di Giovanni Levi
Le riflessioni di uno storico e biografo su come affrontare la questione dell’intimità: i rapporti tra biografia e vita, tra storia e psicanalisi, tra autore e personaggi, tra ricerca d’archivio ed esperienze e ricordi autobiografici. Questo saggio, inedito in italiano, è uscito in francese, sotto il titolo Intimité marrane, sulla rivista di psicanalisi Penser/Rêver (n. 25, 2014, pp. 103-113).
L’intimità è una emozione ambigua, che possiamo osservare dall’esterno ma che non possiamo verbalizzare. Ed è ambigua anche nel momento in cui si vive direttamente. È di fatto il luogo in cui convivono in conflitto conscio e inconscio, la divaricazione fra la vita conscia della veglia e quello che riappare nei sogni. La stessa intimità con sé stessi, la propria vita intima si manifesta come emozione ma non può superare la contraddittorietà dell’accettazione e della resistenza, dell’abbandono e della scelta. Gli storici e i biografi – è questo il mio mestiere – si scontrano sempre con la sensazione che le biografie cha ricostruiscono siano false, troppo coerenti, troppo lineari per affrontare davvero la vita dei personaggi che studiamo. Le vite che raccontiamo rischiano così sempre o di essere immaginate come esemplari, tipiche o di essere in qualche modo caricature. Di noi stessi sappiamo che i documenti che ognuno di noi lascia dietro di sé, non sono che frammenti miseri di qualcosa che li eccede enormemente.
I documenti nascono in genere da situazioni di azione e di decisione e sono comunque la verbalizzazione di qualcosa che non ha in sé un significato univoco, sono anche una scelta tra alternative che convivono nella realtà ma che si perdono nella scrittura. È così lasciato al lettore di immaginare più di quel che possiamo dire. In fondo poniamo davanti agli occhi del lettore lo spettacolo di una vita senza potere far altro che suggerire qualcosa e sottolineare che c’è qualcosa di molto importante e di prevalente che non possiamo trasformare in parole. Un uomo “non può venir raggiunto da nessun interprete per ciò che riguarda l’arte di leggere le intenzioni che stanno al di là dell’espressione”1. Questo è tanto più vero per gli storici, che lavorano su frammenti che non possono essere mai completi, perché si dedicano a qualcosa “che non è più in vita, non dispone di reazioni che traggano origine da epoche remote e che forniscano informazioni attraverso la traslazione”2.
Tuttavia fra le pieghe delle contraddizioni delle azioni degli uomini, l’intimità si coglie sullo sfondo, come una situazione rilevante in cui molte cose si vivono e si elaborano. Ma, come cercherò di chiarire, l’intimità ha volti multipli e in conflitto tra loro, che delimitano un campo che include ed esclude nello stesso tempo definendo i propri confini: l’intimità interna, con se stessi, quella esterna, con il gruppo familiare e quella con un gruppo più vasto con cui ci si identifica. E ognuno di questi conflitti pongono le persone in una complessa ambivalenza. Mi baserò dunque su una vicenda su cui possediamo pochi frammenti e che tuttavia ci può suggerire il senso plurale dell’intimità.
È un’intimità dolorosa che tenterò di immaginare e la reazione di chi guarda il dolore altrui come vergogna e come spettacolo. Non penso infatti che l’intimità debba essere ridotta a quella fra due persone, alle loro relazioni sessuali e sentimentali, come invece è spesso capitato nelle letture sociologiche dell’intimità3.
Il personaggio di questo racconto è Zorzi (Giorgio) Cardoso, unico figlio maschio di Giacomo Cardoso4. Il padre era stato il terzo console portoghese a Venezia dopo Lodovico Lopes di Coimbra, morto a Venezia nel 1620, seguito nella carica dal genero Giorgio Cardoso proveniente da Fez, dove professava apertamente l’ebraismo, morto di peste a Venezia nel 1630 dove – secondo una denuncia all’inquisizione – frequentava la chiesa, ma “stava alla messa ridendo e facendo poco conto” e aveva dato a suo figlio Giacomo un pedagogo ebreo “un giudeo con la baretta chiamato Santes che lo portava con la mano in braccio”5. Zorzi era figlio appunto di Giacomo, affettuosamente allevato in segreto con un’educazione ebraica. Di Zorzi possiamo solo immaginare che nell’infanzia avesse ascoltato i racconti del nonno e che in famiglia si praticasse qualche rito giudaizzante e che il legame strettamente endogamico della famiglia con i membri marrani della Nazione portoghese a Venezia, in Francia, in Germania, in Turchia e in Marocco, luoghi dei loro viaggi e dei loro commerci, avesse lasciato contradditorie tracce nei loro pensieri e nei loro comportamenti, esteriormente cattolici. Diciamo: Zorzi sapeva di venire da una famiglia convertita contro la propria volontà e che questo implicava segretezza e pericolo. Quando il padre morì, ormai i traffici veneziani erano in declino e il ruolo di console portoghese aveva perso rilevanza: molti mercanti si erano trasferiti a Costantinopoli o ad Amsterdam o a Lisbona e i traffici di zucchero e di gioielli, in cui erano specializzati, avevano lasciato Venezia. E per essere veneziani bisognava ormai essere inseriti in una società cattolica che non favoriva la chiusura nella comunità portoghese, ormai molto più piccola che in passato.
La morte del padre Giacomo avvenne nel 1667 e Zorzi e le sue due sorelle Antonia e Isabella furono affidate allo zio paterno Francesco. Francesco propose così ai pupilli una svolta radicale: le grandi imprese commerciali delle generazioni precedenti erano cessate, le entrate dell’attività consolare erano diminuite e in gran parte non erano più state riscosse. Di denari ce n’erano ancora a sufficienza e per vivere in una società cattolica era meglio usarli per una scelta estrema e definitiva, tanto più che Pietro Garcia, marito di Antonia, era pieno di guai con l’inquisizione, insieme allo zio materno Tommaso Gutierrez (saranno inquisiti negli anni immediatamente successivi)6. Così, seguendo quanto aveva già fatto il fratello destinando alla monacazione Isabella, decise che Zorzi si facesse frate novizio a Santa Maria dei Servi, col nome di fra’ Francesco. Un investimento non da poco: fra fine luglio e 10 novembre del 1668 oltre 300 ducati per vestiario corrente e per la vestizione religiosa, mobili, lenzuola, regali al priore e al vicario, mance ai conversi, alla cucina del convento, libri, quadri devozionali per suo uso e per portare in dono al convento. Ma appunto in novembre la contabilità del tutore cambia improvvisamente: il 17 novembre dichiara di aver versato 36 ducati “a Zorzi Cardoso che essendo fuggito dalla religione et deposto l’abito non si chiama più fra’ Francesco”. Gli verserà ancora molto denaro, ma il 23 febbraio dell’anno successivo chiuderà la contabilità: Zorzi non è più a Venezia.
Cogliamo qui appunto tre livelli diversi di identificazione e di intimità: il primo è con sé stesso. Come ha vissuto Zorzi il fatto di sapere di avere un passato ebraico che nell’infanzia l’aveva visto probabilmente in una vita familiare che fino al padre Giacomo aveva conservato una clandestina componente ebraica chiusa nella vita domestica, in contrasto con una vita aperta verso l’esterno, in cui si doveva ostentare un conformismo cattolico? Un secondo livello è quello della stretta cerchia dei conviventi, l’intimità con i genitori, lo zio, le sorelle: un cristiano nuovo doveva agire secondo regole rigorose, di solidarietà collettiva; gli sguardi dei vicini, le spie dell’inquisizione erano continue minacce; la famiglia doveva dunque sapere che anche i comportamenti quotidiani dovevano essere celati all’interno dell’intimità delle mura domestiche, perché non apparisse che non si lavorava il sabato, che si mangiava carne il venerdì o di quaresima, che si digiunava in certe occasioni e che non si mangiavano certi cibi. E questa seconda relazione di intimità implicava un comportamento omogeneo: morto il padre sarà lo zio tutore a imporre o proporre a Zorzi di fare una clamorosa scelta cattolica: farsi frate. E qui siamo in presenza del terzo livello di intimità: Zorzi si ribella, fugge e si nasconde perché certo se c’erano sospetti sulla famiglia il suo improvviso cambiamento di decisione non poteva non avere conseguenze agli occhi dell’inquisizione. E fugge cercando forse un’intimità immaginaria: quella con il mondo dei marrani e dei nuovi cristiani che la famiglia aveva conosciuto attraverso la rete europea e mediterranea delle relazioni commerciali. Una intimità di appartenenza, il sentimento di fare parte della Nacion, come era definito l’insieme dei fuorusciti portoghesi.
Mi pare che in questi diversi livelli di intimità si colga l’ambiguità e il contrasto fra la parte conscia, l’adeguamento esterno a una scelta che possiamo considerare strategica della famiglia, che creava certamente un conflitto nel bambino, con i ricordi familiari del nonno, ebreo dichiarato a Fez e cattolico pubblicamente a Venezia e col padre, educato da un maestro ebreo e con la famiglia materna in cui anche le pratiche giudaizzanti erano evidentemente presenti. Un conflitto interno che si ripeterà a ogni persecuzione nei secoli successivi: la memorialistica ebraica del periodo della persecuzione antisemita nel ‘900 ne ha raccolto molti esempi. Io stesso che, nascosto con la mia famiglia in un villaggio contadino del Piemonte, mi chiamavo Giovanni Cardone ricordo la difficoltà, non sempre dolorosa ma rimuginata dentro di me come una cosa incomprensibile, che aveva reso difficile dopo la guerra il ritorno al mio nome vero. Certo un senso di appartenere a una minoranza, che rafforzava l’identità e insieme il senso di appartenenza a una sia pur indefinita minoranza.
Nel caso di Zorzi, poi, diventato adolescente e maturo, una solidarietà familiare, un senso forte di appartenenza di gruppo che implicava comportamenti che mescolavano segretezza all’interno e comportamenti in parte estranei all’esterno: una dualità che mescolava forse accettazione doverosa e rifiuto che dovevano lottare nella sua vita intima.
Infine la fuga: dopo una esposizione totale alla condizione di converso, sino a farsi frate, una reazione drammatica e tardiva, unita al recupero del nome perduto e a qualche cosa che doveva essere penetrata nel suo modo di sentire e che aveva implicato separarsi da tutto e cercare altro. Qui voglio suggerire che nella sua vita emozionale aveva giocato qualcosa di immaginario, un’intimità diversa con una appartenenza diversa. Non a caso proprio in quegli anni si stava consumando la grande manifestazione messianica di Shabbetai Sevi e posso immaginare che il senso diffuso di crisi e di attesa messianica che aveva invaso le comunità sparse in Europa e nel Mediterraneo, avesse coinvolto anche Zorzi.
C’è una importante differenza fra gli ebrei spagnoli e quelli portoghesi. Gli ebrei spagnoli convertiti e restati in Spagna nel 1492 avevano subito persecuzioni cha avevano portato a migliaia di autos da fé e a una emarginazione sociale dei nuovi cristiani in base alle regole sempre più stringenti della limpieza de sangre. Ma non erano un gruppo omogeneo e ricco di relazioni interne: progressivamente le loro pratiche giudaizzanti si erano perdute e si era verificata una assimilazione pressoché completa. Gli ebrei spagnoli che fuggirono successivamente o che erano da subito fuggiti in Turchia, in Africa e in Europa, dove era possibile, erano restati o tornati ebrei. Diversa era invece stata la vicenda degli ebrei portoghesi e degli ebrei spagnoli rifugiatisi in Portogallo dopo il 1492: per loro la conversione era stata – nel 1506 – obbligatoria anche se alcuni erano riusciti a fuggire. Così saranno i portoghesi i veri marrani: quasi tutti avevano subito il battesimo forzato e quindi saranno specialmente loro a essere inseguiti per l’Europa e l’America dall’inquisizione se tornavano all’ebraismo o se lo praticavano segretamente. Si era così formata quella che tutti chiamavano la Nacion, composta di ebrei, di cattolici, di convertiti tornati all’ebraismo, di giudaizzanti in segreto. “È importante riconoscere – dice Yerushalmi – che anche prima di cominciare a giudaizzare, ogni nuovo cristiano era un marrano potenziale, che una gamma di circostanze poteva trasformarlo in un marrano attivo”7. Era tuttavia, malgrado questa mescolanza di posizioni, una vera e propria nazione senza stato, legata da una larga rete di relazioni e certamente anche da un consapevole senso di appartenenza. Questa, la Nacion, era quella a cui Zorzi sentiva di appartenere come di qualcosa che definiva la sua identità. Primo Levi ricorda, in un contesto tutto differente come è ovvio, quello di Auschwitz, che “i credenti vivevano meglio: entrambi, Améry ed io, lo abbiamo osservato. Non aveva alcuna importanza quale fosse il loro credo, religioso o politico […]. Il loro universo era più vasto del nostro, più esteso nello spazio e nel tempo, soprattutto più comprensibile. Avevano una chiave ed un punto d’appoggio […] un luogo in cielo o in terra in cui la giustizia e la misericordia avevano vinto o avrebbero vinto in un avvenire forse lontano ma certo”8. Per quanto io non abbia nessuna prova delle ragioni della scelta e delle vicende successive di Zorzi Cardoso, mi pare questa una ipotesi attendibile della sua decisione drastica: la ricerca di una nuova intimità col mondo diasporico delle persone che partecipavano della sua condizione.
Nel riflettere sulla condizione marrana si è spesso voluto vedere in essa una delle cause della modernità ebraica e di un accentuato individualismo: di fronte alla straordinarietà di questo fenomeno storico di un’identità continuamente minacciata, spesso mutante nel corso della vita, per necessità più spesso che per scelta, di una lunga preservazione accanto a una lunga persecuzione, si è accentuato l’aspetto individualistico e si è dimenticato quanto di collettivo c’era in questo universo. In un libro fondamentale sul marranesimo come all’origine della modernità ebraica, Yrmiyahu Yovel scrive per esempio: “L’un des principaux traits de l’expérience marrane fut la découverte de la subjectivité et de l’intériorité. Le marranisme impliquait, dans la plupart de ses formes, une vérité personnelle cachée, où s’enracinaient le sens et la motivation profonde de la vie – une vérité qu’il fallait dissimuler au monde et explorer en privé. L’esprit marrane se détourna ainsi du monde pour faire retour sur lui-même […]. La voie mystique et la voie rationnelle menèrent l’une et l’autre à la découverte d’une nouvelle entité culturelle: le moi intime… Et le moi en tant que domaine individuel et espace intérieur est devenu un concept clé de la modernité”9. Mi pare davvero un anacronismo e preferisco immaginare con Primo Levi che quello che contribuiva alla preservazione della tradizione ebraica, che favoriva la resistenza, che creava dubbi sulla scelta cattolica era il rimando a qualcosa di collettivo, qualcosa di opposto a una scelta isolata e individuale come la Nacion o comunque “un luogo in cui la giustizia e la misericordia avevano o avrebbero vinto”, l’intimità con qualcosa di collettivo e di identificabile, la comunità di coloro che partecipavano della medesima condizione, la comunità dei propri simili. E mi pare che semmai una condizione simile sia quella che ha creato il senso laico di appartenenza, lontano dalle pratiche religiose, che caratterizza la storia dell’ebraismo contemporaneo.
Una intimità sofferente dunque quella che mi è parso di poter leggere nella vicenda che ho raccontato. Molto si è discusso sul marranesimo e molte biografie di marrani sono state scritte e anche molte differenti interpretazioni sono state date del loro significato nella storia dell’ebraismo per domandarsi in che senso si rimaneva ebrei dopo molti anni, spesso per varie generazioni, passati in clandestinità che produceva spesso una cancellazione definitiva delle radici ebraiche e che anche nel caso di un ritorno all’ebraismo tuttavia scontava una greve alterazione dovuta alla lunga lontananza dalle pratiche e dalla tradizione. Gli storici più conservatori – basandosi anche su una parte dei responsa rabbinici del XVII secolo – sono giunti a concludere che avere accettato la conversione anziché il martirio li aveva esclusi definitivamente dall’appartenenza all’ebraismo e che dunque il giudaizzare clandestino e il marranesimo erano non una storia di ebrei ma la storia di una invenzione e di una costruzione fatta dall’inquisizione, per un complesso di ragioni ideologiche, economiche o politiche10. La posizione opposta ha invece visto piuttosto il lato modernizzante e positivo del marranesimo, come una condizione che aveva messo l’ebraismo a contatto con la cultura altra e che questo aveva arricchito culturalmente quelli che erano tornati all’ebraismo11. Ma al di là di questa discussione le molte biografie di marrani, mercanti portoghesi che si destreggiavano di fronte a una perenne condizione di emarginazione e di pericolo o martiri, che l’inquisizione perseguitava e uccideva, in Europa e in America, danno un’immagine esterna dell’intimità marrana, in cui le spiegazioni si radicano in una causalità contingente e fattuale, spesso deformante. Lasciano così al lettore di interrogarsi sugli aspetti psicologici di una condizione umana che è forse impossibile comprendere appieno. La vita intima, il dolore, l’incertezza continua, il segreto, la vergogna dell’abbandono della tradizione dei padri si possono solo immaginare. Le loro vite sono in qualche modo raccontate come in uno spettacolo cui noi partecipiamo e reagiamo come spettatori di una tragedia.
Tuttavia riflettere su questo ci rimanda a una conseguenza altra della riflessione sull’intimità: perché c’è un aspetto particolare dell’intimità che riguarda come si affronta la sofferenza e il dolore, il proprio ma specialmente quelli degli altri. Dopo le dittature del XX secolo è seguito dovunque un lungo periodo di silenzio e di rimozione. Parlare dei desaparecidos in Argentina e in Cile richiese molti anni e così un riesame dei crimini franchisti e, per esempio, in Italia, la casa editrice Einaudi nel 1947 aveva rifiutato la pubblicazione del libro di Primo Levi e di quello di Robert Antelme “perché in quel momento l’argomento pareva insopportabile al pubblico” come spiegherà Vittorini nel 195412. La stessa memoria dei sopravvissuti era assalita dalla vergogna di essere appunto sopravvissuti. L’intimità del dolore proprio e altrui richiede un lungo tempo di distacco e di elaborazione perché se ne possa parlare, perché lo si possa pensare ed elaborare. Passato molto tempo le cose hanno mutato di significato, spesso i protagonisti sopravvissuti sono ormai scomparsi e le vicende sono irrigidite nella memoria e parlano a un pubblico diverso per età e contesto che ne consente non tanto la rielaborazione quanto la sterilizzazione e spesso la falsificazione. Su questa vergogna e sul senso di colpa che chiude nell’intimità qualcosa che si vuole cancellare e dimenticare ha scritto ancora Primo Levi13, e lo abbiamo potuto vedere in altre situazioni tragiche del secolo scorso. E della nostra facilità di dimenticare le tragedie umane che ci circondano è qui inutile parlare. Però su una cosa mi pare giusto riflettere: la tragedia altrui può essere educativa e morale se resa visibile? Mi sono sempre domandato se era giusto portare le scolaresche a visitare i Lager. Vedere luoghi, immagini, resti non ha automaticamente la capacità di educare: può anche stimolare reazioni sadiche di fronte a fotografie di montagne di cadaveri oppure gettare le basi dell’indifferenza e – come ormai spesso avviene per la spettacolarizzazione televisiva della morte – abitudine. Gli uomini non sono tutti uguali e non si può pensare che tutti rispondano con la pietà e con la condanna, anche perché lo choc di queste visite è in ogni caso uniformemente violento ma non produce reazioni uniformi.
Voglio dunque terminare queste considerazioni sull’intimità e la sua spettacolarizzazione attraverso le immagini ma anche attraverso la scrittura degli storici, con un ricordo personale. Nel 1945 avevo 6 anni e i miei genitori, che dopo il 1938, all’inizio della campagna razziale, si erano riavvicinati alla comunità ebraica ma non alle pratiche religiose, decisero di mandare me e mio fratello alla scuola ebraica, per mostrare che esistevano ancora bambini ebrei. La situazione della scuola era molto complessa e la tragedia si viveva quotidianamente. Qualche mese dopo l’inizio della scuola giunsero in Italia alcuni filmati girati nei campi di concentramento da operatori russi i americani. Tutte le classi furono portate in un cinematografo cittadino e di fronte a noi, per un tempo che ricordo come lunghissimo, passarono le scene spaventose di morti e di persone scheletrite che si muovevano come fantasmi. Non so dire che effetto ha avuto questa decisione feroce dei nostri maestri: eravamo tutti bambini ebrei e lo spettacolo della tragedia, della mostruosa violazione dell’intimità di una massa informe di persone morte che entrava con violenza nella nostra intimità, ha forse contribuito a fare di molti di noi, anche se laici e marrani, dei portatori di una indelebile identità.
- Wilhelm Dilthey, Gesammelte Schriften, Teubner, Leipzig und Berlin 1954, vol. V, p. 221. [↩]
- Sigmund Freud, Costruzioni nell’analisi (1937) in Id., Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1979,p. 543. [↩]
- Un esempio: Anthony Giddens, The Transformation of Intimacy. Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies, Polity Press, Cambridge 1992. [↩]
- Il documento da cui traggo la storia di Zorzi Cardoso è in Archivio di Stato di Venezia, Giudice di Petizion, filza 983, n. 22. Sulla famiglia Cardoso e sui consoli della Nazione portoghese a Venezia, cfr. Federica Ruspio, La Nazione Portoghese. Ebrei ponentini e nuovi cristiani a Venezia, Silvio Zamorani, Torino 2007, pp. 188-226. [↩]
- Pier Cesare Ioly Zorattini (a cura di), Processi del S. Uffizio di Venezia contro Ebrei e Giudaizzanti, vol. XIII, Appendici, Olschki, Firenze 1997, p. 257. [↩]
- Pier Cesare Ioly Zorattini (a cura di), Processi del S. Uffizio di Venezia contro Ebrei e Giudaizzanti, vol. XI, Olschki, Firenze 1993, pp. 177-194. [↩]
- Yosef Hayim Yerushalmi, From Spanish Court to Italian Ghetto. Isaac Cardoso. A Study in Seventeenth-Century Marranism and Jewish Apologetics, University of Washington Press, Seattle-London 1981, p. 39. [↩]
- Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Id., Opere, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 1106. [↩]
- Yrmiyahu Yovel, L’aventure marrane. Judaïsme et modernité, Seuil, Paris 2011, pp. 573-575. [↩]
- Cfr. Ben Zion Netanyahu, The Origins of the Inquisition in Fifteenth Century Spain, Random House, New York 1995. [↩]
- Su questo insistono sia Yerushalmi sia Yovel, citati, in polemica con le posizioni conservatrici. [↩]
- Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 455. [↩]
- Levi, I sommersi e i salvati cit., cap. “La vergogna”, pp. 1045-1058. [↩]
redazione sito sAm dice
Ringraziamo Alberto Cavaglion per la sua attenzione e per aver segnalato questo articolo nella sua rubrica ticketless, sul sito moked.it (Moked – il portale dell’ebraismo italiano): http://moked.it/blog/2016/02/17/ticketless-intimita-marrane/
Ne approfittiamo per precisare che non abbiamo dovuto eseguire una traduzione, ma abbiamo pubblicato il testo originale di Giovanni Levi, mentre è la versione francese a essere una traduzione (dall’italiano).