di Carlo Cappellari
Fase 2 delle misure anti-coronavirus: le escursioni nella città metropolitana riprendono lentamente, per ora ancora limitate al vicinato. Come fa il nostro amico Carlo a scoprire perché nel suo vicinato mancano 7 numeri civici?
Una indagine a “metro zero”
Carissima Compagnia Gongolante,
quando sono venuto ad abitare a Mestre mi sono subito accorto che fra il civico del mio condominio (155) e quello del parrucchiere a fianco (171) mancavano ben sette numeri civici (157, 159, 161, 163, 165, 167 e 169).
Mi sono chiesto più volte che fine avessero fatto quegli immobili, ma il fascino delle esplorazioni fluviali mi ha sempre portato a privilegiare quelle rispetto a una indagine a “metro zero”. In questo periodo in cui, come tutte e tutti, mi trovo ai domiciliari ho pensato di sfruttare l’occasione per indagare lo straordinario caso urbano.
Il perimetro della ricerca va da via San Donà a sud, via Lavaredo a ovest, il piazzale del supermercato Eurospesa a nord e via Val Gardena a est, in pratica un quadrilatero di 50 metri per 50.
Nei 50 metri per 50 vi sono i seguenti fabbricati: a sud-est un condominio degli anni Sessanta (rinfrescato di recente) che porta i civici 151 e 153 oltre al civico 2 e 4 su via Alpago (fig. 1 e 2); a nord-est una casa singola su via Alpago con il civico 6, che ho scoperto essere stata costruita nel 1972 (fig. 3); a sud il mio condominio con il civico 155 (fig. 4); a sud-est il salone di parrucchiere ed estetica con i civici 171 e 173 (fig. 5); a nord-est una bifamiliare con i civici 1 e 3 su via Val Gardena (fig. 6).
Il salone da parrucchiere è una recentissima ristrutturazione di un fabbricato anni Quaranta, come anche l’altro fabbricato a nord-ovest su via Val Gardena.
L’ipotesi da cui sono partito era che il 155, costruito all’inizio di questo secolo, avesse sostituito una corte con sette edifici tutte attorno al perimetro del lotto.
La signora che abita al civico 6 di via Alpago ha smentito la mia ipotesi dichiarandomi che dal 1972, anno in cui era arrivata novella sposina nella casa nuova appena edificata, lei aveva sempre visto solo un pezzo di terra incolto con erbacce e alberi vecchi e malati; all’epoca il lotto doveva essere abbandonato da tempo, visto che durante l’edificazione della sua casa vi erano stati buttati tutti i detriti residuati dalle opere edili.
Mi ha confermato che esisteva già il condominio con cui lei divide il cortile e l’accesso.
Quindi, ho pensato bene di rivolgermi agli abitanti di quest’ultimo. Ne conosco uno, infatti, un signore sui settant’anni, molto giovanile, con un bel baffetto alla Clark Gable, dalla battuta pronta e caustica.
Appena l’ho interpellato dalla mia finestra, rivolta a ovest, mentre lui si sporgeva dalla sua, rivolta a est, chiedendogli cosa c’era una volta al posto del 155, mi ha subito risposto: “Vuto farme causa?” (trad. “Vuoi aprire una vertenza legale nei miei confronti?”). L’ho rassicurato dicendogli che stavo solo giocando all’apprendista storico e lui mi ha spiegato che c’era solo un pezzo di terra, tra l’altro attraversato da un fossato che, una volta chiuso per edificare il suo condominio, aveva lasciato un’area umida spesso allagata che, ancor’oggi, malgrado sia pavimentata da più di quindici anni, stenta sempre ad asciugarsi del tutto.
Il suo condominio fino a 25 anni fa portava il numero 147 di via San Donà in quanto ancora non esisteva via Alpago, che è stata creata quando l’ex cinema ha cambiato la sua destinazione in commerciale ed è diventato un supermercato.
Si è inserita nell’intervista anche la moglie del mio interlocutore, che ricorda benissimo come al posto del parrucchiere vi fossero due attività commerciali: una rivendita di bombole del gas gestita da Paolo detto ovviamente “Bombola” e, a fianco, una merceria gestita prima dalla madre e poi dalla moglie.
Al mio amico è venuto, improvvisamente, in mente che l’appezzamento di terra non è sempre stato vuoto in quanto vi sorgeva molto tempo fa (unità di misura espressa sollevando la mano destra verso l’alto e muovendola verso la schiena tre volte) un’osteria di cui residuava un muro di circa un metro e mezzo al momento dell’edificazione in aderenza dalla parete est del suo condominio.
Questa notizia meritava un approfondimento immediato, così ho scritto a Sergio Barizza che, non solo mi ha detto che aveva un ricordo personale dell’osteria dato che “Mia mamma mi mandava a prenderci il vino e mio padre vi giocava a carte”, ma mi ha anche fornito il recapito telefonico della figlia del titolare.
Con un po’ di patema d’animo ho chiamato la signora, che si è rivelata persona cortese e dai ricordi pronti e precisi.
Ermenegildo, il papà della signora, gestiva l’osteria “Campari” a fianco del forno che stava al piano terra del “Palazzo Bragadin già villa Luca Grimani” e della pescheria di Vittorio Mion, nello spazio in cui ora entrano i camion che portano i materiali da costruzione per l’erigendo condominio sul retro del palazzo il cui impianto originario è del 1640.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso, essendo arrivato a scadenza il contratto di locazione, Ermenegildo si trasferì con l’osteria 85 metri più a est prendendo in gestione l’osteria “Da Manin” dotata di pergola e, sul retro, di campi da bocce e da borea (specie di bowling all’aperto).
Il fabbricato era isolato ed era composto da un piano terra con l’osteria e da un primo piano con le camere di Ermenegildo, della moglie Santina e dei cinque figli (un maschio e quattro figlie).
L’osteria si trovava sul percorso dei lavoratori dei cantieri Breda, ora Fincantieri, che da Favaro si recavano all’alba al lavoro in bicicletta per essere puntuali al turno dalle 6,00 alle 14,00. La signora ricorda una volta che un giovanotto, per far colpo su di una giovane inserviente dell’osteria, giunto davanti al locale, lanciò in aria l’involto con i pantaloni da lavoro; l’involto però si aprì in volo e i pantaloni planarono sul filo della luce dove rimasero appesi. Inutile dire che invece di fare colpo il giovanotto diede un colpo mortale alle sue ambizioni dato che per settimane fu lo zimbello di tutti i frequentatori.
Da Manin era anche frequentata dai veneziani che vi si recavano la domenica per mangiare la “supa de tripe” (zuppa di trippe) di cui la Santina, moglie di Ermenegildo, era l’apprezzatissima cuoca.
Insomma, cercando sette civici – che non ho trovato – ho scoperto che una porzione del condominio in cui vivo – il garage e il porticato al piano terra, con l’appartamento al primo piano che sovrasta il portico – insiste sul sedime e corrispondono al volume dell’osteria “Da Manin”.
Basi grandi
Carletto da Camisan diventato venexian metropolitan
PS Un ringraziamento a tutte le persone che ho interpellato e che hanno risposto alle mie domande nel corso della ricerca.
marta baiardi dice
Grazie! Davvero corroborante questa indagine sugli strati di tempo spalmati nei luoghi (e nelle voci).