di Enrico Zanette
Anche quest’anno ci affidiamo al nostro Enrico Zanette per ricordare l’anniversario dell’inizio della Comune di Parigi (18 marzo 1871). Riprendiamo alcune pagine dal suo recente Una e centomila. La Comune di Parigi del 1871 (manifestolibri, Roma) che sarebbe dovuto uscire al tramonto dell’anno anniversario tondo (1871-2021) e invece, per gli imponderabili dell’editoria, è diventato alba di un nuovo ciclo di ricostruzioni e riflessioni. Zanette si interroga su alcune questioni fondamentali che continuano a sollecitarci sul piano storiografico e politico, chiedendosi infine a quale Comune, tra le tante sognate a Parigi nel 1871 o immaginate in seguito a quegli avvenimenti, si rivolgono le nostre domande di oggi.
Morta la Comune, viva la Comune! All’indomani del 28 maggio, tra il fumo delle macerie, emerge la seconda vita della Comune, un’esistenza fatta di letture mitiche, rappresentazioni simboliche e usi politici. È un’altra Comune quella che segue nell’immaginario dei posteri, una Comune che si moltiplica e si confonde confermando la sua natura enigmatica, una sfinge come la chiamava Karl Marx1. È una vicenda lunga e complessa, ricca di scontri, riletture e contaminazioni che dura fino ai giorni nostri.
A dire il vero, questa storia non inizia con la fine, ma fin dai primi giorni, quando il governo con il sostegno della stampa conservatrice alimenta il mito di una Comune terroristica per minarne i consensi e indottrinare al massacro i soldati. In seguito, tra il 1871 e il 1873 escono un migliaio di pubblicazioni a tema in un clima di rigida censura che rende la condanna obbligata2. E non solo a parole. Per giorni la città non viene ripulita per consentire ai cittadini di aggirarsi inorriditi tra le rovine fumanti della rivoluzione, mentre, per riparare ai peccati dei comunardi viene dato il via alla realizzazione di una – da anni progettata – basilica, il Sacro Cuore, proprio sulla collina di Montmartre, origine dell’insurrezione. […]
All’origine dell’insurrezione: il parco di artiglieria al Champ des Polonais (sulla collina di Montmartre), 18 marzo 1871
(fonte: internet)
La Comune criminale, socialista, anarchica, repubblicana, nazionalista, marxista, leninista avranno in seguito alterne fortune, contaminandosi a vicenda e adattandosi alle lotte dei contesti più disparati. I richiami diretti si moltiplicheranno: la Comune spartachista del 1919, le Comuni di Pechino e Shanghai del 1967, la Comune studentesca della Sorbona del maggio 1968, la recentissima Comune di Rojava.
Per forza di cose, in tutta questa vicenda, storia, memoria e mito s’intrecciano andando a comporre una sorta di babele che appare irriducibile. Quale Comune? Questa moltiplicazione di letture, disseminata in una bibliografia sterminata, può essere risolta focalizzando l’attenzione attorno ad alcune questioni fondamentali.
Una di queste riguarda il significato storico dell’evento ed è riassumibile nella domanda: la Comune fu l’alba di una nuova epoca o il tramonto di una passata? In altre parole, fu la prima rivoluzione socialista? La prima rivoluzione proletaria? Oppure, l’ultima rivoluzione repubblicana democratica e sociale? O ancora, entrambe le cose, un po’ tramonto, un po’ alba?
Il primo a porre l’accento sull’alba è Marx, nel suo, già citato, La guerra civile in Francia, quando afferma che la Comune rappresenta una rottura rispetto alle lotte precedenti perché contraddistinta da una composizione di classe operaia omogenea, che ne fa la prima rivoluzione proletaria della storia. Questa novità però non si era tradotta in una rivoluzione propriamente sociale ma in una rivoluzione politica che per lui, è la grande novità del movimento. Celebri le citazioni marxiane secondo le quali la grandezza della Comune è «nella sua stessa esistenza operante», nell’essere «la forma politica finalmente scoperta»3. Questa forma rispecchia la natura antistatale della Comune, l’eliminazione del centralismo, della burocrazia e dell’esercito in quanto pilastri dell’autoritarismo. Più tardi, Lenin insisterà su quella novità politica come esempio della dittatura del proletariato – accostamento già fatto da Friedrich Engels, ma non da Marx4 – per individuare però nei suoi aspetti tipicamente libertari alcuni errori infantili.
Sugli errori c’è poi un’ampia letteratura trasversale che ne individua principalmente due: il non aver marciato su Versailles nei giorni immediatamente successivi al 18 marzo, cosa che avrebbe evitato la controrivoluzione; e il non aver espropriato i fondi della Banca di Francia, cosa che avrebbe portato a un vantaggio evidente nei confronti del governo5. Errori lamentati a posteriori che nascondono le ragioni mai fin in fondo indagate di una rivolta che invece si volle spesso legalitaria.
Lo storico Jacques Rougerie predilige l’idea del tramonto criticando al contempo la prospettiva opposta. Parlare di lotta di classe, di autogoverno operaio, di prima rivoluzione proletaria è quanto meno riduttivo se non si intendono bene i termini. Innegabile che vi sia una componente classista nella Comune ma è una classe piuttosto interclassista, caratterizzata non tanto dall’appartenenza a una categoria economica ma da un insieme di esperienze comuni e una coscienza collettiva6. Nel lessico di quei giorni proletario, lavoratore, produttore risultano sinonimi di chiunque lavorasse per vivere, ovvero operai, artigiani, impiegati e piccoli o “piccolissimi” imprenditori. Il borghese è chiunque sia sfruttatore e voglia mantenere la sua situazione mentre il proletario chiunque sia sfruttato e desideri l’emancipazione di tutti: ecco la lotta di classe del 1871 che i contemporanei intendono come lotta di popolo. Un concetto di popolo che non ha connotazioni nazionaliste o razziali ma prima di tutto sociali. Inoltre, la composizione sociale così eterogena dei comunardi era tutt’altro che una novità poiché rispecchiava quella del Giugno 1848 e la Comune stessa affonderebbe pertanto le sue radici in un movimento repubblicano democratico e sociale pluridecennale, cancellato dalla repressione e dalle deformazioni del mito7.
La storiografia liberale, con François Furet in particolare, ha ripreso quest’idea del tramonto delle rivoluzioni precedenti in senso positivo come processo tragico ma necessario per moderare gli eccessi del repubblicanesimo rivoluzionario affermatosi con la rivoluzione del 17898. A questa interpretazione si può accostare quella opposta secondo la quale la Comune avrebbe salvato la repubblica dai tentativi di restaurazione monarchica in quel momento maggioritari (vedi la composizione dell’assemblea nazionale dell’8 febbraio 1871). Ma quale repubblica avrebbe salvato? È evidente che almeno dal Giugno 1848 esistono due repubbliche antitetiche, quella moderata/liberale e quella democratica e sociale.
Un’altra questione riguarda il patriottismo della Comune. Si è trattato di una rivolta patriottica? Il governo dell’epoca era certo del contrario poiché i comunardi avevano contribuito a dividere il popolo francese di fronte al nemico tedesco dimostrando così tutta la loro mancanza di patriottismo. Chiaro, la Comune è anche una guerra civile, nonostante i tentativi di camuffarne il significato, non da ultimo la pratica di chiamare i due schieramenti con i nomignoli di “versagliesi” e “comunardi” come se si trattasse di due mondi diversi e non di una città in conflitto con il proprio governo. Coloro che vedono nel patriottismo un aspetto retrogrado delle rivendicazioni socialiste, tendono o a minimizzarne la portata o al limite a interpretarlo come un residuo del nazionalismo tipico delle rivoluzioni borghesi, opposto all’internazionalismo proletario. Si tratta di una prospettiva miope che ignora la compresenza non contraddittoria tra nazionalismo e internazionalismo nel movimento repubblicano del XIX secolo. Tra coloro che riconoscono il patriottismo della Comune ci sono i primi socialisti italiani, che sono patrioti e internazionalisti assieme. È allo stesso modo che intendono il Risorgimento, come una guerra civile in cui il popolo non viene inteso in senso semplicemente etnico ma soprattutto sociale.
Rivolta di classe, di popolo, patriottica oppure urbana? Ecco un’altra questione: può essere la Comune una rivoluzione che nasce all’interno di dinamiche urbane? Tra i primi a sostenerlo è Henri Lefebvre che insiste sugli elementi tipicamente urbani di questa rivolta. Al centro dell’analisi ci sono le conseguenze degli interventi urbanistici del Barone Haussmann in termini di marginalizzazione delle classi sociali più povere costrette a spostarsi dal centro verso le periferie del nord-est9. Emerge il concetto di comunità e la Comune appare come una festa popolare in cui dalle colline, la comunità emarginata si riprende la città. Nonostante si corra il rischio di tralasciare la più ampia dimensione nazionale e transnazionale del movimento comunalista, concentrarsi sulle dinamiche urbane consente di calare sul territorio, nella vita quotidiana, nelle relazioni di quartiere le molle del conflitto.
Ciò chiama in causa la questione della mobilitazione: perché è scoppiata la Comune? Oltre ai fenomeni urbani appena accennati, si è fatto riferimento alle cause economiche, ovvero ai processi di proletarizzazione mai fin in fondo verificati, che avrebbero determinato il movimento parigino. Negli anni si è fatta strada l’idea dell’imprevedibilità, maturata nel contesto eccezionale della guerra franco-prussiana10. Queste impostazioni non si escludono a vicenda e non si può negare nemmeno l’influenza esercitata dal movimento repubblicano già evidente a partire dal 1868. In ogni caso si insiste su alcune cause puntuali come l’armamento dei cittadini nella Guardia nazionale, le difficili condizioni dell’assedio dell’autunno-inverno 1870-1871, l’umiliante trattato di pace, l’operazione o la provocazione maldestra del governo del 18 marzo. Su quest’ultimo punto, esiste una tesi, sostenuta da Thiers, che si assume la responsabilità di aver intenzionalmente soffiato sulla rivolta per poter in seguito avere maggiore libertà nel purgare Parigi.
E il ruolo delle donne? Permane l’idea mutuata dallo stigma delle pétroleuses e dal mito della vierge rouge di Louise Michel di una partecipazione violenta, deviante e fanatica. Con la differenza che, se per il governo la violenza femminile era la prova della depravazione delle comunarde, per altri dimostra la pretesa di una rivendicazione di piena cittadinanza femminile, tappa fondamentale – alba, si direbbe ancora – del futuro movimento femminista11. Al di là delle deformazioni di una documentazione che spesso ricalca il mito anticomunardo sovrastimando la violenza delle donne, la tesi tende a dimenticare il loro ruolo maggioritariamente tradizionale e le rivendicazioni che raramente puntano a una parità di genere che stravolga gli ambiti sociali di azione. A testimonianza di ciò due fatti tra tutti: l’impiego del suffragio universale maschile e l’assenza di rivendicazioni femminili per il diritto di voto. Ciò non significa che comunarde e comunardi fossero difensori dell’ordine patriarcale ma piuttosto che il diritto di eleggere i mandatari era per loro solo uno dei modi per esercitare la democrazia, e forse non il più interessante: il suffragio allargato aveva fatto del II Impero un regime democratico? Osservando le scelte di quei giorni, la loro prospettiva appare ribaltata: il potere non viene ceduto ma esercitato da tutte e tutti nell’autogoverno dei singoli quartieri. In tal senso poter scegliere i mandatari – figure già depotenziate a svolgere un ruolo di coordinamento delle attività locali sempre revocabile – poteva apparire meno importante del potere, esercitato da donne e uomini, di autodeterminarsi quotidianamente.
Ma allora, la Comune può essere considerata un modello di democrazia? Le critiche sono state molte, a partire dall’accusa di semplice disorganizzazione criminale o di governo dittatoriale portata avanti dai conservatori, alla già citata esclusione delle donne dal voto, alla segretezza delle prime sedute del consiglio comunale che poco si addice al controllo del popolo sui propri mandatari, alla limitazione alla libertà di stampa. Inoltre, negli ambienti anarchici si lamenta la permanenza di strutture e meccanismi statali che portano a sterili gerarchie e procedure burocratiche. In ogni caso è innegabile che la Comune incarni una tradizione antistatale profonda che rivendica autonomie locali, federazioni e autogoverno popolare. In molti quartieri di Parigi ciò si manifesta come il grado zero della politica, dove la repubblica e la democrazia non sono un modo di essere dello Stato ma l’autogestione della vita sociale, la realizzazione della piena sovranità popolare.
Anche qui, come nel caso di classe, popolo, patria la Comune ci mette di fronte a significati alternativi di alcuni concetti che sono alla base dei nostri ordinamenti politici e sociali. E così ci invita a rileggerli alla luce di un XIX secolo sorprendente e ricco di occasioni perdute, mostrandoci una cultura politica cancellata dalla repressione, deformata immediatamente dal mito e sopravvissuta solo qua e là nelle tradizioni successive. Una cultura che si potrebbe riscoprire per far sì che, riannodando i fili con un passato rimasto sospeso sull’orizzonte del possibile, da tramonto, diventi l’alba di cui si è tanto parlato.
Que reste-t-il…? Parigi dal Champ des polonais (attuale square Nadar), marzo 2022
Foto di Andrea Lanza
Nota. Tratto da Enrico Zanette, Una e centomila. La Comune di Parigi del 1871, introduzione di Maria Grazia Meriggi, Manifestolibri, Roma 2021 [ma finito di stampare 10 gennaio 2022], pp. 45-46, 59-68 (si riproduce con minime modifiche).
- Karl Marx, La guerra civile in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 31. [↩]
- Più precisamente, la censura comincia nel 1872 lasciando una breve finestra aperta a letture meno partigiane. [↩]
- Marx, La guerra civile cit., p. 48 e p. 41. [↩]
- Vedi la prefazione di Engels del 1891 al già citato La guerra civile. [↩]
- Errori segnalati da Marx, Lefrançais, Lissagaray e molti altri. Lenin aggiungerà la mancanza di direzione e disciplina. [↩]
- Un tale concetto di classe è presente in E.P. Thompson, The Making of the English Working Class, London, Victor Gollancz, 1963; trad. it. Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, trad. di Bruno Maffi, Milano, Il Saggiatore, 1969. [↩]
- Jacques Rougerie, Paris libre, 1871, Paris, Éditions du Seuil, 1971, nel quale raccoglie e aggiorna le ricerche contenute in Id., Procès des Communards, Paris, Julliard, 1964. [↩]
- François Furet, La Révolution: de Turgot à Jules Ferry 1770-1880, Paris, Hachette, 1988 ; trad. it. Il secolo della Rivoluzione, 1770-1880, trad. di Bettino Betti, Milano, Rizzoli, 1989. [↩]
- Henri Lefebvre, La proclamation de la Commune: 26 mars 1871, Paris, Gallimard, 1965. [↩]
- Una cronaca dettagliata dei mesi dell’assedio che precedettero l’insurrezione è presente in Innocenzo Cervelli, Le origini della Comune di Parigi: una cronaca (31 ottobre 1870-18 marzo 1871), Roma, Viella, 2015. [↩]
- Cfr. Carolyn J. Eichner, Surmounting the barricades: women in the Paris Commune, Bloomington, Indiana University Press, 2004. [↩]
LAZZARIN MARIA GIOVANNA dice
leggendo queste belle pagine sulla Comune di Parigi penso a quanto sia attuale il discorso che viene fatto sulla propaganda e la disinformazione per mettere in cattiva luce e rendere pericoloso chi non accetta l’ordine costituito. Mi piace anche l’attenzione alle donne della Comune e alla loro volontà di partecipare in forma comunitaria, al di là della della rappresentanza, spesso formale, data dal voto. E’ un pensiero che ho trovato leggendo La Comune di Luise Michel e che oggi spinge molti giovani a disertare il voto e a cercare altre forme di partecipazione. La Comune resiste due mesi, ma le sue ceneri continuano a essere fertili.