di Corrado Stajano
Per l’anniversario della strage di piazza Fontana, riprendiamo alcune pagine da un bel libro di Corrado Stajano. Un sopralluogo, durante una esplorazione della città cambiata, è occasione per tornare con i ricordi al pomeriggio del 12 dicembre 1969: Stajano, appena rientrato a Milano in treno, si fece portare da un tassista in piazza Fontana. La notizia aveva appena cominciato a girare in città. Riuscì a entrare nella sede della banca devastata prima dell’arrivo delle autorità; solo allora fu fatto uscire.
Nel pomeriggio del 12 dicembre 1969 ero tornato da Roma e alla Stazione centrale avevo preso un taxi. In piazza Fontana, mi disse il tassista, è appena successo qualcosa di grave, è scoppiata una caldaia alla Banca dell’Agricoltura e si parla di molti morti. Gli dissi di portarmi alla banca, non più a casa. In piazza Fontana c’era solo qualche ambulanza, qualche macchina della polizia e dei carabinieri, si sentiva che da via Larga stavano arrivando i pompieri. Non c’erano ancora curiosi. I sopravvissuti, informi ossessi, uscivano barcollando dal portone della banca e si scontravano, nell’aria nerastra, con i barellieri che correvano in senso contrario.
[…] Non c’erano cordoni polizieschi e senza difficoltà entrai nella grande sala a pianterreno. […] Il sangue colorava il vetro polverizzato e il legno dei mobili ridotto in briciole. Brandelli di corpi umani – una macelleria dell’orrore – spuntavano da ogni parte, qualche cadavere era finito dietro il bancone dove gli impiegati, una parte di loro, almeno, erano riusciti a salvarsi buttandosi a terra come in una trincea.
I salvati venivano condotti fuori a braccia, infilati nelle ambulanze. Qualcuno – un infermiere, un poliziotto? – gettava in un mucchio informe gambe, braccia, teste, pezzi di cadavere trovati via via nel salone. Nessuno gridava, era il momento del silenzio innaturale che viene sempre dopo la tragedia. Non provavo sentimenti, non avevo reazioni, non mi ponevo domande, mi sentivo confusamente prigioniero di un’atonia paralizzante. […] La coscienza, anche dopo un massacro, affiora con lentezza. Ero invece smisuratamente attento ai particolari. Non smettevo di guardare i resti straziati dei corpi tutt’uno con l’intonaco, un tavolo rotto, una mano recisa, una macchina da scrivere schiacciata, una scarpa. […]
Tra le macerie captavo qualche parola. Sembravano voci recitanti, dialetti mescolati di tonalità diverse, erano gli ultimi sopravvissuti, impiegati, commessi, agricoltori.
[…] La borsa che conteneva l’esplosivo – si saprà dopo che era un misto di polvere e di plastico di provenienza militare – era stata messa sotto il tavolo di legno in mezzo al salone e aveva creato un buco profondo dalla forma di un rettangolo. L’epicentro della strage. I frammenti della bomba erano schizzati soprattutto dalla parte dei banchi degli impiegati seminando cadaveri, smembrandoli – diciassette morti e un centinaio di feriti –, ma questi numeri veritieri si sapranno durante la notte e nei giorni successivi dopo un macabro alternarsi di voci. Non riuscivo a spostarmi dall’orlo del buco. Cominciavo lentamente a capire l’enormità di quanto era successo ma senza la percezione di trovarmi dentro una storia di cui si sarebbe discusso per anni.
A un certo momento vidi sul muro dietro i banconi l’orologio della banca che non avevo notato prima. Paralizzato come da una sincope. Si era fermato alle 16.37. Quasi un notaio della strage. Farà il giro del mondo.
Fino a quell’ora il salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura era stato popolato più del solito dai clienti del mercato del venerdì, di antica tradizione, estate e inverno. Per offrire ai clienti maggiori opportunità, gli sportelli, nel pomeriggio di quel giorno, restavano più a lungo dell’orario abituale.
Compratori e venditori di bestiame, di terreni, di fieno, di grano, di sementi, usavano da sempre la Banca dell’Agricoltura e il tavolo di legno massiccio, ottagonale, era il posto dove, dopo gli interminabili tira e molla e le rotture, vere o finte, dopo la stretta di mano dei contraenti, tagliata dai mediatori, come usava un tempo, si arrivava all’atto finale. Si sedevano proprio lì gli agricoltori per firmare l’assegno, il bonifico, la distinta di versamento, la cambiale. Il tavolo, sotto il ripiano di scrittura, era diviso a spicchi e capitava che i clienti appoggiassero la loro borsa sul pavimento accanto ai divisori di legno.
[…] Restai ancora un po’ di tempo, non misurabile, in una gran polvere di relitti davanti a quel poligono di morte. Poi cominciarono ad arrivare la autorità, il prefetto, il cardinale, il questore, il sindaco e si misero in moto i meccanismi dell’ufficialità. Si formarono blocchi, cordoni, barriere, cominciarono a sentirsi urla stizzite, gli ordini gutturali delle guardie. Le autorità interessavano più dei morti e dei sopravvissuti. Uscii dalla banca o fui fatto uscire.
Non avrei mai immaginato, allora, quanto quel fatto atroce sarebbe stato importante nelle scelte della vita di molti. Significò il rifiuto di tutto quanto viene dato per scontato, la necessità di una continua riconquista dei diritti acquisiti e poi cancellati, il dovere di mettere perennemente in discussione le «verità» del potere politico e istituzionale e le certezze di chi, in nome della ragion di Stato, ritiene oro colato anche le bugie più impudiche.
Quante volte avrei sentito, dopo, le parole piazza Fontana, Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Nota. Tratto da Corrado Stajano, La città degli untori, Garzanti, Milano 2012, pp. 62-65 (prima ed. Garzanti 2009; l’edizione più recente è Il saggiatore, Milano 2020).