di Enrico Zanette
Il nostro amico Enrico Zanette racconta la sua lettura de “Gli impiegati”, un’inchiesta nella Berlino degli anni Trenta firmata da Siegfried Kracauer e diventata un classico.
«Linguaggio, abiti, gesti e fisionomie si uniformano, e il risultato del processo è appunto quell’aspetto gradevole che può essere riprodotto su vasta scala, con l’aiuto della fotografia […]. La corsa ai numerosi istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli. Come devo fare per diventare bello? è il titolo di un opuscolo che è stato recentemente lanciato, e che secondo la pubblicità apparsa sui giornali insegna i mezzi “con cui apparire giovani e belli subito e a lungo”. La moda e l’economia collaborano l’una con l’altra. È vero che la maggior parte delle persone non è in grado di andare da un medico specializzato. Diventano le vittime di ciarlatani, oppure sono costretti ad accontentarsi di preparati che sono altrettanto a buon mercato che problematici. Nel loro interesse il menzionato deputato dottor Moses lotta da qualche tempo in parlamento, per inserire nell’assicurazione sociale anche la cura delle deformità. La giovane Comunità lavorativa dei medici tedeschi che operano nel campo cosmetico ha fatto propria questa legittima esigenza» (S. Kracauer, Gli impiegati, Torino, Einaudi, 1980, pp. 21-22).
Sembra una descrizione della società attuale e invece è un ritratto della Berlino impiegatizia degli anni Trenta del secolo scorso. Gli impiegati di Kracauer trasmette a ogni pagina questa sensazione di contemporaneità. Non a caso l’edizione italiana (Einaudi, Torino 1980, traduzione di Anna Solmi e introduzione di Luciano Gallino) porta il sottotitolo Un’analisi profetica della società contemporanea. L’originale uscì a puntate nel 1929-1930, nel feuilleton della Frankfurter Zeitung, uno dei quotidiani più noti dell’epoca, diffuso a livello nazionale e internazionale; di orientamento liberal-democratico, appoggiava il consolidamento della vacillante Repubblica di Weimar e il suo punto forte era proprio il feuilleton nel quale scrivevano tra gli altri Benjamin, Brecht, Adorno, Mann. Il testo fu poi subito ridotto in volume per Suhrkamp. Il titolo: Die Angestellten. Aus dem neuesten Deutschland, la nuovissima Germania degli impiegati, gli Angestellten delle grandi aziende private, da non confondere con i più tradizionali Beamten, cioè i funzionari dell’amministrazione pubblica.
I temi principali dell’inchiesta di Kracauer sono: razionalizzazione economica; meccanizzazione del lavoro impiegatizio; anonimia dell’impiegato; la moda del weekend; la funzione di distrazione dello sport promosso dalle aziende e dei prodotti culturali come il cinema, l’arte, ecc.; la miseria quotidiana della classe media; la perdita di prestigio sociale; la tirannia dei capi reparto; il licenziamento degli anziani; la centralità della giovinezza; la funzione etica della pubblicità.
Un libro a Berlino, quasi cinque anni fa
Perché ho letto questo libro? Se non ricordo male, il mio interesse per Kracauer risale all’inverno 2008. Nella mia stanzetta di Kreuzberg (Berlino) stavo leggendo Microhistory: Two or Three Things That I Know about It (uscito nel 1993 su "Critical Inquiry”, vol. 20, n. 1, pp. 10-35, poi in italiano su “Quaderni Storici”, 86, 1994, pp. 511-539; ora si legge nella raccolta Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 241-269).
Non era la prima volta che leggevo e sentivo quel nome, graficamente semplice, sonoramente tedesco e facile da ricordare (ammetto uno strano fascino per la K tedesca). Doveva essermi apparso già qualche anno prima, compulsando su Google alla ricerca di Sabina Loriga e la sua produzione scientifica. In quell’articolo Ginzburg gli dedicava diverse pagine giungendo a definire Kracauer un microstorico ante-litteram, pur non avendo avuto nessuna influenza nella nascita di quella corrente storiografica, e citava un suo testo postumo, History: The last thing before the last (ed. it. Prima delle cose ultime, prefazione di Paul Oskar Kristeller, Marietti, Casale Monferrato 1985): «Queste pagine postume di uno storico non professionale come Kracauer, costituiscono ancora oggi, a mio parere, la migliore introduzione alla microstoria. Per quanto ne so, esse non hanno avuto alcun peso nell’emergere di questa tendenza storiografica» (Ginzburg, Il filo e le tracce cit., p. 260; tra l’altro in questa raccolta si trova un saggio interamente dedicato al libro postumo di Kracauer: Particolari, primi piani, microanalisi. In margine a un libro di Siegfried Kracauer, ibidem, pp. 225-240).
La cosa mi incuriosiva e pochi giorni dopo scesi in libreria alla ricerca di History The last thing before the last. Purtroppo, mi confermò il libraio, era fuori catalogo. Deluso, ma non arreso rimasi a osservare lo scaffale dedicato a Kracauer e decisi di comprare Die Angestellten. Capita a volte di entrare in un negozio con un’idea e di uscire con una cosa che non gli corrisponde esattamente. Volevo Kracauer il microstorico ante-litteram è vero, la microstoria in tedesco ecc., ma volevo anche abbandonare i giornali e diventare un lettore – direi quasi un essere umano come gli altri – comprare un libro in tedesco, il mio primo libro in lingua. Die Angestellten faceva al caso mio: titolo semplice, testo agevole e prezzo economico. In più a dispetto dell’altro più teorico, mi poteva dare la superiore chiarezza del metodo quando si manifesta nella pratica.
Era un giorno importante che purtroppo perse di significato, travolto dagli eventi futuri. Infatti in breve tempo mi trasferii a Parigi e sebbene Die Angestellten fosse venuto con me, rimase in disparte a causa del francese che ora monopolizzava le mie attenzioni linguistiche. Poi, nel corso dei successivi traslochi avevo dovuto abbandonarlo come lettura “non indispensabile” nello sgabuzzino dei miei a Vittorio Veneto.
Pochi giorni fa, passati circa cinque anni da quel fatidico giorno, vado alla biblioteca di Vittorio Veneto a prendere in prestito il libro di Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. E chi vedo lì vicino? Gli Impiegati di Kracauer. Lo ritrovavo questa volta in italiano, sempre per caso intento a cercare qualcos’altro. Si trattava però di una casualità diversa: nella prima non lo cercavo nemmeno; nella seconda invece credo che il mio occhio si fermò sul suo dorso condizionato dai pensieri che mi frullavano per la testa in quei giorni: “Normalità!” pensai appena lo vidi “Ecco qualcuno che mi aiuterà a pensare l’esistenza normale”. E dal momento che mi ero rivolto a Fukuyama solo per la curiosità di sfogliare un libro più citato che letto, decido di prendere anche Kracauer che mi sembrava una lettura molto più interessante. Dopo qualche giorno lo osservavo, sdraiato sul tavolo, bello, minimale Einaudi col quadrato rosso, mi viene in mente l’edizione tedesca dimentica nello sgabuzzino. E così comincio a leggerlo, testo a fronte.
Una bella sorpresa, da cui ho imparato almeno una cosa: andare di tanto in tanto in una biblioteca – anche una piccola comunale – può essere molto utile, a patto che i libri siano a scaffale aperto.
L’inchiesta mosaico
La prima cosa che mi ha colpito è la chiarezza espositiva. Leggere Kracauer è una delizia perché aiuta a esprimere ciò che è difficile dire, trasformando in linguaggio intuizioni per le quali spesso mancano le parole. Riesce a rendere la complessità dei fenomeni sociali con un linguaggio chiaro, senza per questo semplificare: insieme bambino prodigio ed enfant terrible come lo definì Benjamin nella sua recensione agli Impiegati. Uno stile che era frutto di una riflessione. In un testo del 1931 Kracauer riassumeva quello che considerava il compito dell’intellettuale: «Nichts anderes ist der Intellekt als das Instrument der Zerstörung aller mythischen Bestände in und um uns» («L’intelletto non è altro che lo strumento di distruzione di tutti i residui mitici che sono in noi e fuori di noi», Minimalforderung an die Intellektuellen, feuilleton della Frankfurter Zeitung, 1931). Smascherare le illusioni che sono fuori di noi, ma soprattutto “in noi”. Kracauer infatti – e ciò è ancora uno dei suoi aspetti migliori – osserva la società dal di dentro, attore lui stesso del mondo che racconta. Frequenta i luoghi di lavoro e di svago degli impiegati, conversa con chi incontra, legge le riviste per gli impiegati, si sofferma sulle pubblicità, va al cinema; mai nelle vesti del sociologo, ma piuttosto in quelle dell’attento cronista. Da ciò nasce anche la sottile ironia che caratterizza il suo stile, più amara che derisoria.
Kracauer paragona il suo metodo alla composizione di un mosaico le cui tessere sono costituite dalle singole osservazioni e tenute insieme dalla conoscenza del loro contenuto. Al termine della prefazione si chiede se la sua indagine si possa definire reportage, un genere a suo dire all’epoca molto in voga. Alla caotica giustapposizione delle singole cronache contrappone l’idea di un ritratto-mosaico che tiene insieme la frammentarietà dell’osservazione con l’unitarietà dell’esistenza sociale:
«Il solito reportage può render conto di questa realtà? Da parecchi anni il reportage, in tutte le sue varianti, gode in Germania del massimo favore, poiché si ritiene che esso soltanto possa rendere conto della vita spontanea. […] Ma l’esistenza non viene fissata per il fatto che in un reportage – nel migliore dei casi – la si ha una seconda volta. Il reportage è stato un legittimo contraccolpo rispetto all’idealismo – nulla di più. Poiché soltanto si perde nella vita che quest’ultimo non può trovare, che è ugualmente inaccessibile all’uno e all’altro. Cento rapporti [Bericht] da una fabbrica […] restano eternamente cento vedute della fabbrica. La realtà è una costruzione. La vita deve essere certamente osservata per nascere [erstehen]. Però non è contenuta nella successione più o meno accidentale del reportage, ma è insita solo ed esclusivamente nel mosaico che viene formato con le singole osservazioni sulla base della conoscenza del loro contenuto. Il reportage fotografa la vita, un mosaico siffatto sarebbe il suo ritratto [Bild]» (Kracauer, Gli impiegati, p. 13).
C’è in questa definizione il primato del ritratto sulla fotografia, dell’arte sulla tecnica, che coglierebbe il significato di un fenomeno sociale meglio della fredda oggettività dell’istantanea. Pensando al Processo di Kafka scrive: «Se di solito l’invenzione poetica segue la realtà, qui l’invenzione precede la realtà» (p. 33). La scrittura di Kracauer ha un che di fantascientifico, di distopico.
Ritrarre la realtà quotidiana per Kracauer è soprattutto un modo per fare politica. In un passo polemico nei confronti della sinistra radicale dell’epoca – troppo concentrata secondo lui sugli episodi estremi e sulle contraddizioni più appariscenti del sistema – propone l’osservazione della vita quotidiana, della «vita normale nel suo inappariscente orrore»: «Da qualche tempo si è sviluppata, in Germania e soprattutto a Berlino, una giovane intellettualità radicale che attacca il capitalismo, in riviste e libri, in una maniera piuttosto violenta e uniforme. […] Anche se la sua protesta può essere autentica e spesso feconda, è però troppo facile. Poiché di solito si leva solo contro casi estremi: la guerra, i madornali errori della giustizia, i tumulti di maggio, ecc. senza considerare la vita normale nel suo inappariscente orrore. […] stigmatizza certe degenerazioni vistose e dimentica la serie di piccoli eventi di cui si compone la nostra vita sociale normale e di cui quelle degenerazioni devono essere considerate come il risultato. Il radicalismo di questi radicali avrebbe un peso maggiore se penetrasse veramente nella struttura della realtà, invece di prendere le sue disposizioni dal piano nobile. Come può cambiare la vita quotidiana, se non la prendono in considerazione neanche coloro che avrebbero il compito di sommuoverla?» (p. 106).
La vita quotidiana, l’esistenza [Dasein] troppo spesso sfugge alla politica.
“Senza tetto” tra miseria quotidiana e distrazione
Uno dei capitoli più interessanti di questo ritratto-mosaico è quello dedicato ai luoghi di distrazione. Secondo Kracauer il dramma degli impiegati è di aver perso – con la razionalizzazione del lavoro, la riduzione dello stipendio e la precarietà contrattuale – il ruolo di “sottoufficiali della borghesia”. In un passo di estrema chiarezza esprime il senso del titolo del capitolo Asili per senzatetto: «L’operaio medio, che qualche piccolo impiegato guarda così volentieri dall’alto al basso, spesso gli è superiore non solo materialmente, ma anche esistenzialmente. La sua vita di proletario dotato di coscienza di classe è coperta da concetti marxisti, di un marxismo volgare, che peraltro gli dicono pur sempre che cosa si vuol fare di lui. È anche vero che oggi il tetto è abbondantemente bucato.
La massa degli impiegati si distingue dal proletariato perché è spiritualmente senza tetto. Per il momento non sa trovare la strada che lo porti tra i compagni, e la casa dei concetti e sentimenti borghesi che aveva abitato finora è crollata, poiché lo sviluppo economico l’ha privata delle sue fondamenta. Al presente vive senza una dottrina su cui poter alzare gli occhi, senza uno scopo da poter interrogare. Vive dunque nella paura di alzare gli occhi e di interrogarsi fino in fondo» (p. 88).
In questa condizione di senzatetto, perseguitato dal dover essere delle pubblicità – che propongono l’adeguamento a una vita «disegnata dalle inserzioni delle riviste degli impiegati: penne; matite Kohinoor; emorroidi; caduta dei capelli; letti; suole di gomma; denti bianchi; prodotti per ringiovanire; vendita di caffé presso persone conosciute; grammofoni; crampo degli scrivani; tremori [Zittern], in particolare in presenza di altri; pianoforti di qualità dietro pagamenti settimanali, ecc.» (pp. 88-89) – l’impiegato si rifugia nei luoghi di svago.
Gli asili per senzatetto sono sia i locali alla moda, sia le rappresentazioni cinematografiche, le riviste patinate, il week-end, lo sport, tutto ciò che mette in scena il rovescio della grigia quotidianità: «Quanto più la monotonia domina nel giorno feriale, tanto più la sera di festa deve allontanare da esso. […] Non è il mondo così com’è, ma quale appare nelle canzoni di successo. Un mondo che fin nell’ultimo anno è stato come pulito da un’aspirapolvere, che ha eliminato tutta la polvere della vita quotidiana […]. È vero che non appena il cameriere spegne la luce subito ricompare la giornata di otto ore» (p. 94).
Le espressioni culturali e artistiche, politicamente disinnescate, servono così da asili per gli impiegati: «Ora la società provvede, consapevolmente e probabilmente ancora più inconsciamente, affinché questa domanda di beni culturali non porti a riflettere sulle radici della vera cultura, e quindi alla critica delle condizioni per cui essa è potente. Non ostacola l’impulso a vivere in modo brillante e disperso, lo promuove, dove e come può. […] Poiché è essa che dà il tono, le riesce tanto più facilmente di far credere agli impiegati che una vita svagata sia insieme quella che ha più valore. Presenta se stessa come il supremo valore, e se la maggioranza dei dipendenti la prende come proprio modello quasi si trova già dove essa vuole appunto che si trovi […] Ma la luce acceca, piuttosto di illuminare, e forse tutta la luce che negli ultimi tempi inonda le nostre grandi città serve non da ultimo ad accrescere il buio» (pp. 89-90).
La vita dell’impiegato consiste nella distrazione dalla propria miseria nel sogno e nell’illusione continua di poter tradurre quel sogno nella quotidianità. Linguaggio, gesti, abiti, fisionomie si uniformano costantemente ai diversi modelli proposti dal grande schermo della coscienza sognante, nel tentativo irraggiungibile di sfuggire a se stessi. L’apparire è un modo di essere che purtroppo non può essere mai realmente: «Al lunapark ogni tanto viene eseguito, di sera, uno spettacolo di giochi d’acqua illuminati dai bengala. Nell’oscurità si levano continuamente nuovi fasci di raggi rossi, gialli, verdi. Quando tutto questo sfarzo è finito, si constata che è stato ottenuto con il povero intreccio di alcune cannelle. I giochi d’acqua assomigliano alla vita di molti impiegati. Si salva dalla sua povertà con la distrazione, si fa illuminare dai bengala e si dissolve nel vuoto notturno, immemore della propria origine» (p. 98).
La miseria quotidiana dell’impiegato non consiste solamente la sua monotonia-burocratizzazione lavorativa, ma anche nella distrazione, nell’essere continuamente in balia dell’illusione e della disillusione di una vita migliore.
Il carattere politico dell’indagine di Kracauer appare allora più chiaro: si tratta contrastare i mezzi di distrazione, illuminando e smascherando [aufklären und entlarven] l’esistenza quotidiana [Dasein]. Ci sono contenuti che non sono ritratti, ci sono realtà che non vengono raccontate; si tratta di ritrarre quei contenuti che vengono coperti dall’illusionismo prodotto dai mezzi di distrazione: «Per quanto riguarda la produzione cinematografica attuale, in due saggi usciti sulla "Frankfurter Zeitung", Le piccole commesse vanno al cinema e Il film attuale e il suo pubblico, ho dimostrato che quasi tutti i prodotti dell’industria cinematografica giustificano il sussistente, in quanto distolgono l’attenzione sia dalle sue aberrazioni che dalle sue basi; che contribuiscono a stordire la massa, con l’artificiale splendore delle apparenti vette della società. Analogamente gli ipnotizzatori addormentano i loro soggetti con l’aiuto di oggetti scintillanti. Lo stesso discorso vale per i giornali illustrati e la maggior parte delle riviste. Probabilmente un’analisi più precisa mostrerebbe che vi ricompaiono sempre gli stessi tipi di immagini, che sono come formule magiche che cerchino di precipitare per sempre nell’abisso di un oblio senza immagini certi contenuti – quei contenuti che non sono inclusi nell’edificio della nostra esistenza sociale, ma includono a loro volta questa esistenza. La fuga delle immagini è la fuga dalla rivoluzione e dalla morte» (p. 96).
Sull’orlo della catastrofe
Dalla Berlino degli anni Trenta molte cose sono certamente cambiate, ma vien da dire non in meglio. Alla razionalizzazione e meccanizzazione del lavoro si è aggiunto il fatto che insieme agli impiegato anche gli operai sono rimasti senzatetto. Gli asili per senzatetto sono oggi al loro massimo splendore. E agli asili si è aggiunto il consumo – vera pietra miliare del nostro sistema economico – che crea l’illusione di poter realizzare, attraverso l’acquisto di un prodotto, il sogno di una vita migliore.
Sapendo come andarono le cose, l’attualità profetica di questo libro riserva un lato inquietante: Kracauer scriveva sull’orlo della catastrofe, e noi? Quale che sia la risposta un fatto è certo: nonostante la profondità dell’analisi e la sua diffusione questo libro fu un fallimento. La denuncia della condizione miserabile del ceto medio non portò infatti a una presa di coscienza e non ostacolò l’adesione di massa degli impiegati al nazismo. Fu lo stesso Kracauer ad accorgersene precocemente. La collaborazione con la Frankfurter Zeitung verrà pochi anni dopo messa in discussione: Kracauer diede le dimissioni dal giornale nel 1933; lui stesso racconta queste vicende nel romanzo autobiografico Georg (composto tra il 1928-1934, pubblicato solo postumo nel 1973, trad. it. Einaudi, Torino 1985), dove il protagonista, un giovane scrittore, perde la fiducia nel suo ruolo di illuminare e smascherare l’esistenza quotidiana e le sue illusioni.
GIANFRANCO FIORE dice
Su Repubblica 28 agosto 2018 l’hanno ricordato a firma di Marco Belpoliti pag 32-33 come un saggio sparito.