di Marco Fincardi
Battere e far rumore: è un modo di protestare e denunciare un’ingiustizia che si riscontra in tutta Europa almeno dal medioevo, e ovunque gli europei siano emigrati. È studiato da molti punti di vista: si sono cimentati antropologi, storici, linguisti, semiologi, storici della letteratura. Marco Fincardi, dopo aver già dedicato vari saggi e un altro bel libro a questo tema, ha da poco pubblicato uno studio specifico sull’area del Triveneto: Il rito della derisione. La satira notturna delle batterelle in Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia (Cierre Edizioni, Sommacampagna 2009). Su gentile concessione dell’editore (sul cui sito si può leggere una scheda completa del libro), ne presentiamo alcune pagine. Sono tratte dal capitolo introduttivo e da quello conclusivo dove Fincardi riflette sullo spazio, sul ruolo e sulla reale genealogia culturale di questa protesta oggi – soffermandosi sul movimento No Dal Molin.
Camminando per Venezia
Nell’autunno del 1995 da poco lavoravo a Venezia con una borsa di studio, quando mi è capitato di seguire nella nebbia una strana manifestazione da Campo Sant’Angelo a Campo Santo Stefano, fino a San Moisé, con cento o centocinquanta persone delle più diverse età, quasi tutti maschi, che portavano un paio di striscioni e diversi cartelli dove inveivano contro un cassiere che aveva fatto sparire i loro risparmi a lui affidati in custodia; e muti invocavano la restituzione di quanto avevano perso, affidando i loro slogan ai cartelli, ma molti facevano rumori ritmati con coperchi di pentole sbattuti tra loro, o qualche mestolo battuto contro coperchi o pentolini e padellini d’acciaio e alluminio. Erano i soci di una cassa peota della terraferma e i loro familiari: persone che dimostravano di conoscersi bene tra loro, visibilmente timide e imbarazzate nell’esibire striscioni e cartelli, ma rinfrancate dal maneggiare fragorosamente in coro mestoli e pentolami. Protestando e invocando giustizia – scortati da pigri gruppetti di poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa – si recavano al tribunale, nel giorno del processo contro la truffa di cui erano stati vittime. Prima che a impressionare i giudici del tribunale cittadino, la manifestazione cercava di svergognare pubblicamente l’uomo che, in posizione dominante nel gruppo, aveva tradito la fiducia amichevole riposta in lui. Era una ritualità tradizionale che si innestava nella protesta contro una vicenda scandalosa. Per la prima volta assistevo a una battarella in pieno giorno1, dopo averla conosciuta e studiata a lungo come rito quasi sempre e caratteristicamente notturno.
Di quale tradizione si tratta
Questo modo di far rumore per protesta è stato un fenomeno diffuso in tutta Europa e ovunque gli europei siano emigrati. È studiato in modo approfondito dagli esperti internazionali di molte discipline: antropologi, storici, linguisti, semiologi, storici della letteratura2. Anche per il Veneto se ne possono reperire facilmente piccoli studi o, piuttosto, numerosissimi frammenti descrittivi3. Raffaele Corso, grande antropologo dell’epoca fascista, particolarmente attento agli usi matrimoniali, scrisse per l’Enciclopedia italiana la voce batterella, spiegando che «Far le batarele, nel Veronese, è detto l’uso di accompagnare il vedovo o la vedova, che si rimarita, con suoni di campani o di corni, con strepiti e rumori di coperchi e recipienti di latta, di ferro, di rame, con urla e fischi»4; poi Corso passava a descrivere l’usanza nel resto d’Italia e d’Europa. Nel 1894, pure un non meglio precisato E. Del Maino aveva scritto alla «Rivista delle tradizioni popolari italiane» di Angelo De Gubernatis una scheda intitolata La batterella veneta, dove – sulla scorta di articoli apparsi su varie riviste erudite nel decennio precedente – spiegava come si trattasse di un fenomeno europeo conosciuto con un’infinità di varianti locali del nome.
L’uso nuziale che in Toscana si chiama La scampanata de’ vedovi è pure molto in vigore nelle campagne venete. Quando si uniscono in matrimonio due persone o deformi, o di età molto avanzata, oppure molto differente, gli amici, i parenti e i compaesani, armandosi di cassette di petrolio di latta, di casseruole, e di tutto ciò che può far rumore, corrono sotto le finestre degli sposi e non li lasciano addormentare fino a che essi non hanno offerto loro da bere. Quest’usanza, già da moltissimi scrittori accennata, veste molti nomi a seconda dei paesi. La ritroviamo in Lunigiana sotto il nome di bacillata, in Spagna di cencerrada, di charivari in Francia, di ciabra in Piemonte, di facioreso a Novi, di scampanata de’ vedovi (perché in uso ne’ matrimoni de’ vedovi), in Toscana, di scampanacciata a Roma, di suonar le tenebre in Genova, di tenghiglien a Ornavasso e di tucca a Pesaro5.
Le varianti del nome erano in genere termini onomatopeici, oppure designavano l’atto di battere o di produrre rumori da determinati oggetti. In una corrispondenza sulle usanze matrimoniali nel Bellunese, inviata a una rivista di folklore pubblicata ad Arezzo nel 1905, Guido Bustico menzionò anche le battarelle per i vedovi, il ruolo che vi assumeva la gioventù e le compensazioni per evitarle.
[…] nel Bellunese gli sposi possono schivare questa seccatura mediante una elargizione ai poveri, oppure facendo dire una messa, o anche mandando un paio di candelotti alla chiesa, oppure ancora organizzando una festa da ballo per i giovinotti del paese. Il timore però della batterella ha fatto andare in fumo più di un matrimonio6.
A Venezia: dalle dimostrazioni d’ostilità alle definizioni e ricomposizioni dei circuiti dell’amicizia
Nell’aneddotica veneziana, una battarella venne menzionata a lungo in numerose sedi, come episodio da cui nel XIX prese piede il nuovo costume della gita al Lido. Già in sé la cosa è indicativa di come determinate forme particolarmente vivaci della sociabilità tradizionale possano stimolare l’evolvere di altre forme moderne di sociabilità. […] Diverse fonti veneziane spiegano il diffondersi del costume del garanghello, la scampagnata in barca con il pasto in laguna o sulla spiaggia, rievocando i luni del Lio, e raccontando come questi, a loro volta, fossero stati originati da una batarela avvenuta nel XVIII secolo; da quei garanghelli avrebbero avuto origine nel XIX secolo le casse peote , che poi nel XX secolo da Venezia si diffusero ad alcune province della terraferma. Tassini – noto cultore di cose veneziane – spiegò nel 1897 che per tutta la prima metà del XIX secolo la gita festosa al Lido nei lunedì di settembre e ottobre, col tempo sereno, divenne un’usanza molto diffusa.
Viveva a Venezia nel secolo trascorso una vecchia brutta e zoppa, ma ancora rubizza, e vogliosa di marito, la quale, mediante i suoi risparmi, aveva raggranellato qualche gruzzolo di danaro. Uno di questi disperati, che non mancano mai, le si fece d’intorno, e colle sue moine la indusse a prenderlo in isposo. Per cessare poi le chiacchere [sic] e le beffe, si recarono ambidue un Lunedì di Settembre al Lido, e colà, giuratisi fede innanzi al prete, andarono all’osteria, ove si assisero coi compari al nuziale banchetto. Un traditore però aveva avvisato del tutto alcuni amici e conoscenti, che, andati anch’essi al Lido, si raccolsero sotto l’osteria fischiando, e facendo con arnesi di cucina la solita batarela. Come dovevano contenersi i poveri sposi? Balenò loro alla mente una bella idea. Fecero salire quei buon temponi, e con lieta cera li fecero trattare lautamente di cibo e di bevanda, invitandoli poscia a ballare insieme la furlana. I fischi, come possiamo immaginarci, si convertirono ben presto in applausi, accompagnata dai quali la felice coppia tornò sulla sera a Venezia. Da quest’avventura sorse il costume, che si conservò fino a circa alla metà del secolo presente, d’accorrere il dopo pranzo dei Lunedì di Settembre, ed anche di Ottobre, al Lido, e colà trattenersi fino a sera gozzovigliando, danzando, e cantando allegre canzoni.7
A fissare stabilmente la storia di questa battarella nei racconti di strada veneziani era stata una canzone composta da Jacopo Vincenzo Foscarini detto el Barcariol , patrizio vissuto nella prima metà del XIX secolo, che ambiva a descrivere il costume della propria patria con questi testi. Una raccolta con decine delle sue canzoni venne pubblicata nel 1844 – e presentata all’Ateneo Veneto – con ricche spiegazioni del conte Giulio Pullé, che chiarivano significato e contesto pittoresco delle canzoni. La canzone che segue era l’invito di un uomo a una donna a vestirsi e a munirsi del cembalo, per seguire la sua compagnia al Lido, a fare la battarella a una vecchia chiamata la zota.
Zaneta cara, vestite da festa, / Che vogio in fragia ancuo che andemo a Lio; / Pontite negro el galaneto in testa, / Che vogio che disemo, e nota e nio, / E che rebata el cimbano, nio e nota,/ De luni a Lio s’ ha maridao la zota!8
A fronte della scarna sestina poetica, la spiegazione di Pullé era un racconto dettagliatissimo e volutamente colorito, come se si trattasse di fare l’esegesi di un rude Ossian della laguna. La rappresentazione in guisa di caricatura, la più sordida possibile, della coppia di sposi e quanto di più triviale potesse esserci nella folla «di donne, di giovani, e di ragazzi» che la derideva, veniva esaltato come lo spirito autentico e vitale del popolo veneziano, esplicitando una forte immedesimazione del cantore e del suo commentatore con chi aveva riversato tanta esuberanza in una baia, così da avviare una nuova importante tradizione festiva locale, con trasgressive scampagnate notturne sulla spiaggia, organizzate in fragia, cioè – secondo Pullé – «in compagnia, in brigata».
[…]
Quello che storicamente pare qui rilevante, non è in sé una certa moda popolare, ma il costume nuovo che si dice sia stato originato da una battarella: il mettersi in movimento di gruppi solidali cittadini tra famiglie, amici e compagni di lavoro che potevano essere alla base di tali comitive festive. Quella abitudine ha potuto diffondersi perché c’era stato un rimescolamento nelle relazioni di gruppo: i legami associativi tradizionali erano mutati tra i secoli XVIII e XIX9. Un momento di effervescenza ritualizzata, stando a quanto ci dice questa fola che giustamente Tassini classifica come aneddoto storico, può aver dato luogo a un nuovo rituale festivo (ma in giorno feriale che prolungasse gli svaghi domenicali, quindi con una dimostrazione di scarsa sintonia con la disciplina produttivistica della rivoluzione industriale e con l’etica ascetica del secolo borghese) di tipo consumistico, capace di caratterizzare tutto il periodo di fine estate fuori dal già ricco calendario festivo ufficiale di Venezia. Lo storico veneziano Manlio Dazzi formulò a questo proposito un’ipotesi degna di riflessioni più approfondite, ma che riterrei genericamente plausibile: dedusse che da queste abitudini fossero nate le casse peote, a quei tempi caratteristiche della città di Venezia.
Rumorosi e goderecci i lunedì di settembre al Lido, dove, ancora nell’800, si rovesciava la città su barche ben provvedute, a ballare in comunità e a mangiare per i prati, festeggiando in particolare le frittelle, le ciambelle, le ostriche e le uova. Donne del popolo s’impegnavano a far da cassiere fra le comari per celebrare questi popolarissimi garangheli. Di qui forse l’origine delle casse peote, una specie di banche sociali del popolo, ancora vive in margine alle leggi e che organizzano feste e provvedono a prestito fra i soci10.
Queste casse peote che finanziavano gite in barcone (peata) nacquero in città dopo lo scioglimento napoleonico delle fraglie: non quelle del tutto informali menzionate dal conte Pullé, ma le «fratellanze» che nell’Antico Regime gestivano il mutuo soccorso tra lavoratori: associazioni di diritto pubblico, come le confraternite professionali, corporazioni o scuole artigiane, che tra le altre cose concordavano con le autorità le regole della produzione e del commercio nelle città. Sciolte coi governi napoleonici, dopo poterono formarsi solo associazioni private, dedite a devozioni o divertimenti; queste ultime, poi, destavano sospetti tra le classi dirigenti e stentarono – soprattutto con la Restaurazione – a trovare legittimazione; per cui rimasero informali e semiclandestine11. Nella Repubblica veneta le vecchie corporazioni e scuole erano tenute istituzionalmente a gestire giochi pubblici o a inviare rappresentanze spettacolari a cerimonie cittadine. Nei regimi successivi, le associazioni private poterono farlo solo in modo occasionale e di propria spontanea iniziativa; ma alcune di esse si tennero fuori da un rapporto con le autorità, cercando di eluderne i controlli. Le casse peote cercarono quindi di mantenere il carattere di gruppi privi di una definizione giuridica ufficiale, semisommersi nella sociabilità e nell’economia veneziana, tendenzialmente chiusi in gruppi legati da rapporti confidenziali. Nate con la finalità di cementare con momenti di divertimento e convivialità l’unione di piccoli gruppi di compagni di lavoro o congreghe di vicinato, sempre fedeli «alla massima che i soci devono essere tutti ben conosciuti fra loro»12, le peote tradizionali indicavano come ragione sociale «Lo scopo preciso di una scampagnata, qualche volta fissandone anche la durata in 3, 7 o 8 giorni, o nel divertimento, o nella riunione di amici, in lieto simposio »13. Erano società di adulti, ma in parte raccoglievano funzioni che nel passato erano state proprie delle compagnie dei giovani celibi. Da un’inchiesta del 1913, il numero delle casse peote in città risultò tra le 500 e le 1000, con almeno 20.000 partecipanti, se non di più, coinvolgendo perciò una quota rilevante della popolazione adulta. Avevano di solito sede in un’osteria, dove a volte ne coesistevano anche diverse, e dove i soci si recavano a pagare una quota settimanale, in una sera fissa della settimana, occasione anche per bere in compagnia, con spese in vino stimabili per difetto sulle 600.000 lire nel 1912; la spesa annuale per banchetti e gite risultava di 121.064 lire, sfuggendo a controlli pubblici e al fisco. Si scioglievano dopo l’anno di gestione, con un solenne banchetto accompagnato da bevuta generale, per ricostituirsi seduta stante per l’anno successivo.
Oggi a Vicenza: un gesto simbolico, ma quasi fuori da contesti rituali
A questo punto, il mio itinerario di studio […] ritorna al punto da cui era iniziata tutta la riflessione: a una sociabilità rimasta per molti aspetti strutturata da legami associativi informali (e dai modi di comunicare connessi), che alla fine del XX secolo continuano a privilegiare le relazioni e le gerarchie del gruppo amicale locale – magari non più strutturato per aggregazioni strettamente generazionali, o composto da ridotti gruppi di famiglie – rispetto a quelli della partecipazione attraverso i canali istituzionali della vita associativa, o alle moderne reti estese e giuridicamente formalizzate dell’associazionismo di massa. Le funzioni di tali fenomeni paiono rimandare ad un livello pubblico, ma non istituzionale, della regolamentazione dei rapporti sociali attraverso l’intervento delle generazioni più giovani e meno inquadrate che in molte società, non solo italiane, ha mantenuto a lungo la sua importanza – con forme in costante mutamento – anche quando le più elaborate organizzazioni politiche della vita civile non riuscivano più a coglierne le modalità di intervento efficace nella vita quotidiana, di cui forse neppure le stesse aggregazioni informali della gioventù erano più in grado di cogliere le effettive potenzialità. La logica della battarella tradizionale e della cassa peota risponde facilmente alla stessa mentalità: quella di una comunità chiusa in se stessa, diffidente verso l’esterno. Molte province del triveneto sembrano tradizionalmente restie – o almeno prudenti – ad aderire a forme associative sportive o ricreative vincolanti a estensione nazionale, mentre paiono piuttosto propense a riporre i propri rapporti di fiducia e solidarietà in reti di relazione a corto raggio, in piccoli gruppi associativi a composizione culturale omogenea. Allo stesso tempo, però, a Vicenza l’imponente movimento contro l’espansione dell’aeroporto militare straniero in zona Dal Molin – manifestatosi a partire dal 2005 e tuttora ben attivo – aprendosi verso l’esterno della società locale, per generalizzare la protesta di cui è portatore, ha come caratteristica di servirsi proprio della battarella per denunciare localmente uno scandalo che riguarda tanto gli equilibri locali quanto quelli nazionali e internazionali; per comunicare in ambito sovralocale, però, si serve con efficacia di contatti tra eterogenee reti associative, e ancora di più della comunicazione digitale attraverso la rete Internet.
Come moderna espressione civile o sociale, è chiaro che oggi la battarella può derivare sia delle residue culture locali, sia dalla comunicazione globale a cui il mondo giovanile è familiarizzato. […]
Ho descritto in partenza come, per i soci delle casse peote, la battarella possa essere il modo simultaneamente tradizionalista e moderno di denunciare uno scandalo. Nell’era della globalizzazione diventa però difficile capire se l’uso della battarella come strumento di protesta civile derivi dal permanere di tradizioni locali (che anche nei secoli più lontani circolavano, si influenzavano e rimescolavano anche a grandi distanze nei loro continui mutamenti che le rendevano funzionali alla codifica di espressioni e usi quotidiani di diversi ambienti sociali) o piuttosto dall’imitazione di comportamenti che in altri contesti sono parsi modi d’esprimersi efficaci. Tanto più se gli antichi gesti delle compagnie dei giovani, passati poi alle classi dei coscritti, si ritrovano ora utilizzati dagli antimilitaristi o in altre forme di protesta politica e sociale, che a volte si può ricollegare ai valori di quella che gli storici di altre epoche avrebbero chiamato economia morale […]. Il modo caratteristico d’esprimersi della protesta contro il devastante allargamento delle servitù militari a Vicenza è stato proprio il rumore della battarella che grida allo scandalo di una prevaricazione governativa: sbattendo coperchi, pentole, latte e bidoni (ma questi ultimi, a Marghera e in diversi altri centri industriali, era già usuale batterli a guisa di tamburi anche nei cortei sindacali degli operai metalmeccanici e chimici, fino all’inizio degli anni Ottanta) […].
Ma ci è ormai quasi impossibile stabilire se un simile modo di evidenziare una frattura nell’ordine delle cose sia stato ripreso dal patrimonio folklorico veneto oppure da analoghi modi di protestare […]. Del resto, questo modo di protestare per ragioni essenzialmente politiche è stato presente nel XX secolo in tutta l’America Latina, dai Caraibi alla Terra del Fuoco, come negli altri continenti in cui sia arrivata la colonizzazione europea, ma con maggiore vivacità che altrove. […] L’origine di un’espressione popolare come la battarella era difficile da stabilire nel medioevo e lo è tuttora; storici e antropologi possono però spiegare le funzionalità in continuo mutamento che possono rendere sempre attuali determinati suoi modi di comunicare, in epoche tra loro molto distanti e in società strutturalmente diverse.
Nota. I brani sono tratti dalle pp. 9-10, 10-12, 152-160, 160-162 © 2009, Cierre Edizioni, Sommacampagna, Verona
1 Sempre in quel periodo, mi è poi capitato di sentire e vedere per le calli altre battarelle, che appena fatta sera diversi gruppetti di bambini – accompagnati talvolta da mamme a riprenderli con la cinepresa – facevano all’ingresso delle botteghe nel giorno di san Martino, con mestoli di legno, coperchi e qualche bomboniera di latta, cantando il ritornello di una questua da cui ottenevano monete e dolci appositi fatti da fornai e pasticceri. Alla questua di san Martino ho continuato ad assistere a Venezia fino al 2004; poi non ho più sentito i suoi rumori ritmati nel buio autunnale. Mi hanno detto che la ripresa di questa vecchia nota tradizione, scomparsa negli anni del boom economico, era stata sollecitata all’inizio degli anni ottanta da alcuni maestri elementari tra i loro scolari, diventando per circa un quarto di secolo un costume diffuso.
2 Le Goff J., Schmitt J.-C. (a cura di), Le charivari, Mouton-EHESS, Paris-La Haye-New York 1981; Castelli F. (a cura di), Charivari: mascherate di vivi e di morti, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2004. Si veda anche le voci charivari o scampanata in opere enciclopediche rivolte a specialisti di diverse discipline scientifiche: Dizionario enciclopedico della musica e dei musicisti, Utet, Torino 1983; Fabietti U., Remotti F., Dizionario di antropologia, Zanichelli, Bologna 1997; Dizionario enciclopedico del Medioevo, vol. I, Città Nuova, Roma 1998; Lurati O., Modi di dire, Fondazione Ticino nostro, Lugano-Locarno 1998.
3 Oltre all’ampia letteratura qui citata, un primo abbozzo di questa mia ricerca è apparso col titolo Le «battarelle» nel Triveneto, in «Venetica. Rivista di storia contemporanea», XXI (2007), terza serie, n. 15. Mentre stavo completando la stesura del libro, è stato pubblicato dalla Pro Loco di Monticello Conte Otto un volume sull’argomento, tratto da una tesi di laurea in Lettere moderne discussa presso l’università di Padova, con numerose annotazioni sull’ambiente veneto e friulano, a conferma della rilevanza socio-culturale del fenomeno in ambito regionale, e utile da confrontare con le mie analisi: Lopreiato A., Scampanata. Tradizioni popolari legate alle seconde nozze, Editrice veneta, Vicenza 2008.
4 Enciclopedia italiana, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1930, vol. VI, p. 382, ad vocem.
5 Del Maino E., La battarella veneta, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), n. 4, p. 317.
6 Bustico G., Il matrimonio nel bellunese, in «Niccolò Tommaseo. Rivista mensile delle tradizione popolari d’Italia», II (1905), n. 11; ripubblicato con maggiore notorietà in Provenzal D. (a cura di), Usanze e feste del popolo italiano, Zanichelli, Bologna 1912, pp. 26-27.
7 Nissati G. [pseudonimo di Giuseppe Tassini], Aneddoti storici veneziani, Società di mutuo soccorso compositori tipografi, Venezia 1897 [2° ediz.: Filippi, Venezia 1965], p. 209.
8 Foscarini J.V., Canti pel popolo veneziano, con note di Pullé G., Gaspari, Venezia 1844 (rist. anast.: Forni, Sala Bolognese 1974), p. 356.
9 Corbin A., L’invenzione del tempo libero 1850-1960, Laterza, Roma-Bari 1996.
10 Dazzi M.T., Feste e costumi di Venezia, Venezia, Zanetti, 1929 [ma probabilmente 1937].
11 Cfr. Costantini M., L’albero della libertà economica. Il processo di scioglimento delle corporazioni veneziane, Arsenale, Venezia 1987; Pes L., Sei schede sulle società di mutuo soccorso a Venezia (1849-1881), «Cheiron», VI-VII (1989-1990), nn. 12-13; Camurri R. (a cura di), Censimento storico delle società di mutuo soccorso del Veneto, 2 voll., Regione Veneto, Venezia 2002.
12 Bonaldi G., Atti della Commissione d’inchiesta sulle forme minute d’usura in Venezia, Bortoli, Venezia 1914, p. 35.
13 Ivi, p. 18.
Gianni Sartori dice
Ci sono uomini che lottano un giorno (…), altri che lottano un anno (…), ci sono quelli che lottano più anni (…), però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.
B. Brecht
VICENZA: LA MORTE IMPROVVISA DI OLOL JACKSON, PORTAVOCE DEI NO DAL MOLIN
(Gianni Sartori)
L’incredulità prima, poi l’amarezza, il dolore. Così la notizia della morte di Olol Jackson era piombata tra noi il 30 settembre 2017.
Olol: sicuramente tra i maggiori protagonisti delle lotte ambientali, sociali e pacifiste nel vicentino degli ultimi decenni.
Un vuoto incolmabile che d’ora in poi peserà come un macigno ad ogni manifestazione davanti alla Ederle, a Pluto, al Dal Molin. Ci mancherà Olol con il suo megafono e l’ormai familiare voce roca.
Ricordato come uno degli organizzatori dell’occupazione da cui nacque il Centro sociale Ya Basta! (un richiamo agli zapatisti di Marcos), Olol aveva al suo attivo anche quella della scuola in abbandono di San Antonino di qualche mese prima. L’intenzione era di farne un centro sociale-culturale per il quartiere (guarda caso di fronte al Dal Molin e non lontano da dove sorgerà il tendone del Presidio: coincidenze?), ma prima intervennero i manganelli della polizia.
Ricordo che Olol si era stupito di trovare sul giornale diocesano un mio articolo, critico nei confronti del sindaco Variati che aveva ordinato lo sgombero brutale con il pestaggio subito dal compianto Cedro e da altri giovani. Chissà, forse il sindaco vicentino, al suo primo mandato, intendeva riportare alla memoria dei militanti più anziani l’analoga carica (con un paio di commozioni cerebrali, per Francesco e Chiara) contro i pacifisti davanti alla vecchia questura sbrigativamente ordinata nel maggio 1972 da Mariano Rumor. Era, ricordo, il giorno dell’arresto di alcuni obiettori di coscienza, tra cui Matteo Soccio.
In realtà l’articolo era stato alquanto ridimensionato, in parte edulcorato, ma quella fu l’unica voce critica, dissonante in un coro di applausi per la fermezza mostrata dalle istituzioni.
Poi nel 1995 ebbe inizio la fin troppo breve stagione di Ya Basta! in via Battaglione Framarin. Venne fatto abbattere con le ruspe, sei anni dopo, dal nuovo sindaco Hullweck. Ma come disse Olol al momento di abbandonare la sede “Finisce solo il primo tempo, ora andiamo a giocarci il secondo”.
Seguirà l’occupazione dell’ex Lanerossi al quartiere Ferrovieri, l’attuale Bocciodromo.
Entrambi nel luglio 2001 eravamo stati a Genova, ma senza esserci incontrati.
In seguito ci scambiammo impressioni e opinioni sia sulle cariche del venerdì che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani che sui gas CS.
Consigliere dei Verdi alla circoscrizione 3 (San Pio X) dal 2003 al 2007, insieme a Francesco Pavin fu tra i primi a denunciare i progetti di un nuova base statunitense (di cui nessuno sentiva la mancanza) a Vicenza.
Portavoce e “anima” del Movimento No-Dal Molin, quando il Presidio decise di dotarsi di un mensile, fu lui a chiedermi di fare da direttore responsabile. Dopo una iniziale perplessità ne fui onorato.
Tra i suoi meriti conquistati sul campo, la condanna nel 2013 per l’occupazione della prefettura del 16 gennaio 2008. Data infausta della dichiarazione di Romano Prodi a favore della realizzazione del Dal Molin.
Un padre veterano del Vietnam, gli avrebbe consentito di richiedere la cittadinanza statunitense, ma la rifiutò in quanto, come disse “son già cittadino del mondo”. Una scelta di campo, comunque.
Dalla madre, scomparsa recentemente e già impegnata nell’associazionismo, presumibilmente gli derivava la passione politica e quel suo indiscutibile “carisma ai cortei che ci faceva sentire protetti” come ricordava affettuosamente Cinzia Bottene.
Una dote di famiglia. Una volta mi aveva parlato di un nonno, dirigente politico e militante dell’opposizione in Somalia. Ora rimpiango di non aver approfondito. E la sua militanza non si esauriva certo qui: l’antifascismo, l’antirazzismo, la lotta contro gli sfratti e più recentemente l’impegno quotidiano nel sindacato di base AdL Cobas.
Nato 48 anni fa, Olol era nel pieno del vigore e dell’impegno. Non aveva particolari magagne o trascorsi a rischio.
Ma sappiamo che “la terra ci reclama”. Ci reclama sempre, anche prima del tempo. Siamo precari e provvisori. Conviene farsene una ragione.
E tuttavia “…ci sono quelli che lottano tutta la vita…” come ricordava Brecht.
Ci sono appunto quelli come Olol Jackson.
Gianni Sartori