, invece ci siamo trovati ricacciati senza preparazione nella seconda.
Esattamente in questi giorni 500 anni fa (era il 16 gennaio 1515) Aldo Manuzio, il grande editore rinascimentale, cattolicissimo, pubblicava una bella edizione del De rerum natura del poeta latino Lucrezio, che ha un’idea di Dio e della natura incompatibile con quella cristiana e che è alla base dello scetticismo moderno. Nella prefazione avvertiva i lettori che si trattava di un’opera zeppa di errori inaccettabili per un buon cattolico. La riteneva però straordinaria sul piano letterario e credeva che questo bastasse per giustificarne la pubblicazione. Solo pochi mesi dopo avrebbe avuto difficoltà a scrivere le stesse cose. Nel 1517 iniziò la predicazione di Lutero e da allora partì la reazione della Chiesa di Roma. Seguì almeno un secolo di repressioni e di violenze d’ogni genere in nome di Dio, che ebbero come conseguenza immediata e appariscente la drastica eliminazione della libertà precedente. Nel 1524 Erasmo da Rotterdam, che subì come pochi altri il clima di quegli anni, invitava a guardarsi attorno: “considera – scrisse – a una a una le tragedie che funestano il mondo: ti renderai conto che la sorgente di tutti i mali è la cattiva lingua”. La cattiva lingua, appunto. Da quel momento per molti anni le violente limitazioni alla libertà di parola sono sempre state giustificate e accolte senza sostanziali obiezioni come indispensabili alla pacifica convivenza. Ci sono poi voluti quasi due secoli per iniziare a pensare di rimuoverle.
Nota
Dalla Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen del 1789:
“La libre communication des pensées et des opinions est un des droits les plus précieux de l’Homme: tout Citoyen peut donc parler, écrire, imprimer librement, sauf à répondre de l’abus de cette liberté, dans les cas déterminés par la Loi”.
Dal First Amendment of the 1791 Bill of Rights, Congress of the United States,1791:
“Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances”.
carlo crotti dice
Proprio nel nome di quella libertà d’espressione che è stata violata il 7 genn a Parigi, mi permetto allargare il tema della libertà di stampa ed estenderlo al rapporto tra le due grandi religioni. Poiché le ragioni del primo dipendono dalle impostazioni del secondo.
Non è la prima volta che l’occidente affronta l’intolleranza musulmana sul diritto di esprimersi. Come dimenticare che già nel 1989 in GB la comunità islamica al completo scese nelle strade per bruciare un libro “Versetti satanici” e chiedere la morte dell’autore (Salman Rushdie)? I giornali inglesi allora paragonarono le scene di Bedford – una delle cittadine a maggior concentrazione musulmana del Paese – con il rogo dei libri di Norimberga, preludio del nazismo.
La seria minaccia allo scrittore fu avvertita da molti come un fatto che riguardava lui solo. E ci sbagliavamo!
Negli anni 90 una ferocissima lotta contro l’estremismo islamico del GIA si svolse in Algeria con 200.000 morti. Anche in quel caso ci volgemmo da un’altra parte, come se fosse un fenomeno locale e circoscritto nel tempo. E ci sbagliavamo! In entrambi i casi non si parlò di Palestina, Israele, Irak Somalia… per giustificare i disordini o le stragi.
Ritengo sarebbe il caso ed il momento di approfondire cosa distingue una civiltà nata dal cristianesimo da quella nata dall’islam. Ciò che le allontana, almeno dall’epoca dell’Illuminismo, non è solo la libertà d’espressione!
Mi auguro che tutti convengano sul fatto che pur avendo una comune radice abramitica e molte altre similitudini, di cui troppi si accontentano, nel Corano non si parla mai del gesto di Adamo di cogliere e mangiare la fatidica mela. Si cita l’allontanamento di Adamo dal Paradiso, ma mai in quel Libro si espongono le ragioni del fatto.
A prima vista, e per un laico europeo, sembra un aspetto minore e insignificante, ma a mio avviso è decisivo e basilare.
Per tutto il mondo ebraico-cristiano (oserei dire “occidentale”) questo evento è il principale e più radicale atto di sfida dell’Uomo a Dio e alla sua legge: è la fonte del peccato originale.
Anche il mondo greco aveva una mito simile. Adamo assomiglia straordinariamente a Prometeo. Ambedue vengono scoperti, condannati e puniti per aver sfidato l’Onnipotente. Essi sono la dimostrazione che il modello del rapporto con il divino, che noi occidentali abbiamo ereditato da Greci, Romani ed Ebrei, riconosce all’Uomo una libertà individuale insopprimibile (non solo di parola). L’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio (per il Corano non è dato sapere se lo siamo, ed è anche per questo che le Sue immagini sono severamente vietate !) deve poter liberamente scegliere il bene o il male, assumendosene la responsabilità.
Il principio di responsabilità personale che deriva da quella colpa, e che darà poi seguito all’attesa della Venuta e motivo al Cristo di nascere tra noi e per noi (vedi Dottrina cristiana o chiedi ad un prete cristiano, non necessariamente cattolico), come pure all’Alleanza che Dio stabilisce con l’Uomo, sono fatti e concetti di origine biblica, assolutamente NON condivisi dal Libro dell’islam.
Sono enormi bestemmie. Se qualcuno le professasse a Aden, a Teheran o a Karachi verrebbe assassinato sul posto. O incarcerato e condannato a morte come Bibi Asia , la donna in prigione in Pakistan accusata da un’altra di aver bestemmiato il Corano.
Un infedele verrebbe condannato perché, per un credente musulmano, la parola islam significa “sottomissione a Dio”. E la “sottomissione” islamica non è compatibile con la “responsabilità” cristiana.
Il Dio giudaico-cristiano vuole essere “scelto” dall’Uomo per amore; quello islamico esige solo la sua sottomissione. Il primo ci propone e sostiene un’Alleanza con l’uomo, (basti pensare all’Arca dell’Alleanza) elevandolo ad uno status che non ha eguali sulla terra; quello islamico si accontenta del rispetto dei ben noti cinque precetti, quasi che l’uomo fosse solo un servo.
Le due società che nei secoli si sono costruite su questi presupposti di fede, non hanno molto in comune, a meno che non si crei ( e noi lo si favorisca) un movimento musulmano paragonabile alla “Riforma”. Proprio ciò che tutti i fondamentalisti, sunniti o sciiti, sanno essere possibile e che proprio per questa ragione vogliono a tutti i costi evitare. I fatti di Parigi o di Boko Haram vanno appunto in questa direzione.
Il tema del rapporto tra l’Uomo e Dio, che le due religioni propongono, non potremo evitarlo a lungo, perché questo è il vero terreno su cui sviluppare o far annegare il “dialogo” e quindi la coesistenza. Quello della libertà di stampa è solo un aspetto parziale.
Affermare, come gran parte della cultura europea sostiene, che possiamo vivere “senza Dio” è la cosa più rivoltante e assurda per un islamico. Moderato o fanatico che sia. Per chi come il sottoscritto, ha vissuto un po’ tra loro, l’esempio più calzante per dare un senso del disgusto che provano davanti a questa idea lo vediamo nella giustificazione che molti di loro oggi danno degli assassinii parigini.
Supporre che esista una soluzione “politica” , “sociologica” o ”legale” quasi che il modello del rapporto Uomo-Dio, che le religioni propongono, sia un argomento contrattabile come un accordo internazionale, mi pare altrettanto illusorio. L’islam non separa mai Fede e Politica. Non sarebbe più islam. Non sarebbe più una religione.
Temo bisognerà tenerne conto quanto si discuterà in Parlamento di diritti di voto politico a gruppi che non condividono alcuni principi basilari della nostra Costituzione.
Ecco perché io credo che anche i non credenti europei non potranno prima o poi evitare la scelta tra le due sponde “religiose”. Dovranno cioè compiere un loro individuale atto politico che fino a qualche anno avrebbero rifiutato a priori.
Non si tratterà per gli atei o “laici” europei di “ri-convertirsi” all’antica Fede, quanto piuttosto di dover scegliere se sostenere apertamente quella da cui la loro cultura, anche quella Illuminista , proviene. Dovranno ammettere che è quella cristiana, poiché ne condividono la concezione dell’Uomo e della sua “responsabilità”. Se invece preferiscono quella islamica, più fatalista ma anche più colorata di anti-establishment , ovvero più “rivoluzionaria” , anti-americana e anti sionista, per definizione, non hanno che da convertirsi all’islam.
Mi auguro che chiunque condivida l’impostazione del problema a livello politico si renda conto del fatto che se si può anche benissimo essere italiani e arabi al contempo (il razzismo non c’era proprio) , NON è possibile essere metà cristiani e metà islamici.
Abbiamo obiettivi sociali, economici (ruolo della donna, il diritto di famiglia, impossibilità di unioni matrimoniali, il rapporto tra Stato e Fede, la libertà di convertirsi senza essere uccisi…etc) completamente diversi.
A riprova della radicale differenza tra le due fedi, invito a leggere i 25 articoli della Dichiarazione islamica dei Diritti dell’Uomo, firmata nel lontano 1981 al Cairo da Stati musulmani e non dai terroristi dell’IS.
Il resto va di conseguenza.
Soprattutto non vorrei trovarmi un giorno a vivere a Padova o a Mestre come fossi in Bosnia negli anni 90.
E al momento non è escluso!
C. Crotti
Grazie dell’ospitalità e della libertà di parola concessami.
Cordiali saluti
C. Crotti
Luisa Accati dice
Credo che sia giustissimo vedere la differenza fra Francia e Stati Uniti, aggiungerei che gli Stati Uniti hanno spesso usato le religioni a scopo di controllo sociale. Sia la democrazia cristiana italiana che quella tedesca erano appoggiate dagli USA nel dopoguerra e poi le cose si cono complicate con religioni meno note, in Iraq, in Iran nel nord Africa, infine l’uso dei Talebani in funzione antisovietica. Il politically correct è anche questo e si sta rivelando un tremendo boomerang. E’ chiaro che se la laicità fosse stato un punto di riferimento irrinunciabile non ci troveremmo in questa situazione, il controllo sociale sarebbe stato più complesso, ma molto più sicuro.