di Alberto Cavaglion
Proponiamo le prime pagine della Introduzione che il nostro amico Alberto Cavaglion ha scritto per la nuova edizione dei diari di Anne Frank, in uscita in questi giorni presso Mondadori.
Colpisce nei diari di Anne Frank il frequente ricorso a proverbi, sentenze, modi di dire: una traccia, si direbbe, delle consuetudini pedagogiche in uso nelle famiglie della borghesia ebraico-tedesca. Il riferirsi alla bontà degli insegnamenti antichi contrasta con la giovane età di chi scrive, contribuendo a delineare il ritratto di un’adolescente-adulta, di una puella-senex.
I diari si presentano incorniciati da due massime di questa natura. Nelle ultime pagine, in data 15 luglio 1944, leggiamo: «Si è più soli nell’infanzia che nella vecchiaia». Il 20 giugno 1942, giorno in cui decide di confidarsi con un «quaderno cartonato» (“diario” le sembra una definizione altisonante), Anne Frank prevede le sofferenze cui andranno incontro i suoi pensieri se mai riusciranno a uscire in libertà da quella casa-rifugio: «La carta è più paziente degli uomini». Si riassume in questi due assiomi la genesi dei diari e in un certo senso la vicenda stessa di Anne Frank e dei suoi diari: da un lato la solitudine, dall’altro il destino tormentato dei suoi scritti, “la pazienza delle carte”.
In Italia, a partire dalla prima traduzione del 1954, il Diario ha conosciuto una larghissima circolazione, ma non è stato facile prendere coscienza della stratificazione e della ricchezza di una fonte che è preziosa per la storiografia della deportazione e dello sterminio degli ebrei olandesi, ma ancora di più lo è come un precoce laboratorio di letteratura, degno di stare accanto ad altri libri composti sul confine dell’abisso. Relativamente recente, del 1986, è l’edizione critica, dalla quale non può prescindere chiunque voglia avvicinarsi a questo straordinario e vivacissimo atelier di scrittura. Un lavoro, quello cui si sono dedicati i curatori dell’Istituto per la documentazione bellica dei Paesi Bassi, David Barnouw e Gerrold van der Stroom, assai complesso, di non semplice consultazione per il lettore comune, inadatto – anche per le sue dimensioni – a essere trasferito in edizioni tascabili o scolastiche.
Il primo dato da rilevare è la circostanza fortunosa in virtù della quale i diari sono arrivati a noi. Il salvataggio rappresenta il primo capitolo della “pazienza” delle carte di Anne Frank. Nella storia del secondo conflitto mondiale non esiste soltanto il dramma dei libri bruciati sui roghi. Esiste anche, ma attende di essere scritta, la controstoria dei manoscritti salvati dai tenaci bibliotecari, archivisti, premurosi amici. Pièces au sauvetage: si potrebbero definire così i soccorsi libreschi, ricorrendo a una tradizione teatrale europea consolidata.
Le scritture dell’estremo, drammaticamente interrotte dal precipitare degli eventi, costituiscono un paragrafo, si potrebbe dire, di Resistenza dei libri e delle carte: una vicenda non meno encomiabile dell’assai più studiata Resistenza degli individui. Opere scritte in nascondigli poco sicuri, poi abbandonate durante rastrellamenti, perquisizioni o bombardamenti ne sono esistite parecchie. Esse rappresentano la trama di una ricerca che aspetta di essere completata. Di questa trama avventurosa, il caso di Anne Frank è esemplare, per non dire unico. Noi oggi possiamo leggerla – non per intero, una parte dei suoi fogli non è stata ritrovata – perché nei minuti immediatamente successivi all’arresto la mano di una collaboratrice del padre di Anne, di nome Miep Gies, si è precipitata a raccogliere cartelle, sparsi e disordinati fogli caduti in terra e li ha nascosti. Su questa azione tempestiva di soccorso disponiamo di un circostanziato resoconto, in un libro appassionante della stessa Gies1.
La salvaguardia di “carte scritte”, a opera di persone che a buon diritto andrebbero premiate come Giusti dei Libri, è un vasto e appassionante argomento di ricerca: riguarda non solo taccuini e diari, ma anche capolavori della letteratura, della filosofia, della storiografia, delle arti figurative, spartiti musicali e poesie salvati dalla catastrofe. Mentre così tanto sangue scorreva per le strade del vecchio continente, nonostante le avversità, un imponente archivio di carte si è potuto salvare. Storici come Marc Bloch e Federico Chabod, entrati nei movimenti di Resistenza, hanno continuato le loro ricerche, salendo sulle Alpi con una valigia piena di schede, di libri, di abbozzi di opere. Molti lavori li abbiamo ereditati in forma incompiuta ed è il nostro caso: come tutti i pensieri che non poterono essere più pensati sono giunti a noi temprati dall’energia del naufrago. In luogo delle mappe delle città bombardate, dei luoghi dello sterminio, delle razzie contro i civili, ci servirebbe una mappa delle “case segrete” come il nascondiglio dei Frank in Prinsengracht 263 ad Amsterdam. Talora si sono salvate sia le carte sia chi le ha scritte, ma si è dato anche il caso che si siano salvati gli autori, ma non le carte, oppure si siano salvate le carte, non chi le ha scritte. Ed è il caso di Anne Frank.
Nota. Tratto da Alberto Cavaglion, Introduzione, in Anne Frank, Diario. Le stesure originali, trad. di Antonio De Sortis, intr. di Alberto Cavaglion, con saggi di Philippe Lejeune e Cynthia Ozick, pp. V-VII (tutto il testo alle pp. V-XXVII). L’edizione riporta i cosiddetti diari A e B, quelli che Cavaglion definisce “avantesto e testo” (p. X), ovvero: A) tre quaderni superstiti del diario vero e proprio che Anne Frank tenne a partire dal giugno 1942, che coprono i periodi giugno-dicembre 1942, dicembre 1943-aprile 1944, aprile 1944 fino all’arresto (mancano quindi le note dal dicembre 1942 al dicembre 1943, presumibilmente affidate a quaderni andati perduti); B) la riscrittura di tutto il diario, con la prima annotazione datata 20 giugno 1942, che la stessa Anne Frank decise di intraprendere a partire dalla fine di marzo del 1944, dopo aver ascoltato a radio Oranje un appello a pubblicare, dopo la guerra, testimonianze sotto forma di diari e lettere. (La cosiddetta versione C è la prima edizione del diario, uscita per la prima volta nel 1947, frutto della ricomposizione del padre di Anne, Otto, sottoposta all’editing dei redattori della casa editrice Contact di Amsterdam; è questa quella nota a generazioni di lettori in tutto il mondo, compresa l’Italia, dove apparve per la prima volta nel 1954, presso Einaudi, tradotta da Arrigo Vita, con una prefazione di Natalia Ginzburg).
Tra le altre cose, raccogliendo suggestioni che vengono dai saggi di Ozick e Lejeune, Cavaglion riflette, insieme ai lettori di oggi, sull’operazione letteraria che – pur giovanissima – Anne fece e con la quale si sarebbero trovati alle prese anche i testimoni sopravvissuti alla deportazione e al Lager – compreso Primo Levi, nel momento in cui rimise le mani al Se questo è un uomo del 1947 per l’edizione del 1958. La tredicenne olandese di fatto sperimentò i dilemmi della scrittura del testimone, preso tra finzione e dato oggettivo, e dello scrivere «dopo Auschwitz».
Lidia Rolfi Beccaria, sopravvissuta a Ravensbrück, dove fu deportata nel giugno 1944, disse che il Lager era stata la sua università – considerazione con cui, varie volte, Primo Levi si disse d’accordo: “vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo”2
In un certo senso, Cavaglion suggerisce che Anne Frank, nella sua lunga clandestinità, ebbe un’analoga maturazione, che tuttavia – a differenza di Levi – non poté affinare nel corso di una vita. Di fronte alla “materia incandescente della Shoah” (Introduzione, p. XX), quelle della Frank non sono semplici pagine di un testimone-bambina scampate fortunosamente alla distruzione. Scrive infatti: «Ancorché immatura, Anne Frank comprende che la scrittura offre ancora un’ancora di salvezza di fronte all’offesa. Senza rendersene conto prende coscienza che l’arte è occasione di riscatto. “La vendetta è il racconto”, per adoperare il titolo di un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo. La singolarità sta nel collocarsi sul confine estremo. I diari non sono stati scritti né prima né dopo, ma sul limite. Anne si trasforma in editor (e censore) di se stessa: passando alla versione “letteraria” riscrive intere parti, opera tagli, ritocchi, abbellimenti. Un lavoro incessante svela la diversità fra un diario e un libro […]. In breve, nonostante la giovanissima età, Anne Frank si pone l’annoso dilemma del rapporto fra realtà e finzione: “il peccato della finzione”. Una frode o un passaggio obbligato per liberarsi dalla tirannia della testimonianza impersonale? […] sull’orlo del precipizio, Anne riesce ad anticipare la preoccupazione futura di ogni scrittore superstite del Lager. Evadere dalla prigionia della Vita per rifugiarsi nel giardino della Letteratura” (pp. XIV-XV).
E ancora: «La specificità di Anne Frank consiste nell’aver pre-sentito l’abisso, a prescindere dall’evento testimoniale stesso: l’esperienza della deportazione che condurrà l’autrice alla morte è nota solo a noi posteri, ma questo non esclude il fatto che, nonostante la sua giovane età, Anne abbia avuto piena coscienza della differenza che esiste tra testimonianza e racconto dell’estremo. Non ha, come avrà Levi, come avranno Perec e Semprun, il tempo necessario per far depositare una materia così ardente e rifletterci sopra, in chiave teorica. Sperimenta su di sé la “pia frode”, come deve fare una scrittrice ai suoi esordi.
In un certo senso la dimensione dei suoi diari ricorda più la qualità profetica dei libri di Kafka che non l’eterogeneità dei memoir concentrazionari di Levi, di Wiesel, di Semprun o di Améry. Quella di Anne Frank è una narrazione avant-coup, non après-coup. Come La metamorfosi o Il processo, come Belle du Seigneur e il ciclo di Solal di Albert Cohen, iniziati negli anni Trenta e “riscritti” dopo la Shoah, i diari e i racconti di Anne Frank anticipano senza saperlo i modi e i problemi delle “scrivere dopo Auschwitz”» (p. XXVI).
(f.b.)
- In edizione italiana: Miep Gies, Si chiamava Anna Frank, a cura di Alison Leslie Gold, traduzione di Francesco Forti, Mondadori, Milano 1987. Ndr [↩]
- Così nella la risposta all’ultima delle domande che compongono l’appendice diventata parte integrante delle edizioni tascabili di Se questo è un uomo, un questionario che Levi scrisse nel 1976 per l’edizione scolastica del suo libro; per la storia di questo testo si veda ora la notizia in Primo Levi, Opere complete, III, Conversazioni, interviste, dichiarazioni, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 2018, p. 1123. Si veda inoltre la Conversazione con Primo Levi, del 1979, durante la quale Levi disse a Giuseppe Grassano (ivi, pp. 168-185, la cit. a p. 181): “Lidia Rolfi dice che il Lager è stato la sua università e io le ho plagiato quest’affermazione”. Lidia Rolfi, tra le altre cose, curò insieme ad Anna Maria Bruzzone una celebre antologia di testimonianze di deportate: Le donne di Ravensbrück: testimonianze di deportate politiche italiane, Einaudi, Torino 1978. [↩]