di Bianca Guidetti Serra
Ci avviciniamo al 25 aprile pensando a chi ebbe “la strana idea di battersi per la libertà”, ma non poté vedere la Liberazione. Riprendiamo le pagine che Bianca Guidetti Serra dedicò a Emanuele Artom, ucciso nell’aprile del 1944, dopo due settimane di orrende sevizie. Vent’anni dopo, la Guidetti Serra decise di verificare se i torturatori di Artom (e dei partigiani Ferrero e Costabel, e di Giovanni Balonsino, Guglielmo “Willy” Jervis, Jacopo Lombardini, altri compagni uccisi dopo essere stati seviziati) avevano pagato per i loro crimini, consultando gli archivi giudiziari: la sua attività di avvocato la aiutò ad accedere alla documentazione. Appurò altri vilipendi: lo Stato italiano, che nelle carte processuali si era intestato l’attività partigiana di Artom, depennò la condanna emessa in contumacia contro l’unico responsabile identificato con nome e cognome, latitante; entro il 1960 gli riconobbe addirittura la pensione, con gli arretrati. Nulla da ridire sul piano formale: tutto legale sulla base di articoli del codice, di provvedimenti di legge, di sanatorie, e di una legge del Regno Sardo del 1858 passata al Regno d’Italia e infine alla Repubblica. Una “storia esemplare”, avvisa amaramente Bianca Guidetti Serra cominciando la sua ricostruzione.
Sono trascorsi più di vent’anni ed una sera, riandando con amici al tempo passato, si discorre di Emanuele. Di lui il ricordo è ben presente. Ma i suoi torturatori furono individuati, giudicati, con quali esiti? E qui la memoria di ciascuno si confonde, diviene approssimativa. Non solo: c’è chi si chiede se valga la pena ricordare quei fatti infami. Le opinioni sono divise. Io decido di rivangare un po’ di quel passato.
Comincio dall’Archivio della Corte d’Assise di Torino che ha giudicato una parte della vicenda. Il fascicolo del processo dapprima non si trova. Mi aiuta, con la memoria, un vecchio Cancelliere: “Guardi che è finito in Cassazione e poi a Genova…”. Insomma lo trovo quel benedetto fascicolo: incompleto, privo di molti verbali e di altri atti, ma l’essenziale, la sentenza e qualche documento rilevante ci sono. Quanto basta per ricostruire una storia esemplare.
“In nome del popolo italiano…” la sentenza di primo grado era stata pronunciata il 19 aprile 1951. Imputato per quanto concerneva Emanuele (il processo aveva giudicato anche altre persone), Arturo Dal Dosso, capitano del 1° reggimento SS italiane. L’accusa “collaborazionismo militare e politico… per avere dopo l’8 settembre 1943 e fino alla Liberazione, specie nel marzo 1944 in Torre Pellice, Luserna San Giovanni, Bibiana ed altri paese del pinerolese in unione con altri rimasti sconosciuti (c.d.r.) per favorire le operazioni del nemico nazifascista e nuocere a quelle dello Stato italiano denunciato, rastrellato, seviziato partigiani e persone che ad essi prestavano aiuto, perquisendo, e saccheggiando, incendiando le loro case e in particolare….” e qui l’elenco delle parti lese e dei misfatti compiuti. Inoltre, continuava il capo d’accusa, per avere “usato sevizie particolarmente efferate a Balonsino Giovanni, Jervis Guglielmo, Artom Emanuele, Lombardini Jacopo, persone tutte che vennero in seguito o fucilate o condotte in campi di eliminazione in Germania o che morirono in seguito alle sevizie”.
Degli atti ho letto quanto ho trovato a sostegno dell’accusa e della difesa, compreso un memoriale inviato il 12 novembre 1949 da località ignota dal Dal Dosso, che, occorre ricordarlo, fu sempre latitante. In esso l’imputato contesta ogni responsabilità: Artom, Lombardini, Jervis “mai sentiti nominare”; nulla sa di seviziati o di uccisi. Nel periodo del rastrellamento egli si trovava in ospedale perché ferito. A contraddirlo sta la decisione dei giudici. Una decisione scarna, troppo sintetica forse, portatrice però, non solo della verità formale di un “passaggio in giudicato” (finito in Cassazione, il processo fu definitivamente sentenziato dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova), ma che ci restituisce con l’esposizione dei fatti, accertati dalle deposizioni numerose e convergenti dei testimoni, almeno in parte la storia della tragica fine di Emanuele e di alcuni suoi compagni. E, di riflesso, quella del loro persecutore principale. Certo Dal Dosso non fu il solo responsabile. Di tutti quegli ignoti cui fa riferimento la contestazione, quelli che hanno accettato ed eseguito gli ordini, quelli che hanno infierito per malvagità, o sadismo, o incapacità a reagire, o viltà nulla sappiamo. Al tempo forse non furono cercati o non lo furono con la dovuta diligenza. Anonimi, irreperibili, la sola memoria che resta è quella delle loro efferatezze, della loro brutalità, della loro mancanza di umanità. Non sono stati e non potranno mai più essere perseguiti: li denunciamo tuttavia alla storia (e non suonino retorica queste parole).
E Arturo Dal Dosso? Di lui, invece, qualcosa sappiamo dalle carte processuali. Ecco, senza commento qualche brano testuale della motivazione della sentenza quando si avvia alla conclusione: “per gli art.li 5 D.L.L. 27 luglio 1944 n. 159 4 gli art.li 51 e 58 del Codice Penale Militare di guerra si dovrebbe applicare al Dal Dosso la pena di morte. Abolita questa dalla Costituzione si deve applicare l’ergastolo”.
No, quindi, alla pena di morte. E su questo saresti stato anche tu d’accordo, Emanuele; almeno così credo. Non a caso il 27 novembre 1943, ancora nel tuo diario, ricordando una conversazione con tuo padre, hai annotato: “dissi che, quale commissario politico, spero di poter salvare qualche imputato dai tribunali rivoluzionari: mi rispose ricordandomi il detto talmudico che un tribunale che pronunzia una condanna a morte una volta al secolo deve essere considerato severo”.
La pena capitale è dunque commutata in ergastolo. Ma il 22 giugno 1946 è stata emanata un’amnistia (la cosiddetta amnistia Togliatti), per cancellare, in occasione della proclamazione della Repubblica, i delitti “politici” commessi nell’attività partigiana o “collaborando con l’invasore tedesco”. Sono però previste alcune esclusioni dal beneficio. Così Dal Dosso non potrà essere amnistiato per vari motivi: si è volontariamente sottratto alla cattura, è responsabile di saccheggio, di omicidio e di aver inferto “sevizie particolarmente efferate” ai prigionieri.
E, continuiamo a leggere nella sentenza: “in pochi giorni 10 case furono bruciate a Luserna e circa 50 in quella valle; spesso prima di essere incendiata la casa veniva completamente svaligiata e […] dopo l’incendio le SS passavano ancora ad asportare i pochi mobili rimasti”.
“Più di una volta […] una casa fu svaligiata in presenza dello stesso Dal Dosso. Non si tratta quindi di una manifestazione singola, sporadica di rapacità e di brutalità, ma di un modo di agire sistematico, all’evidente scopo di terrorizzare la popolazione e di costringerla a piegarsi al giogo nazifascista; agire sistematico che non avrebbe potuto avere la sua attuazione senza le direttive e l’incitamento di un comandante autoritario come il capitano Dal Dosso […].” Ma la esclusione dall’amnistia, continua ancora la sentenza deriva soprattutto dall’essere egli responsabile di “sevizie particolarmente efferate”. Per tali s’intendono “oltre le torture crudeli, strazianti, universalmente riconosciute e condannate come atti di alta criminalità, anche tutte quelle rilevanti sofferenze fisiche e morali inflitte al di fuori di ogni senso di umanità, al soggetto passivo […]. Orbene si può discutere se le sevizie abbiano raggiunto un così alto grado nel caso del Jervis, che pure fu torturato tanto che i suoi indumenti non erano più che un grumo di sangue; nel caso del Lombardini che fu ridotto al peso di 45 chili ed al quale furono buttati giù tutti i denti […]. Ma fuori di ogni di ogni discussione è il caso dell’Artom. Il povero martire fu frustato con tubi di gomma e con cinghie sul torso nudo; gli furono messi sul torso nudo e piagato pesanti massi; fu sforacchiato a colpi di baionetta; gli furono conficcati spilli sotto le unghie; gli fu mozzato un orecchio; fu ferito ad un occhio; gli furono strappati i capelli e gettati giù i denti; gli fu persino rotta la vescica; fu immerso nell’acqua gelata e poi investito con getti di acqua bollente […]. Quando fu ridotto in pietose condizioni, egli fu per ludibrio dalla soldataglia posto a cavallo d’un mulo, tutto piagato di ferite, con un cappellaccio in testa ed una scopa in mano […]. Non v’è dubbio che sia stato sottoposto ad una delle più penose mortificazioni della dignità umana […]. Il Dal Dosso stava a guardare simili infamie senza dire nulla, egli, l’unico capitano che fosse in caserma, l’ufficiale più alto in grado del posto […]. Ciò significa che con gusto sadico si compiaceva di tali sevizie, le permetteva, le consentiva, le approvava […]. Le SS italiane per quanto feroci e crudeli non si sarebbero mai permesso simili eccessi senza il preventivo consenso di un comandante autoritario e dispotico come il Dal Dosso.
È quindi palese la correità morale del Dal Dosso con gli esecutori materiali delle sevizie”.
Avevi annotato nel tuo diario, Emanuele, il 28 dicembre 1943: “Questa vita disagiata e faticosa è infinitamente più dura di quella del soldato […]. Si aggiunga che per il soldato la prigionia può essere un rifugio, per noi è la morte e che morte! La morte di un partigiano a cui i tedeschi strapparono le unghie pochi giorni prima di farlo fucilare…”. Metto in corsivo il macabro presagio delle sofferenze in realtà poi subite.
La sentenza nega ogni attenuazione di pena, pur richiesta dalla difesa del Dal Dosso, perché ex combattente della guerra italo-austriaca ’15-18, fronte italiano e macedone, della Campagna di Libia 1919, della campagna per la conquista dell’Impero 1936-39 e Campagna di Grecia e Balcani 1940-43, con due decorazioni al valor militare. “Non solo di tali asserzioni non c’è prova in atti e di lui si sa soltanto che era incensurato e ferroviere”, osservano i giudici, ma: “il martirio dell’Artom e la barbara uccisione dei partigiani Ferrero e Costabel [uccisi nello stesso rastrellamento in modo barbaro, n.d.r.] sono tali da dimostrare spento ogni spirito di pietà e ogni più istintivo senso di umanità”.
Allora, ergastolo? No, perché il già ricordato decreto di amnistia prevede, senza eccezioni in questo caso, la commutazione delle pene: “con la conseguenza che l’ergastolo è commutato in trent’anni di reclusione”.
Intanto, tra indagini e dibattimento, è intervenuta un’altra sanatoria (D.P. 19 dicembre 1949 n. 922) che consente di ridurre i trent’anni di reclusione, comminati al Dal Dosso, a dieci.
Ancora trascorre del tempo. Sempre per la pacificazione tra i cittadini, su proposta del Ministro della Giustizia Gonnella viene emanata una nuova amnistia (D.P.R. 11 luglio 1959 n. 460) perché, dice la relazione al provvedimento: “Estingua tutti i reati politici, quasi a cancellarne il triste ricordo, commessi dall’8 settembre 1943 al 18 giugno 1946 in un periodo in cui la passione e il turbamento degli animi, spingendo ad una lotta fratricida fecero temere il dissolvimento di quell’unità, non solo territoriale ma anche degli spiriti”. In questo caso però il condannato deve soddisfare una condizione: costituirsi all’autorità giudiziaria italiana.
È a questo punto che l’introvabile capitano, che avrebbe da scontare dieci anni, si fa vivo e si presenta al Console Generale italiano di San Paolo del Brasile. A lui il 29 luglio 1959, dichiara, come si legge nel verbale: “Uscito da Coltano, sono vissuto ad Albese (Corno) fino all’agosto 1947. Dall’agosto ’47 al novembre ’48 sono stato ospitato presso una Confraternita religiosa dell’Italia centrale. Dal novembre ’48 al novembre ’52 sono stato nella Legione Straniera spagnola a Tahimina (Melilla) nel Marocco spagnolo. Dal 1953 mi trovo in Brasile”. Ricordata la sua storia, il Dal Dosso chiede l’applicazione dell’amnistia.
La domanda viene trasmessa alla Procura Generale della Corte d’Appello di Torino, competente a decidere. Scriverà il Procuratore: “Il condannato con la costituzione ha ottemperato alla condizione prevista di “sottomissione alla maestà della legge”, pur presentandosi solo ad un Console. Infatti la legge consolare, art. 2°, Legge 15 agosto 1858, n. 2984 del Regno Sardo (non si sbaglia, è proprio così!) attribuiva (ancora attribuisce) a tali autorità “la qualità di giudici”. La Corte d’Appello pertanto “ritenendo che con la presentazione avanti l’autorità consolare possa ritenersi avverata la condizione alla quale la legge subordina l’applicazione dell’amnistia ai latitanti […] dichiara il reato di collaborazionismo estinto e quindi estinta la pena”. È il 2 ottobre 1959.
La storia, quella parte che c’interessa, non finisce qui. Quel fascicolo, monco di tanti atti, comprende ancora un documento autografo dell’amnistiato che, credo, valga la pena di trascrivere quasi integralmente.
“5 febbraio 1960 San Paolo (Brasil). Signor Presidente della Corte d’Assiste di Torino, il sottoscritto Arturo Dal Dosso […] espone: cotesto Tribunale [più esattamente Corte d’Appello, n.d.r.] gli concesse di beneficiare dell’ultimo provvedimento di amnistia per la condanna politica inflittagli con sentenza 19 aprile 1951.
Siccome il sottoscritto fino alla data della condanna percepiva una pensione ferroviaria dello Stato […] e il provvedimento di clemenza annulla reato e pena gli spetterebbe la pensione stessa. Il Ministero dei Trasporti con sua nota […] per riconcedere la pensione chiede una documentazione dell’avvenuta effettiva concessione del provvedimento di clemenza. Su consiglio dello stesso Console Generale il sottoscritto prega cotesto Tribunale di voler essere così compiacente di informare direttamente il Ministero, Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato, dell’avvenuta effettiva concessione del provvedimento di clemenza”.
Il 26 novembre 1960 la Cancelleria provvede.
Sono trascorsi altri anni. Da tempo ad Emanuele è stata intitolata una lunga via che, attraversato uno dei nuovi e sterminati quartieri della periferia, sbocca giusto nei pressi del Sangone. Vi abitano molti degli strati poveri ed emarginati della città. Per il mio mestiere ho a che fare, talvolta, con qualcuno di via Artom. E mi accade di pensare che forse non ti sarebbe piaciuto1, Emanuele, di figurare sulle targhe stradale di un simile quartiere. Credo ne avresti sorriso bonariamente: una piccola beffa ai tuoi nemici. Qualcuno si sarebbe pur chiesto, leggendo il ripetersi del tuo nome, di isolato in isolato: ma chi era questo Artom? E la risposta: un “caduto per la libertà”, come sta scritto, estrema sintesi della tua vita. Ancora una volta a compiere la tua missione di educazione civile.
Nota. Tratto da Bianca Guidetti Serra, Emanuele Artom, primavera 1944, in Ead., Storie di giustizia, ingiustizia e galera (1944-1992), Linea d’ombra, Milano 1994, pp. 11-24: 16-24. Si ripubblica a settant’anni dalla prima sentenza del processo contro i torturatori di Artom (19 aprile 1951), omettendo le note, correggendo alcuni refusi e applicando le norme editoriali del sito.
Nella prima parte dello scritto (pp. 11-16), la Guidetti Serra ricordava il suo ultimo incontro con Artom, avvenuto nel marzo 1944: anche lei era nella Resistenza, il 19 si trovava in Val Germanasca, pronta rientrare a Torino; con Artom non si conoscevano bene, ma avevano molti amici in comune; lui la ferma per chiederle se al prossimo viaggio potrà portargli un po’ di libri dalla città. “Come commissario politico vorrei svolgere un po’ di educazione tra questi giovani partigiani: penso a quando si tratterà di ricostruire il paese”, queste le parole che la Guidetti Serra ricorda; “Pensavi al dopo!”, esclama ancora cinquant’anni dopo, mentre scriveva queste note (pp. 11-12). Nei giorni seguenti “frugai nella mia biblioteca e in quelle ancora disponibili degli amici. Invero, di questi tempi, appariva un po’ strano cercare libri anziché viveri, indumenti, denaro e, perché no, armi. Qualcuno che ritenni utile tuttavia lo trovai, tanto da riempirne uno zainetto. Non sarebbero serviti” (p. 13).
Il 21 marzo comincia il grande rastrellamento contro i partigiani in Val Germanasca. Il 25 il gruppetto di cui fa parte Artom viene tradito da un fascista, un prigioniero che si stavano portando dietro (“e che altro fare se non si è di quelli che i prigionieri li fucilano?” commenta la Guidetti Serra, p. 14). Finiscono sotto il tiro delle SS italiane, riescono a scappare tutti, tranne Artom, esausto, e un giovane compagno, Ruggero Levi, che non vuole lasciarlo solo (arrestato e deportato in Germania, Levi sopravvivrà). Per Artom cominciano le due settimane di atrocità registrate nella sentenza e riferite dalla Guidetti Serra; viene trovato morto nella cella del carcere delle “Nuove” di Torino il 7 aprile 1944. Primo vilipendio postumo: il cadavere fu fatto sparire alla chetichella, e furono degli altri compagni prigionieri a dovere occuparsi della sepoltura. “Nei boschi di Stupinigi, sulle rive del Sangone, dove si disse era stato sepolto, il corpo non è mai stato ritrovato” (p. 16). Da quelle parti, oggi resta via Artom.
Di Artom (che aveva un fratello più piccolo, Ennio, morto ancora più giovane, nel 1940, in un incidente in montagna) resta un diario, che è stato pubblicato. Bianca Guidetti Serra, nel 1994, citava dall’edizione del 1966: Diari. Gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di Paola De Benedetti e Eloisa Ravenna, Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano 1966. Ora si può leggerne un’edizione più ampia: Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di Guri Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino 2008; il curatore ricostruisce anche tutte le vicende dei manoscritti e delle edizioni dei diari. A lungo i diari e la figura di Artom rimasero entro l’ambito di amici e pochi studiosi; ben altra risonanza cominciarono ad avere dopo le riflessioni e le pagine che dedicò loro Claudio Pavone, nel suo celebre Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, Torino 1991). Su questa scia, due anni dopo venne il volume La moralità armata. Studi su Emanuele Artom (1915-1944), a cura di Alberto Cavaglion, Franco Angeli, Milano 1993.
All’amico Alberto Cavaglion dobbiamo la segnalazione del libro di Bianca Guidetti Serra; ne ha parlato di sfuggita anche in un suo recente “Ticketless”, la rubrica che tiene sul sito moked.it (“il portale dell’ebraismo italiano”).
La frase tra virgolette nel cappello, la “strana idea di battersi per la libertà” è invece un riferimento a un articolo di Carlo Levi, Paura della libertà, “La Nazione del Popolo”, 2 novembre 1944 (dove si legge precisamente così: “C’è qualcuno che ha avuto la strana idea di battersi e di morire per la libertà”). (fb)
- Registriamo qui la versione del testo a stampa, chiedendoci tuttavia se non si tratti di un refuso per “spiaciuto”. [↩]