di Piero Brunello, a cura di Andrea Lanza
Primavera, tempo di rivoluzioni. Quest’anno ricordiamo l’anniversario delle “giornate rivoluzionarie” del Quarantotto a Venezia (17-22 marzo) riprendendo alcune pagine da un libro recente di Piero Brunello, Colpi di scena. La rivoluzione del Quarantotto a Venezia (Cierre, Sommacampagna 2018). L’autore parlerà del suo libro lunedì 18 marzo (il giorno dell’insurrezione popolare a Venezia, la prima delle cinque giornate del Quarantotto a Milano e il primo giorno della Comune di Parigi del 1871), alle ore 19 all’Avamposto a Rialto. Il libro sarà presentato a Mestre il 20 marzo, presso lo spazio Negozio Piave 67, alle 17,30 (con l’autore, Paola Sartori e Fabio Bortoluzzi).
Nota del curatore
Il libro di Piero Brunello di cui presentiamo qui alcune pagine è diviso in due parti diverse per approcci e linguaggi, separate da un breve intermezzo. Le prime duecento pagine sono un racconto corale di una rivoluzione in divenire, scandito per giornate: dal 17 al 22 marzo 1848. Sulla base di fonti raccolte in una quarantina d’anni di ricerche, l’autore alterna punti di vista diversi, con testimonianze talvolta inconciliabili, di persone che si trovavano in posizioni diverse – nella società e nello spazio fisico –, mettendole a confronto con il racconto degli eventi rivoluzionari che sarebbe diventato quello “ufficiale”. Brunello mostra come gli eventi che portano alla proclamazione della Repubblica si producano al di là delle previsioni e delle attese delle persone coinvolte, e grazie all’apparente convergenza di classi e visioni politiche diverse. Allo stesso tempo, osserva come non furono mai realmente superate le distanze e le diffidenze che separavano le classi popolari anche da quei benestanti impegnati nella rivoluzione, che si autodefinivano membri della classe “intelligente” (aggettivo che oltre a dare un’idea delle qualità che si attribuivano, contiene specularmente tutta l’incapacità di capire l’intelligenza popolare). Se per le prime la rivoluzione non poteva che essere sociale, per i secondi non doveva che essere politica, e agli stessi termini (repubblica, per esempio) erano attribuiti significati ben diversi.
A questa prima parte, segue un interludio (che ha un doppio titolo: Cambio di scena. Pensando alle giornate di marzo) di una decina di pagine in cui il narratore, che si era limitato fino ad allora a intrecciare i fili narrativi e dirigere il coro delle testimonianze dirette e indirette, prende la parola in prima persona, condividendo ragioni e dubbi nello studiare oggi il Quarantotto veneziano.
Nella seconda parte, quando il quadro degli eventi, nella sua complessità e irriducibilità a una narrazione univoca, è ormai chiarito, si cambia terreno. Comincia un’analisi di alcune questioni fondamentali, al cuore delle giornate veneziane del marzo 1848, ma più in generale di tutto il Quarantotto europeo: il paradossale rafforzamento degli organi statali nel processo democratico-rivoluzionario, la definizione e l’invenzione della nazionalità e di conseguenza dello straniero, il ruolo giocato dall’ideale virile. In altre parole, dalle scene e dai colpi di scena della rivoluzione si passa dietro le quinte, tra l’altro con una cronologia più lunga, almeno di mezzo secolo, e un occhio ai problemi e ai dibattiti storiografici.
L’ordine dei testi qui proposti non segue l’originale: il brano di apertura e quello di chiusura sono tratti dalle dieci pagine dell’interludio, il secondo e il terzo brano provengono dalla prima parte e il quarto dalla seconda. La loro composizione non può esaurire la ricchezza del libro, ma vuole evidenziarne alcuni fili conduttori, proporre una delle molteplici letture cui si presta Colpi di scena. La rivoluzione del Quarantotto a Venezia.
(a.l.)
In che senso parlare di rivoluzione?
Dicono che gli storici sono avvantaggiati perché studiano eventi sapendo come vanno a finire, e invece è vero il contrario, perché rischiano di non vedere in un’epoca storica le possibilità aperte e l’incertezza dell’esito. Nel caso del Quarantotto le parole stesse, a cominciare da “repubblica”, vengono fraintese qualora si veda in quella rivoluzione un momento preparatorio di qualcosa che si sarebbe realizzata decenni dopo e in modi imprevedibili. Lev Tolstoj ha osservato che «l’uomo che svolge una certa parte in un evento storico non ne coglie mai il senso»1. Chi il 17 marzo 1848 pensa di fare un «evviva» all’imperatore per aver concesso la Costituzione ricorderà poi di aver partecipato alla prima giornata rivoluzionaria, e chi il 18 marzo festeggia la Guardia civica pensando che questo inauguri un futuro assetto costituzionale dell’impero austriaco sente gridare all’improvviso «abbasso il governo!». Per dirla con Luciano Bianciardi, «chi fa la rivoluzione non si rende ben conto che la sta facendo»2. Per questo ho preferito testimonianze prodotte – scritte o disegnate – a ridosso degli eventi: non perché ne restituiscono meglio il significato, ma proprio per il motivo opposto, ovverossia perché non hanno idea delle conseguenze, si tratti di quelle di uomini importanti, che si suppone sappiano guidare gli eventi, o di quelle di individui anonimi che invece si pensa non siano in grado di capirli.
Ho cercato negli archivi per sapere quello che fa la gente mentre da qualche altra parte della città succede quella che i libri di storia chiamano “rivoluzione”. Mi sembrava così di poter capire meglio anche ciò che avviene in piazza San Marco; e quando vedo che nelle stesse ore in cui viene proclamata la repubblica gli uffici di polizia incaricati di mandare la gente nei manicomi funzionano regolarmente, allora mi sembra di cogliere maggiormente il significato ambiguo di parole come “repubblica” o “libertà”. Ho dedicato di conseguenza molte pagine […] a una riflessione sulla continuità dello Stato, i cui apparati, a cominciare dalla polizia, passano da un governo all’altro rimanendo sostanzialmente indenni. Carlo Pisacane può sembrare ingeneroso quando si chiede retoricamente se la proclamazione della repubblica a Venezia sia «non una rivoluzione compiuta» bensì «una semplice insurrezione, e quindi l’antica tirannia cambiata di forma» («Un ministro cattolico benedisse la bandiera, ciò basti al lettore per giudicare»)3, però propone un interrogativo che almeno a me è suonato attuale: in che senso possiamo parlare di rivoluzione?
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Venerdì 17 marzo. Libertà, scena I
I secondini sentirono il primo cancello di legno andare in pezzi. Dall’avvicinarsi delle voci capirono che l’assembramento, fatta irruzione nell’atrio, premeva davanti al secondo cancello, quello più interno. Puntellarono la porta con una trave e altri oggetti ingombranti recuperati qua e là nei corridoi. Poi i vetri delle finestre andarono in frantumi.
Rumori di un tumulto arrivarono dalla porta secondaria che dava su una calle interna. I secondini sbarrarono anche quella. Tra le urla provenienti da questa seconda porta si riconoscevano le voci dei due giudici di ritorno dagli uffici del governatore che chiedevano di entrare. Il capo custode non voleva aprire. I due continuavano a gridare di avere ordini urgenti di Palffy. Abram volle sincerarsi che avessero un ordine scritto, e solo allora acconsentì. Il secondino che fece entrare i due giudici riuscendo nel contempo a tenere a bada la folla si ritrovò con un braccio contuso. Due commissari di polizia e una guardia, mandati a calmare il tumulto, tornarono invece nei loro uffici, dove riferirono di essersi stretti «in mezzo alla moltitudine tumultuante» che aveva già rotto i cancelli, infranto i vetri delle finestre (qualcuno si era arrampicato alle inferriate) e stava per buttar giù la porta d’ingresso. Le loro parole «andavano disperse fra le grida ed il tumulto», perciò non avevano potuto far altro che cercare di «frenare il torrente coi gesti»4.
Abram convocò i consiglieri del Tribunale, e diede ordine di liberare i due. Tommaseo stava traducendo un’omelia di Leone Magno. Manin, che sentiva avvicinarsi il rumore della folla come il mare in tempesta (queste le sue parole), vide entrare il secondino capo assieme a De Tipaldo, amico di Tommaseo, ma prima di muoversi volle vedere un ordine scritto che l’autorizzasse a uscire. Abram lo rassicurò. Manin fu trascinato via dalla folla (nella confusione indossava uno stivale e una pantofola)5: all’uscita, davanti a tutti, vide il conte Mocenigo. Fu preso in braccio «come un bambino» dal dottor Giuseppe Secondi, un uomo alto e ben piantato collega all’Ateneo Veneto, poi fu portato in spalla da altri. Il corteo passò per il ponte della Canonica, attraversò la piazzetta dei Leoni ed entrò in piazza San Marco, con Manin sopra un’asse di legno: a un certo punto, stando alle litografie, Manin fu messo a sedere su di una sedia collocata sopra il legno6.
Una decina di anni dopo il letterato Giuseppe Vollo scrisse che la folla che scrollò il cancello e invase il carcere era «un’altra onda di popolo» rispetto a quella che aveva chiesto in piazza la liberazione di Manin e di Tommaseo – erano «quelle facce che nascono e brulicano sul selciato ne’ giorni di sedizione» –, suggerendo che anche per questo motivo Manin si fosse rifiutato di uscire dal carcere «illegalmente» prima di vedere una «formale dichiarazione» del presidente del Tribunale7.
Gli uomini che Manin e Tommaseo incontrarono all’uscita dalle celle erano notabili, professionisti, letterati, uomini d’affari e studenti. Giorgio, figlio di Manin, fu portato in spalla dal figlio dell’avvocato Avesani, un po’ più vecchio di lui8. C’era Giacinto Namias, un medico molto stimato che aveva in cura Emilia, figlia di Manin. Paulo Fambri, studente al ginnasio Santa Caterina e ammiratore di Tommaseo, conservò per tutta la vita un pezzo di legno del cancello abbattuto a spallate9: il pezzo di legno si trasformò in trofeo tanto da comparire in mano a un giovanotto con un cilindro in testa in una delle stampe che raffigurano la liberazione di Manin. C’erano il letterato Emilio De Tipaldo, socio del Gabinetto di Lettura e amico di Tommaseo fin da quando erano studenti a Padova; il notaio Giuseppe Giuriati era con suo figlio Domenico allora studente10; nobili ex patrizi come Nicolò Giovan Battista Morosini e Alvise Francesco Mocenigo, il primo consigliere della Congregazione centrale e il secondo del Municipio. Manin aveva frequentato Mocenigo per molte imprese d’affari sorte negli anni Quaranta, a cominciare dalla costruzione della ferrovia Ferdinandea da Venezia a Milano. Si tratta dunque di persone che frequentavano i luoghi d’incontro borghese della città: lo studio legale di Manin, le Assicurazioni Generali, il Gabinetto di Lettura, il caffè Florian, l’Ateneo Veneto, la libreria Santini, la Camera di commercio.
C’erano anche popolani tra quanti liberarono Manin e lo issarono sulle spalle, come sosteneva Vollo? Sì. Giorni dopo, Antonio Gasperotti (definito «artista») chiederà un sussidio giornaliero «per aver esposto la vita nel 17 di marzo, portato in trionfo il Presidente Manin in Piazza». Il nome compare tra quelli di un gruppetto di giovani che un mese e mezzo prima, in una sera di Carnevale, avevano fatto una bravata girando per Riva degli Schiavoni e piazza San Marco con la pipa all’ingiù. Alla vista del corteo, perlopiù di studenti, Antonio, lavorante berrettaio in campo San Zaccaria, si era procurato una pipa e si era messo alla testa del gruppo assieme al fratello dato che, avendo ventitré anni, era tra i più vecchi.
I due erano riconoscibili, uno grassotello e l’altro con tabarro e barba. Antonio aveva fatto qualche giorno di carcere. […] Non mancavano quindi popolani in piazza San Marco quel 17 marzo, ma erano controllati per così dire, se non diretti, dai notabili. Riferendosi a questo insieme di persone, i documenti parlano di «popolo».
Prendiamo in esame quattro immagini eseguite all’epoca dei fatti11. La prima ritrae l’interno di una cella. L’aria da immaginetta devozionale – Manin in piedi con le mani giunte quasi in preghiera – è dovuta a Giorgio Ciani, un incisore cadorino specializzato in stampe religiose popolari e che firma la litografia assieme a «G. Bozza» (famiglia di incisori attivi a Venezia)12. Alla sinistra sul pavimento si vede la porta divelta. Alla destra un uomo in cilindro che sembra quasi sostenere Manin. Nella cella quattro uomini ben vestiti hanno in testa un cilindro borghese, altri due invece portano la berretta del popolano (uno indossa pantaloni sbrindellati) mentre un giovane, probabilmente un arsenalotto, tiene un’ascia.
Una seconda immagine – un disegno – raffigura il corteo che sta attraversando il ponte della Canonica diretto in piazza. Davanti a tutti Tommaseo con il cilindro in testa è issato sulle spalle di due uomini ben vestiti, uno dei quali pure in cilindro; più indietro, ancora sopra il ponte, Manin a capo scoperto e col cilindro in mano è seduto sopra una tavola portata da popolani. Qua e là cilindri sono sollevati in alto da bastoni in segno di festa. In calce al disegno, Manin e Tommaseo attestano la veridicità della scena con firme autenticate da un notaio13.
Di questo disegno esiste una variante colorata – una litografia – dal titolo Daniele Manin e Niccolò Tommaseo liberati dalle carceri per volere del Popolo, e portati da questo in trionfo pubblicata da «Kier Lit. del Gov. Provv.» – un’immagine in qualche modo ufficiale. Differenze tra l’una e l’altra scena? Molte, a cominciare dal fatto che la folla mossa e disordinata in mezzo alla quale le persone sono colte nelle pose più diverse nel disegno, nella litografia ufficiale si è convertita in un corteo disciplinato in cui ciascuno guarda dritto avanti a sé. In secondo luogo stavolta è Manin davanti a tutti, mentre Tommaseo – se è lui quello issato sulle spalle sopra il ponte – è più indietro e non altrettanto riconoscibile (si sa che non amava farsi ritrarre). Inoltre, le berrette da popolano sono quasi scomparse e sostituite da cappelli a cilindro, mentre fanno la loro comparsa bandiere improvvisate in cui prevale il colore bianco. Il giovane portato a spalla dietro Daniele Manin – molto probabilmente suo figlio Giorgio – non c’è; e non c’è nemmeno la venditrice di acqua (o di latte) che nella seconda litografia stava appoggiata al parapetto della riva. In primo piano appare invece un giovanotto con il tabarro addosso e il legno in mano strappato al cancello delle carceri, molto probabilmente Paulo Fambri, colto nell’atto di agitare il suo cilindro. Ma non è l’unico: altri cappelli a cilindro sono sollevati in alto.
La quarta immagine – una litografia – è di Giacomo Casa e raffigura il corteo giunto in piazza San Marco. Particolare nuovo: il busto di Pio IX, che come vedremo comparirà in realtà qualche ora dopo. Quanto ai cappelli, Manin è a capo scoperto, Tommaseo con il cilindro. Ora, a distanza di una ventina d’anni il capo-custode delle prigioni ricordò che nella confusione Tommaseo uscì di carcere a capo scoperto, tanto che «dovette accettare un berretto che gli fu offerto da un popolano»14.
Giacomo Casa avrà ritenuto poco credibile Tommaseo con un berretto da popolano? Ma la grande maggioranza degli uomini che affollano la scena sono vestiti bene e portano il cappello a cilindro: un tocco di presentabilità borghese? Importante inoltre, in primo piano sul lato destro, un uomo ben vestito che abbraccia un popolano.
C’è un’ultima immagine: un disegno a matita, di Marco De Biasi che si firma «Maestranza del Arsenale», e fa parte di una serie di «sei quadri», come li chiamò l’autore quando ormai vecchio, povero e ricoverato in ospedale dopo anni di esilio, li regalò al generale Sanfermo. Il disegno, intitolato Manin portato in trionfo, rappresenta il momento in cui l’avvocato entra in piazza San Marco, poco prima della Torre dell’Orologio. Quattro uomini sollevano una tavola sopra cui sta Manin seduto su di una sedia con il cilindro in mano; Tommaseo non si vede (si sa che giunto in piazza svenne dall’emozione e fu portato a casa). Gli uomini che lo sollevano sono a capo scoperto, tranne uno che tiene in mano un cappello dalla forma a cupola, suppongo di popolano. Tutto attorno arrivano uomini che lo acclamano sollevando i loro cappelli. Di che tipo? Non è facile distinguere, ma direi che la maggioranza sono cilindri (del resto l’uso di innalzare i berretti sembra meno comune, almeno nelle scene di folla)15.
Conclusione? Cilindri borghesi e berrette popolari si mescolano, anche se i primi prevalgono e danno significato alla scena, soprattutto nelle rappresentazioni ufficiali, a conferma che fin da subito gli uomini che avevano fatto la rivoluzione cercarono di sminuire, se non di cancellare, la presenza dei popolani: tant’è vero che nessuna litografia rappresenta la liberazione dei detenuti nelle carceri di San Severo che seguì quella di Manin e di Tommaseo.
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“Artieri e classe intelligente”: Venezia non è Parigi
Se si parlava di «rivoluzione» – e alcuni lo facevano – si trattava comunque di ridimensionarne il significato. Pochi giorni dopo la proclamazione della repubblica il giovane israelita Isacco Pesaro Maurogonato mandò questo biglietto a Tommaseo: «La rivoluzione francese del 1848 fu una rivoluzione sociale, la nostra fu una rivoluzione politica, quella fu fatta dagli artieri, e dal popolo, questa fu fatta dalla classe intelligente»16. Raccontando com’era stata la rivoluzione Pesaro Maurogonato diceva in realtà come si voleva che fosse. [Pesaro Maurogonato, allora poco più che trentenne, aveva conosciuto Manin e Tommaseo tramite il fratello David, che aveva fatto i suoi anni di pratica da avvocato presso lo studio di Manin. Isacco, prima della rivoluzione, si era rivolto proprio a Tommaseo per indirizzare all’imperatore una istanza per la completa emancipazione: gli israeliti ottenessero finalmente una cittadinanza a pieno titolo. NdA]
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Voci maschili e sguardi femminili
L’affermarsi delle voci maschili per strada a scapito delle voci femminili non si limita tuttavia al canto, ma caratterizza tutti gli spazi pubblici. Che la donna non potesse parlare in chiesa l’aveva già stabilito San Paolo; nella chiesa ortodossa di San Giorgio dei Greci uomini e donne erano separati; quanto alle sinagoghe del Ghetto le donne assistevano ai riti dal matroneo17. Lo stesso valeva per le cerimonie pubbliche. Come avveniva la consegna dei premi d’industria agli imprenditori? «Le donne ascesero le circostanti ringhiere cogli stalli: gli uomini nel mezzo della sala», così un testimone presente nel 1838 nella sala dei Pregadi in Palazzo Ducale; poi arrivò l’imperatore Ferdinando affiancato dalla moglie e consegnò i premi18. Lo schema venne ripreso dalla rivoluzione. Nei riti di festa che si tennero in piazza San Marco il 17 marzo 1848, oppure per le accoglienze ai volontari napoletani, le donne (naturalmente di alto livello sociale) parteciparono affacciandosi dalle finestre delle Procuratie Vecchie e addobbandole con bandiere tricolori, riprendendo in tal modo il modello del matroneo. Quanto ai club, le riunioni del Circolo italiano a Venezia, per esempio, erano riservate agli uomini, ma con una speciale piattaforma da cui le donne potevano guardare di sotto e ascoltare19. Il Quarantotto appare in questo modo un’occasione per gli uomini adulti di stare tra uomini e occupare lo spazio pubblico, ma in modo da essere visibili agli occhi delle donne. L’ideale era il Medioevo, come allora veniva immaginato, e cioè un’epoca in cui l’uomo si batteva «per le patrie mura» e la donna, casta e fedele, lo ricompensava con il suo amore «come premio dovuto al valore, come corona della vittoria»: così nel 1844 uno studioso veneziano di canti popolari a proposito dei componimenti dei menestrelli presentati come modello di canzone20.
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I cambiamenti più profondi
A proposito del Quarantotto, Herzen scrisse che «per trasformare dei carcerati in uomini liberi non basta demolire fino all’ultima pietra la Bastiglia»21. Sfogliando carte d’archivio me ne rendevo conto quando constatavo che, malgrado il governo avesse abolito la censura e decretato la libertà di stampa, editori e tipografi continuavano a chiedere il permesso di pubblicare. Per lo stesso motivo non mi sono soffermato tanto sui proclami che garantivano la libertà di culto, che pure segnavano una novità rispetto alla situazione precedente, ma ho preferito vedere come avvenivano i funerali dei volontari ebrei o protestanti, se la disposizione dei letti negli ospedali tenesse conto del culto in base al quale venivano ripartiti gli individui, se la presenza di un corpo di Guardia all’entrata del Ghetto si fosse mantenuta anche dopo il 22 marzo o no.
Che cosa provocò infine il Quarantotto nei rapporti tra uomini e donne? Ecco quanto disse un esule veneziano in un incontro di profughi politici a Costantinopoli nel 1857: «Io ricordo che in Italia, nei verdi miei anni, era quasi vergogna che il marito andasse a diporto colla propria moglie. Quando partii era il contrario, cioè, vergogna era invece se moglie si trovava con altri senza il suo marito»22. Come per il Sessantotto nel XX secolo, anche nel caso del Quarantotto le conseguenze più profonde avvennero nei cambiamenti dei costumi. Un uomo del Quarantotto non avrebbe mai scritto nelle sue memorie quello che il duca di Marmont, un uomo della generazione precedente, ricordò a proposito del suo soggiorno giovanile in Roma, dove «un marito parlava degli amanti di sua moglie senza imbarazzo e senza malcontento»23. Il Quarantotto – ma più in generale l’intero processo risorgimentale al pari dei movimento nazionalisti europei dell’Ottocento – confermò il carattere eterosessuale della mascolinità, rafforzò nel modello ideale di famiglia i legami affettivi tra i coniugi e incluse tra le componenti della virilità e della cittadinanza la fedeltà coniugale (in pubblico)24. Questo non significa maggiore eguaglianza nei rapporti tra uomo e donna o una ridefinizione dei generi nell’ambito privato: tuttavia aprì nuovi conflitti nell’ambito pubblico, perché laddove gli uomini si abbracciano riconoscendosi fratelli, le donne possono chiedere di essere trattate da sorelle, protestando cioè contro l’esclusione dal diritto e dalla sfera politica.
Nota. Brani tratti da Piero Brunello, Colpi di scena. La rivoluzione del Quarantotto a Venezia, Cierre, Sommacampagna 2018, rispettivamente alle pp. 205-206, 28-34, 200, 374-375, 212-213.
- L. Tolstoj, Guerra e pace, a cura di I. Sibaldi, Mondadori, Milano 1992, p. 1417. [↩]
- L. Bianciardi, E se la rivoluzione fosse già scoppiata? [1969], in Id., Chiese escatollo e nessuno raddoppiò. Diario in pubblico 1952-1971, a cura di L. Bianciardi, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 256. [↩]
- C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, G. Pavesi Editore, Genova 1851, p. 47. [↩]
- Dichiarazione non firmata, ma di Giovanni Bonlini, s.d. [febbraio 1853], in Archivio di Stato di Venezia [Asve], Presidenza della Luogotenenza [Pl], b. 140, I 8/8. [↩]
- A. Errera, C. Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin. Narrazione (1804-1848), G. Antonelli, Venezia 1872, pp. CXIX-CXX: la fonte della notizia è lo stesso capo-custode, interpellato dagli autori. [↩]
- Il racconto di Manin in A. de La Forge, Histoire de la République sous Manin, Amyot, Paris 1853, I, pp. 225-228. [↩]
- G. Vollo, Daniele Manin, Unione tipografico-editrice, Torino 1860, pp. 58-59. [↩]
- De La Forge, Histoire de la République, cit., I, p. 214. [↩]
- R. Barbiera, Ricordi delle terre dolorose, Treves, Milano 1918, p. 31. [↩]
- «Ella mi stringeva la mano il 17 Marzo all’uscire da una prigione tanto onorata», scrisse Giuseppe D. Giuriati a Tommaseo, Venezia 12 settembre 1848, in Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze [Bncf], Carte Tommaseo, 87.50, n. 6. [↩]
- Le immagini descritte e discusse di seguito, in tutto cinque, si trovano alle pp. 32, 35-36. Per ragioni di copyright ne riproduciamo solo due, tratte dalla Raccolta Giordani-Soika, in A. Bernardello, P. Brunello, P. Ginsborg, Venezia 1848-49. La rivoluzione e la difesa, Comune di Venezia – Assessorato agli Affari Istituzionali, Venezia 1979. NdC [↩]
- Sui due incisori vedi B. Passamani, Ciani Giorgio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 25 (1981), pp. 181-182; F. Borroni, Bozza, ivi, 13 (1971), pp. 571-572. [↩]
- Il disegno con le firme di Manin e di Tommaseo è riprodotto in A. Bernardello, P. Brunello, P. Ginsborg, Venezia 1848-49. La rivoluzione e la difesa, Comune di Venezia – Assessorato agli Affari Istituzionali, Venezia 1979, p. 124; la ritrosia di Tommaseo a farsi ritrarre in C. Tonini, Il volto di Niccolò Tommaseo. Da immagine di rivoluzione ad icona d’identità nazionale, in Niccolò Tommaseo e il suo mondo. Patrie e nazioni, a cura di F. Bruni, Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli 2002, p. 126 (disegno e litografia alle pp.124-125, il saggio alle pp. 123-139). [↩]
- Errera, Finzi, La vita e i tempi, cit., p. CXX n. [↩]
- Sullo svenimento di Tommaseo vedi lettera di Giacomo Chiudina ad Antonio Banchetti, Trieste 18 marzo 1848, in Bncf, Carte Tommaseo, 68.63, n. 1. [↩]
- Isacco Pesaro Maurogonato a Niccolò Tommaseo, Giovedì sera, marzo 1848, in Bncf, Carte Tommaseo, 176.43, n. 13; la data potrebbe essere il 23 o il 30 marzo. [↩]
- E. Flagg, Venice the City of the Sea from the Invasion by Napoleon in 1797 to the Capitulation to Radetzky in 1849, I, C. Scribner, New York 1853, p. 152. [↩]
- Reminiscenze amichevoli di Francesco Scipione Fapanni con Felice Schiavoni e colla sua famiglia (1837-40), in Biblioteca Comunale di Treviso, Ms. 4564. [↩]
- P. Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Einaudi, Torino 2007 (prima ed.: Feltrinelli, Milano 1978), p. 308. Nelle prediche tenute dai padri Bassi e Gavazzi a Padova, in piazza dei Signori stava «il popolo» mentre «i poggiuoli e le finestre brulicavano di donne», in A. Gloria, Il comitato provvisorio dipartimentale di Padova dal 25 marzo al 13 giugno 1848, pubblicato per la prima volta con introduzione e note di G. Solitro, Tip. del messaggiero, Padova 1927, p. 108. [↩]
- I.V. Foscarini detto El Barcariol, Canti pel popolo veneziano, illustrati con note da G. Pullé, Tip. Gaspari, Venezia 1844, pp. VIII-IX, XIV. [↩]
- A. Herzen, Dall’altra sponda, trad. e note di P. Pera, Introduzione di I. Berlin, Adelphi, Milano 1993, p. 7. [↩]
- B. Malfatti, Cenni biografici di Daniele Manin letti nel Casino di Pera in Costantinopoli li 8 novembre 1857, Tip. di A. Domenichini, Costantinopoli 1857, p. 18. [↩]
- Memorie del maresciallo di Marmont duca di Ragusa dal 1792 al 1841, I, Sanvito, Milano 1857, p. 129, cit. in R. Bizzocchi, Una nuova morale per la donna e la famiglia, in Storia d’Italia. Annali, 22, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti e P. Ginsborg, Einaudi, Torino 2007, p. 70 (il saggio alle pp. 69-96). [↩]
- Ampia letteratura a partire da A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000. La questione percorre il volume 22 degli Annali della Storia d’Italia, cit., in particolare il saggio di P. Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento, l’io, l’amore e la nazione, pp. 5-67. Sul processo di cambiamento, in cui il Quarantotto assume una data centrale, vedi R. Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 293-348 (cap. “I cicisbei al bando”). A proporre il tema sono stati gli studi di G.L. Mosse, tra cui Sessualità e nazionalismo: mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari 1996. [↩]