di Randolph S. Bourne
Ricordiamo un doppio centenario: quello della fine della Prima guerra mondiale (per l’Italia l’armistizio entrò in vigore il 4 novembre 1918) e quello della morte del pacifista statunitense Randolph S. Bourne (scrittore e critico letterario morto di influenza spagnola nel dicembre 1918).
Quando morì, Bourne stava lavorando a un libro sulla natura dello Stato, da cui è tratto il presente articolo, tradotto per la prima volta in italiano da Anna Di Qual. In queste pagine, riprendeva i temi antinterventisti e antimilitaristi per cui si era battuto fin dagli inizi della guerra in Europa nel 1914. In particolare, denunciava come la guerra stimolasse l’istinto gregario, deresponsabilizzando gli individui, con il risultato di accentuare il carattere totalitario dello Stato, il conformismo e la persecuzione delle minoranze.
La guerra mantiene lo Stato in buona salute. Essa mette automaticamente in moto nell’intera società irrefrenabili forze che spingono al conformismo e a una calorosa cooperazione con il governo nel costringere all’obbedienza le minoranze e gli individui che non intendono entrare nel branco. La macchina di governo impone e applica drastiche sanzioni: le minoranze sono o intimidite al silenzio o lentamente plagiate attraverso un sottile processo di persuasione che a loro stesse potrebbe sembrare in realtà una vera e propria conversione. Beninteso, l’ideale di una perfetta lealtà e di un totale conformismo non è mai raggiunto pienamente. Le classi a cui spetta l’informale lavoro di coercizione sono instancabili nel loro zelo, ma spesso la loro mobilitazione invece di convertire serve solo a irrigidire la resistenza. Le minoranze si incupiscono, alcune posizioni intellettuali diventano rabbiose e mordaci, ma in generale nel periodo bellico la nazione raggiunge un’uniformità di sentimenti e una gerarchia di valori tali da culminare nell’apice indiscusso dell’ideale di Stato, risultato che nessun ufficio del governo può realizzare, se non attraverso la guerra. Altri valori come, per esempio, l’arte, la conoscenza, la ragione, la bellezza e l’aspirazione a condizioni di vita migliori vengono prontamente e quasi con unanime consenso sacrificati, e le classi dirigenti che si sono date il ruolo di informali rappresentanti dello Stato non solo si adoperano per privarsi esse stesse di questi valori ma costringono anche tutte le altre persone a rinunciarvi.
La guerra – o perlomeno una guerra moderna intrapresa da una repubblica democratica contro un nemico potente – sembra assicurare a una nazione quasi tutto ciò che il più infervorato politico idealista può bramare. I cittadini non si mostrano più indifferenti nei confronti del proprio governo, anzi ogni cellula del corpo politico sprizza di vita e fervore. Come minimo, stiamo andando verso una piena realizzazione di quella comunità collettiva in cui ciascun individuo racchiude in qualche modo la virtù del tutto. In una nazione in guerra, ogni cittadino si immedesima nella totalità, e si sente enormemente rafforzato grazie a questa identificazione. Le convinzioni e le volontà della collettività vivono in ciascuna singola persona che si lancia anima e corpo nella causa bellica. La minacciosa distinzione tra società e individuo è quasi completamente rimossa. In tempo di guerra l’individuo quasi coincide con la società a cui appartiene, acquisisce una superba sicurezza di sé e una presunzione di giustezza di tutte le sue opinioni ed emozioni tanto che nel perseguitare gli avversari o i dissidenti è invincibilmente forte e sente dietro di sé tutta la potenza della collettività. In tempo di guerra l’individuo, inteso come essere sociale, sembra quasi raggiungere la sua apoteosi. Nemmeno per un impulso religioso ci si poteva aspettare che la nazione americana mostrasse tale devozione di massa, tale sacrificio e tale sforzo. Di certo per nessun valore laico, come l’istruzione universale o il dominio sulla natura, avrebbe stillato le sue preziose risorse e la sua linfa vitale, né avrebbe permesso che fossero prese, contro sé stessa, rigide misure coercitive quali la chiamata sotto le armi del suo denaro e dei suoi uomini. Invece è in nome di una guerra di auto-difesa offensiva, intrapresa a sostegno di una battaglia decisiva dietro la bandiera della “democrazia”, che essa ha raggiunto il più alto livello mai raggiunto di sforzo collettivo.
Il fatto è che i valori laici, legati all’aspirazione al miglioramento della vita, all’istruzione umana e all’uso dell’intelligenza per realizzare la ragione e la bellezza nella vita collettiva della nazione, sono estranei al nostro tradizionale ideale di Stato. Lo Stato è intimamente connesso con la guerra, poiché esso è l’organizzazione della collettività quando agisce in maniera politica, e agire in maniera politica contro un gruppo rivale significa – da sempre nella storia – guerra.
Non c’è nulla di oltraggioso nell’usare il termine “branco” in relazione allo Stato. È un semplice tentativo di ricondurre la natura di questa istituzione – all’ombra della quale noi tutti viviamo, ci muoviamo e conduciamo la nostra esistenza – ai suoi principi primordiali. Gli etnologi sono generalmente concordi nell’affermare che la società umana alla sua comparsa era organizzata in branchi di uomini e non in comunità di individui o coppie. Il branco di fatto è l’unità originaria, e fu solo una volta che si andò differenziando che si poté sviluppare l’individualità personale. Tutti i più primitivi tipi di uomini che ritroviamo ancora ai giorni nostri presentano una organizzazione sociale molto complessa ma molto rigida, dove la possibilità di un processo di individuazione è raramente concessa. Queste tribù continuano a essere branchi rigorosamente organizzati; e la differenza tra loro e lo Stato moderno riguarda il grado di sofisticazione e di complessità di organizzazione, non la tipologia.
Gli psicologi considerano l’impulso gregario come una delle più forti spinte che tengono unite i branchi nelle differenti specie di animali superiori. Il genere umano non fa eccezione. La nostra aggressiva storia evolutiva ha impedito che questo istinto si spegnesse. Tale istinto gregario consiste nella tendenza all’emulazione, nel conformismo, nell’aggregazione, e diventa più forte quando il branco si sente minacciato da un pericolo. Come gli animali si riuniscono per cercare protezione, così gli esseri umani prendono più coscienza della loro collettività di fronte alla minaccia della guerra. La consapevolezza della collettività porta con sé una fiducia e un senso di forza di massa, che a sua volta risveglia l’aggressività, e la battaglia comincia. Negli uomini civilizzati l’istinto gregario agisce per determinare non solo azioni coordinate a fini difensivi, ma anche identità di opinioni. Dal momento che il pensiero è una forma di comportamento, l’istinto gregario dilaga anche in quell’ambito e pretende quello spirito di corpo che il periodo bellico produce con così grande successo. Ed è inondando la vita consapevole della società che l’istinto gregario produce disastri.
Proprio come nelle società moderne, dove l’istinto sessuale è fornito assai più del necessario per garantire la riproduzione umana, così l’impulso gregario è fornito assai più del necessario per il lavoro di protezione che è chiamato a compiere. Basterebbe essere gregari quel tanto che basta per poter apprezzare la compagnia degli altri, per essere in grado di cooperare con loro e per sentire un leggero accenno di malessere di fronte alla solitudine. Sfortunatamente però questo impulso non è soddisfatto da queste ragionevoli e sane esigenze; pretende invece che prevalga un’identità di vedute ovunque, in tutti gli ambiti dell’esistenza. Di conseguenza ogni progresso dell’umanità, ogni novità e ogni anticonformismo devono scontrarsi contro la resistenza di questo tirannico istinto gregario che spinge l’individuo all’obbedienza e al conformismo con la maggioranza. Anche nelle più moderne e illuminate società questo impulso mostra pochi segni di affievolimento. Visto che è indirizzato dall’inesorabile esigenza economica al di fuori della sfera dell’utilità, sembra che questo impulso faccia presa con vigore ancora più grande nell’ambito dei sentimenti e dell’opinione, così che il conformismo finisce per essere una cosa accanitamente desiderata e richiesta.
L’impulso gregario mantiene la sua stretta tanto più feroce poiché, quando il gruppo è in moto o sta prendendo parte a qualche iniziativa concreta, questo sentimento di essere con la comunità del branco e di esserne sostenuto, alimenta in abbondanza questa volontà di potere, il cui nutrimento l’organismo individuale richiede di continuo. Ti senti forte quando ti conformi; abbandonato e indifeso, invece, se sei fuori dalla massa. Anche se non ottieni l’accesso al potere pur pensando e sentendo come tutti gli altri nel tuo gruppo, almeno ottieni la calda sensazione di obbedienza, la rassicurante irresponsabilità della protezione.
Unendosi, come fa, a queste fortissime propensioni dell’individuo – ovvero il piacere del potere e il piacere dell’obbedienza –, l’impulso gregario diventa irrefrenabile nella società. La guerra poi lo stimola al massimo grado possibile, spingendo le influenze della misteriosa corrente del branco – con la sua esuberanza di potere e obbedienza – ai confini più remoti della società, a ogni singolo individuo o piccolo gruppo che possa essere raggiunto. E sono questi gli istinti su cui lo Stato – l’organizzazione dell’intero gregge, dell’intera collettività – si fonda e che esso utilizza.
È chiaro che nel sentimento verso lo Stato c’è una forte componente di puro misticismo filiale. Il senso di insicurezza, il desiderio di protezione, rimandano il desiderio di ciascuno al padre e alla madre, con cui il primordiale sentimento di protezione è associato. Non per niente si pensa al proprio Stato come Patria, la terra dei padri, o Madrepatria, la terra della madre: il legame con esso è concepito in termini di affetto famigliare. La guerra ha dimostrato che ovunque, sotto il timore di un pericolo, queste primitive attitudini infantili non hanno mancato di affermarsi ancora una volta, tanto in questo Paese quanto altrove. Se noi non abbiamo il forte senso del Padre del tedesco, che adora la sua Vaterland, nello zio Sam abbiamo almeno un simbolo di protezione, un’autorità benevola e protettiva, e nelle tante madrine della Croce Rossa vediamo con quanta facilità nelle più compassionevoli funzioni dei servizi bellici l’organizzazione dominante è concepita in termini di modelli famigliari. Un popolo in guerra diventa di nuovo – nel senso più letterale – un bambino obbediente, rispettoso, fiducioso, colmo di quella ingenua fede nella onniscienza e onnipotenza dell’adulto che si prende cura di lui, che gli impone la sua dolce ma necessaria regola, e al quale il bambino rimette la sua responsabilità e le sue preoccupazioni. In questo tornare bambini, c’è un grande conforto e un certo afflusso di potere. Per la maggior parte delle persone, lo sforzo di diventare un adulto indipendente è un grave peso, e questo peso grava massimamente su quei membri delle classi dirigenti che hanno avuto in eredità o hanno assunto le responsabilità del governo. Lo Stato fornisce il più comodo dei simboli sotto i quali queste classi possono mantenere tutta l’effettiva concreta soddisfazione di governare, potendo al contempo liberarsi del peso psichico dell’età adulta. Continuano a dirigere l’industria e il governo e tutte le istituzioni della società più o meno come prima, ma ai loro occhi consapevoli e agli occhi dell’opinione pubblica, si distaccano dai loro modi egoistici e predatori e, al contrario, diventano fedeli servitori della società, o di qualcosa di più grande di loro, cioè lo Stato. L’uomo che passa dalla direzione di una grande impresa a New York a un posto nei servizi per la gestione dell’industria bellica a Washington formalmente non cambia molto il suo potere o la sua tecnica amministrativa. Ma psichicamente, quale importante trasformazione si avvera! Adesso suo non è solo il potere, ma anche la gloria! E il suo senso di soddisfazione è direttamente proporzionale non al grado di autentico sacrificio personale che può essere richiesto da tale cambiamento, ma alla misura in cui egli mantiene le proprie prerogative in campo industriale e il proprio sentimento di comandare.
Tra i membri di questa classe sorge una certa invincibile indignazione se il passaggio dall’impresa privata al servizio dello Stato comporta una reale perdita di potere e di privilegi personali. Se ci deve essere un sacrificio concreto, che sia – questo è il loro pensiero – sul campo dell’onore, nelle morti in battaglia che tradizionalmente vengono celebrate, in quella scorciatoia per il suicidio, come Nietzsche chiama la guerra. In tempo di guerra lo Stato appaga questo tipo di smania, ma la cosa principale è l’opportunità che offre di regredire all’infanzia. Nella tua reazione a un attacco immaginario nel tuo Paese o a un insulto al tuo governo, ti rinserri nel branco per proteggerti, ti conformi nelle parole e nelle azioni, e insisti con veemenza che tutti gli altri debbano pensare, parlare e agire all’unisono. E fissi il tuo sguardo adorante sullo Stato, con uno sguardo sinceramente filiale, come sul Padre del gregge, simbolo quasi personale delle tue azioni e idee certe.
Nota. War is the health of the State fa parte dello scritto The State, rimasto incompiuto e pubblicato per la prima volta, postumo, in Untimely Papers, B.W. Huebsch, New York 1919.
Randolph Silliman Bourne (1886-1918) nacque nel New Jersey. Dopo un’infanzia difficile (fu abbandonato dal padre alcoolista, crebbe con la madre in precaria situazione economica), diede lezioni di piano e fece il correttore di bozze, riuscendo così a studiare alla Columbia University.
Fin dal 1914 si oppose alla guerra e al coinvolgimento degli Stati Uniti, polemizzando aspramente con John Dewey, suo vecchio maestro alla Columbia, che invece era favorevole, e denunciando il crescente carattere totalitario che gli Stati assumono a causa della guerra.
Nel 1917 i giornali The New Republic e Dial non accettarono più le sue collaborazioni; un’altra rivista su cui scriveva, The Seven Arts, dovette chiudere dopo che i finanziatori sospesero i loro contributi, con l’accusa che il pacifismo della rivista fosse una scelta a fianco della Germania. Nel 1918 il Sediction Act, estendendo il campo di repressione previsto dall’Espionage Act dell’anno prima, considerò un crimine ogni critica al governo impegnato in guerra.
Impossibilitato a pubblicare, evitato anche dagli amici, Bourne continuò a scrivere per sé. Morì di influenza spagnola poco dopo la fine della guerra, nel dicembre 1918, a 32 anni.
Nel cestino del suo studio fu trovato il manoscritto incompiuto The State, disponibile online, che comprende War is the health of the State, pubblicato postumo, per la prima volta, in Untimely Papers, B.W. Huebsch, New York 1919. La presente traduzione è stata condotta sul testo che si legge all’indirizzo http://www.panarchy.org/bourne/state.1918.html.
Deformato nel corpo a causa dell’uso del forcipe alla nascita, che gli procurò danni permanenti, a cui si aggiunse una tubercolosi che lo colpì a quattro anni, Bourne è considerato un pioniere degli scritti sulla disabilità, e un punto di riferimento per il pensiero antimilitarista. Le sue opere non sono mai state tradotte in italiano.
Si veda la voce di wikipedia, che rinvia agli scritti disponibili online; si veda anche http://fair-use.org/randolph-bourne/; una recente introduzione a Bourne scrittore sulla disabilità in un articolo di Christopher Reardon, Randolph Bourne’s 1911 essay on disability shocked society. But what’s changed since?, “The Guardian”, 9 gennaio 2018.
Il Randolph Bourne Institute onora la memoria dello scrittore pubblicando il sito Antiwar.com.
Le due illustrazioni sono tratte rispettivamente da:
1. http://randolphbourne.org/rb-bio.html (ritratto di Sésame Buckner);
2. https://mises.org/library/brilliance-randolph-bourne