di Claudio Pasqual
Qui si seguito, la relazione che Claudio Pasqual ha presentato all’incontro sul tema “Come si racconta una città”, organizzato dall’associazione storiAmestre presso il Centro Civico di via Sernaglia, a Mestre, martedì 2 dicembre 2003.
Ho scelto Barcellona perché amo Pepe Carvalho, l’investigatore privato creato dallo spagnolo Manuel Vàzquez Montalbàn, e per un atto di omaggio allo scrittore recentemente scomparso. Nei suoi romanzi la città catalana, dove il detective vive e svolge la massima parte delle sue inchieste, non è sfondo indistinto, accidentale e indifferente alla vicenda; le storie di Carvalho sono anche narrazione della città, rappresentata come forza che dirige i passi e i destini dei personaggi, matrice vitale da cui ricevono senso e identità, materia di cui è impastata la loro stessa essenza. Della non breve serie dei romanzi del detective gastronomo, per l’occasione ne ho riletti due, che mi sembrano al riguardo i più significativi: Il centravanti è stato assassinato verso sera, del 1988, e Il labirinto greco, del 1991. Qui Barcellona spicca dal quadro e si fa davvero padrona dei discorsi e dei destini dei personaggi, da città che vive una fase di trapasso e alla vigilia di un evento cruciale, sempre e ovunque foriero di potenzialità e disastri: le Olimpiadi, svoltesi nella capitale catalana nel 1992.
Barcellona, con il suo milione e mezzo di abitanti seconda città della Spagna dopo Madrid, attivissimo porto, ancora oggi grande polo industriale e commerciale, in base ai più comuni stereotipi “progressista, laboriosa, borghese ed europea”, la “più settentrionale” delle città del sud, ma anche “tradizionalista, popolare, mediterranea”, è rappresentata ne Il labirinto greco, negli anni ’80 del ‘900, in piena transizione postindustriale. A un certo punto del romanzo, Pepe Carvalho guida i suoi clienti del momento, una bella francese alla ricerca del suo amante greco scomparso e il suo ambiguo accompagnatore, attraverso il Poble Nou, Pueblo Nuevo in castigliano, detto anche la Manchester catalana, “quartiere industriale e operaio” sorto tra XIX e XX secolo, “quando la borghesia della città aveva stabilito accanto al mare le sue fabbriche e volle tenersi vicina la sua manodopera” –e il pensiero corre a Marghera, i cui industriali però preferirono alla resa dei conti, per convenienza e timore, manodopera semirurale e lontana-, e dedicò quel luogo a Icaria, modello di comunità utopica, sogno della città ideale. Sogno infranto, caduto miseramente nella polvere: il luogo ora è “pieno di fabbriche e di depositi abbandonati”. “Avanzavano”, i nostri, “verso la scenografia industriale obsoleta, forme che la notte rendeva minacciose: navate triangolari unite come sorelle siamesi, ciminiere curvate da calori perduti, torri di ferro con tutte le loro ruggini nobilitate dal controluce lunare, alberi affacciati su muri erosi, definitivi vincitori sull’assedio delle fabbriche, vegetali capigliature scure della natura imprigionata nel presentimento dell’assalto implacabile del bulldozer”. E’ una visione da letterato, che inclina al lato estetico delle cose, anche laddove sembra dominare solo la bruttezza –la sua sembra una scenografia per un film, è difatti troviamo in queste pagine un accenno al Fellini di 8 e ½-, ma con una suggestione forte in quel riferimento alla guerra sempre perduta della natura contro il compulsivo fare dell’uomo. Si consideri che un paesaggio di insediamenti industriali dismessi e abbandonati, di stabilimenti in rovina, è parte, a Porto Marghera non ancora recuperato e riconvertito, dell’esperienza e visuale quotidiane di noi cittadini di Venezia e della terraferma. Un bel tema di ricerca potrebbe essere allora indagare la percezione, le rappresentazioni che del paesaggio di un’area industriale in crisi e transizione hanno gli abitanti ma soprattutto quelli che ne hanno fatto personale esperienza, gli operai ed ex operai, nella dialettica complicata, immagino anche solorosa e struggente, con il vissuto e la memoria.
La desolazione, il vuoto sembrano regnare a Nuova Icaria, ma non è così: aleggia in sordina una musica lontana, “navate industriali” si intravvedono” tenuemente illuminate da segrete attività interne”. Si apre una porta e si scopre un atelier di danza, un’altra e un set per spot pubblicitari, una terza e lo studio di un acclamato scultore. La postmodernità, categoria di cui si è fatto ultimamente uso e abuso, è sbarcata a Barcellona così come a Venezia, che di simili esiti, per attrezzature concepite e nate per tutt’altro scopo, ne ha conosciute e ne conosce più d’una nell’area industriale di Porto Marghera. I territori della postmodernità poggiano però, nell’acuta consapevolezza del detective, su sedimenti friabili, sono costruzioni evanescenti ed effimere: al francese che si esalta, “bisognerebbe sollevare i tetti di queste zone limitrofe della città, queste terre ancora di nessuno e vedremmo allora l’esercito dell’emarginazione creatrice”, Carvalho preconizza che “tutti questi non sono che vagabondi, in una città sul punto di finire distrutta […] Questo non è un nuovo continente, ma un’isola che sprofonda”.
Con le fabbriche chiuse si è dissolta anche la classe operaia. Su un’area del Poble Nou antistante il mare, sventrati i vecchi isolati proletari, sorgerà la villa olimpica. Fervono infatti i preparativi dell’evento che metterà per un po’ Barcellona al centro del mondo: si lavora anche di notte, nei cantieri, alla luce dei riflettori. Barcelona posa’t guapa, Barcelona més que mai: Barcellona fatti bella, Barcellona più che mai. Si tratta, dice a un certo punto un personaggio, “dell’avventura di fare e rifare Barcellona. Rifare ciò che era stato fatto male. Farlo di nuovo”, accettando la sfida olimpica, perché la città sarà vetrina della Catalogna e della Spagna, nella moderna civiltà dell’immagine. Ampi settori della città sono coinvolti in una gigantesca operazione di ristrutturazione, riconversione e maquillage, consentita dal fiume di denaro messo in circolo dal grande avvenimento sportivo. Tra questi luoghi, c’è anche Barcellona antica, quella delle ramblas e del Barri Gotic, la vera Barcellona di Carvalho. Dopo l’abbattimento delle mura della città vecchia nel 1854, mentre l’eixample (“espansione” in catalano; in castigliano ensanche) progettata dell’ingegner Ildefons Cerdà allargava la città verso l’interno con la maglia ortogonale degli isolati a pianta quadrata –le manzane- dei nuovi quartieri borghesi, parti importanti del dedalo di stradine e piazzette della città vecchia erano abbandonate all’incuria e al degrado, abitativo e sociale. Ora però, dopo decenni e decenni di colpevole inerzia, è possibile, con i soldi delle Olimpiadi, mettere in opera un piano di recupero e risanamento del labirinto di vicoli in rovina dei barrios malfamati.
La curiosità dei romanzi di Vàzquez Montalbàn sta proprio nell’assumere, di fronte alle turbinose trasformazioni della città, il punto di vista dei dropout, dei rifiuti della società che popolano questi quartieri; per lo scrittore spagnolo, uomo di sinistra, regredita l’industria si è dispersa pure la classe dei proletari. Anche Pepe è a suo modo un marginale, come “annusapatte” di mariti infedeli, secondo la sprezzante qualifica del commissario Contreras, riclicato del franchismo; e al pari di lui, personaggi fissi in ogni storia, dei rifiuti della società sono Charo, la prostituta dal cuore d’oro, la fidanzata di un Pepe in perenne fuga sentimentale e in preda al senso di colpa; Biscuter, “sgorbio” d’uomo, ex ladro d’auto ad Andorra, redentosi come aiutante del detective e cuoco sopraffino; Bromuro, lustrascarpe e informatore nel Barrio Chino, ex legionario franchista non pentito, con quel soprannome nato dalll’ossessione che le autorità inquinino l’acquedotto per spegnere gli ardori dei machi spagnoli. Per Pepe, un quasi cinquantenne che era bambino nei tetri e poveri anni ’40 del trionfo franchista e ha compiuto una bizzarra parabola da oppositore politico ad agente della CIA a investigatore privato, come per tutti gli altri, cresciuti in quegli slums, solo fattore che dà senso all’esistenza è diventata la memoria, di persone, fatti, ambienti, indissolubilmente legata ai luoghi, intesi come luoghi fisici, costruzioni e spazi condivisi. In fondo in fondo, questi due romanzi di Montalbàn sono elegie della memoria.
“Gironzolò per le strade riconoscendo tutto, passando in rassegna le strade della sua intera vita, e tutto era al proprio posto […] La gente sa che questa città è una patria che ognuno possiede grazie all’egemonia della propria memoria. Molti sono nati qui, altri sono giunti da lontano. Ma questa memoria possessiva ebbe inizio il giorno in cui, come gli antichi caldei, capirono che la parte essenziale del mondo terminava sulle colline che riuscivano a scorgere con i propri occhi”. Riflette a un certo punto Carvalho su di sè, “chi avrebbe potuto supporre che ignorasse i confini del paese della sua infanzia? Chi avrebbe potuto derubarlo dei punti cardinali che meglio conosceva?” Ora invece “un gigantesco bulldozer con testa da insetto avrebbe trasformato l’archeologia della miseria in definitiva archeologia libresca” e piccone o scavatrice “apriva le carni della vecchia Barcellona per partorire una nuova città che seppelliva buona parte della sua migliore e peggiore memoria”. Non c’è dubbio, tra Dresda e Brasilia, per Pepe vale la prima. La scomparsa, la metamorfosi dei luoghi si rovesciano nella terrorizzante sensazione della “vecchiaia della memoria”; peggio, dell’oblio, di una “città che gli stava morendo nella memoria”. La memoria dipende dai luoghi, senza quei luoghi non c’è memoria, e “c’era come un esercizio di sadismo implacabile nel distruggere persino i cimiteri della sua memoria, lo spazio fisico dove avrebbero potuto risiedere i protagonisti dei suoi ricordi”. Bisogna dunque correggere l’affermazione fatta in precedenza: questi non sono romanzi della memoria, sono romanzi della nostalgia della memoria. Nostalgia perché la condizione mortificante, sgomentevole che i personaggi vivono e lamentano è lo spaesamento, il non capire e capirsi più, il senso di estraneità, in Carvalho, “verso una città che aveva smesso di esistere nei suoi desideri –quella nuova città non sarebbe stata quasi più la sua-”. Per altri, lo sbocco è più radicale: Bromuro muore al termine del primo romanzo; Charo accetta un posto di direttrice d’albergo ad Andorra e scappa via. È il destino dei perdenti, soccombere, svanire o nascondersi: Biscuter non esce quasi più dal suo stanzino-cucina.
I potenti, quelli che comandano, la classe dirigente no, non hanno di questi pensieri e preoccupazioni, non corrono questo rischio. La classe dirigente, la “cultura” urbana che essa esprime, la sua idea e immagine di città, quella delle dichiarazioni pubbliche e quella effettivamente realizzata: un bell’argomento da approfondire. Per Vàzquez Montalbàn, la cifra della “razza dei ricchi” barcellonesi è la doppiezza, messa a nudo tramite Carvalho senza indulgenze e con una furente ma trattenuta indignazione morale. Ne Il centravanti la figura di Basté de Linyola, imprenditore ed ex uomo politico, è assunta a paradigma di tale doppiezza. Quest’uomo è davvero il dottor Jekyll e mister Hyde. Presso l’opinione pubblica egli è universalmente stimato come un esponente di quella borghesia moderna, colta e progressista che rappresenta un vanto della Catalogna democratica. Nei suoi discorsi ufficiali, la necessaria crescita della città consentita dalle Olimpiadi è un mix intelligente di conservazione e rinnovamento architettonici e urbanistici. Grattata via questa lustra vernice, Bastè si rivela però come il capofila di una segreta gigantesca speculazione immobiliare, pronta ad avvolgere nelle sue spire la città. Ora, questa borghesia di Montalbàn, quando toglie la maschera fa davvero paura, per il rivoltante cinismo ipocrita che ne ispira le mosse. Basté è uno che la mattina vuole continuare a guardarsi nello specchio e crede che per questo basti non sapere i metodi, metodi criminali spinti fino all’omicidio, usati da certi loschi ancorché altolocati faccendieri, usati per togliere di mezzo ogni ostacolo al progetto speculativo. “Basté de Linyola o Camps O’Shea – altro bel soggetto, rampollo di buona famiglia imbelle e frustrato che sfoga le sue pulsioni letterarie in arzigogolate ma pur sempre squallide missive anonime – erano le persone intelligenti più pericolose che avesse conosciuto, uscivano dal bene per entrare nel male, e viceversa, senz’altro requisito oltre al mutamento del linguaggio o del silenzio. Basté adoperava la filosofia e Camps la poesia, ma erano due farabutti, due farabutti essenziali e caucasici, confusi in mezzo a tutti i farabutti essenziali e caucasici, più difficili da identificare nei commissariati dei marocchini e dei neri”.
Basti vedere come giocano con i simboli più sacri della cultura popolare, pronti a innalzarli come a calpestarli per i loro interessi, badando bene in questo caso, si raccomandano con i complici, di non comparire. Non parliamo di religione. Parliamo di calcio. È risaputa la funzione identitaria del calcio, il senso di appartenenza a un club come fonte del senso di appartenenza a un luogo, e viceversa – perché non prendere in considerazione un itinerario nella storia dei rapporti dello sport veneziano con la città, attraverso le voci dei suoi protagonisti? In Catalogna tale funzione è sentitissima, perché è forte lo spirito nazionale e il Barcellona Fùtbol Club è, storicamente, “più di una società sportiva, nientemeno che l’esercito simbolico della Catalogna”, “esercito simbolico non armato della catalanità”. Basté ne è diventato il presidente, con l’impegno di restituire la squadra alla passata grandezza, e ammirazione e consenso sono universali. Al centro della speculazione edilizia che egli trama c’è però il campo di calcio di un’antica e gloriosa ma ora decaduta squadra cittadina, il Centellas del Poble Nou, “un club sopravvissuto che tirava avanti spinto dal tifo incondizionato di un quartiere” e i cui fondatori avevano resistito a ogni tentazione di vendita del terreno; e condizione necessaria per Basté e compari è che quel club chiuda, costi quel che costi, tutti i sistemi sono buoni, anche l’omicidio, quantunque casuale, del suo centravanti; basta non sporcarsi direttamente le mani, nè voler sapere chi e come se le imbratti… Che genere di città, dunque, sta diventando Barcellona? Per Carvalho-Montalban, “sta morendo la città in cui la compassione era necessaria e nasce una città in cui avrà senso soltanto la distanza più breve tra comprare e vendere se stessa”.
Per chiudere con una nota leggera, come dimenticare che Pepe Carvalho è un investigatore gourmet, ottimo cuoco e goloso intenditore di ogni delizia del palato? I romanzi di Montalbàn disegnano una geografia dei sapori, dei profumi e dei colori in cui Barcellona è la cucina che raccoglie e dispensa la gastronomia della Catalogna, di tutta la Spagna e dell’intero Mediterraneo. Per Venezia Mestre Marghera contemporanee bisognerebbe parlare di puzze più che di odori; ma seguire una traccia gustativa e olfattiva per disegnare la fisionomia di una città potrebbe essere non solo un compito da antropologi o da sociologi, ma anche un’usta di qualche attrattiva per degli storici.