a cura della redazione di storiAmestre
Ricordiamo l’anniversario del 25 luglio 1943 riprendendo alcune pagine di Emilio Lussu e di Piero Calamandrei. Lussu venne a conoscenza delle dimissioni e dell’arresto di Mussolini il 26, mentre era impegnato in una riunione clandestina a Lione (era esule dal 1929, dopo essere evaso dal confino di Lipari insieme a Carlo Rosselli). Calamandrei ascoltò l’annuncio radiofonico la sera del 25 nella sua casa estiva al Poveromo, sulla costa apuana.
Che avvilimento non essere in Italia, di Emilio Lussu
Il 26 luglio, alle dieci, come era stato stabilito precedentemente nell’ultima riunione comune, ci trovammo a Lione, nella casa di un compagno di «Giustizia e Libertà», socialisti, «Giustizia e Libertà», comunisti e repubblicani. Per i socialisti v’era Saragat, per i comunisti «Furini», cioè Dozza di Bologna, per i repubblicani Bedei di Marsiglia, per «Giustizia e Libertà» io. Il 25 era caduto Mussolini: la notizia la ebbe Dozza, per radio, nella casa di Scotti1, la mattina prima della riunione. La libertà aveva ripreso il cammino, per il suo giusto verso. Come ci sentimmo avviliti di non essere presenti in Italia!
Il 3 marzo, a Lione, in una riunione tra comunisti, socialisti e «Giustizia e Libertà», avevamo creato un Comitato d’azione per una lotta unitaria del popolo italiano contro il nazifascismo e la guerra, e firmato, per i comunisti Amendola e Dozza, per i socialisti Saragat, per «Giustizia e Libertà» io. Era questa la continuazione della unità d’azione «per l’unione del popolo italiano» creatasi nel settembre-ottobre ’41, tra socialisti, comunisti e «Giustizia e Libertà» […]. Allora io ero nelle peregrinazioni all’estero. In quella riunione di Lione del 3 marzo, si era fatto un passo avanti, in rapporto alla nuova situazione. Dichiarammo che «l’unità di azione tra i partiti a finalità socialista è la premessa d’ogni azione tendente a raggruppare tutte le forze nazionali per la lotta diretta a rompere l’alleanza con la Germania hitleriana, ad imporre prima della disfatta la pace separata, ad abbattere la dittatura fascista, e per la ricostruzione dello Stato italiano su basi democratiche e di libertà». Ponevamo la necessità «dell’insurrezione nazionale, per spezzare la politica di guerra del fascismo», e, per l’azione del dopoguerra, affermavamo «la volontà di procedere nell’opera di ricostruzione democratica dello Stato, alla distruzione del fascismo, nelle cause economiche e sociali che lo hanno reso possibile (capitale finanziario, monarchia, ecc.) e di condurre l’azione ricostruttiva nel quadro di una democrazia in cui si realizzerà il primato del lavoro». nella stessa riunione redigemmo una mozione che era un appello al popolo italiano. In questo, dicevamo che l’accordo del Comitato d’azione era aperto a tutti i partiti, anche non socialisti e, fra l’altro, si affermava: «Lo Stato fascista dovrà essere distrutto integralmente nella sua struttura militare, poliziesca, politica e sociale». La tesi sostenuta da me, che fosse affermata la forma repubblicana dello Stato, non prevalse per non allontanare dall’unità dell’azione popolare anche larghe correnti monarchiche, e fu inserita questa formula: «Partiti repubblicani, il P.S.I., il movimento di «Giustizia e Libertà», il P.C.I., affermano he la Costituzione futura, per essere democratica, non potrà derivare che dalla volontà popolare liberamente espressa». L’appello finiva con l’invocazione «alla pace, all’indipendenza ed alla libertà».
A quell’ultima riunione del 26 luglio, avendo aderito all’unità di azione anche il Partito Repubblicano, partecipava anche un suo rappresentante. Redigemmo un appello al Paese, di cui non riesco a trovare traccia, ma vi erano fissate le stesse parole d’ordine dell’appello al Paese, lanciato a Milano lo stesso giorno dal «Comitato d’Azione per la Unione del popolo italiano»: Via il fascismo! via la milizia e la polizia fascista! processo a Mussolini e ai gerarchi responsabili, liberazione dei detenuti politici, libertà di parola, di riunione e di stampa, guerra ai tedeschi, e pace. Aggiungevamo anche l’allontanamento di Badoglio ed un governo costituito da antifascisti.
Finita la riunione, ognuno penso di rientrare in Italia in tutti i modi possibili. Ma anche rientrare in Italia non era ancora facile. Saragat passò in treno al Sempione, mi pare, e fu arrestato. Non ricordo come rientrò Dozza. Io tentai la frontiera svizzera, passai i reticolati, ma fui respinto in Francia. Tentai ancora un passaggio clandestino alle Alpi Marittime, ma i Battaglioni M mi facevano sempre la guardia e fallii. Feci passare Joyce con passaporto regolare a Ventimiglia e, dopo un giorno di detenzione, poté continuare fino a Roma e prendere contatti con i compagni di là. Io potei passare solo il 13 agosto, dopo aver ottenuto l’impegno dal console di Nizza, che si era messo in comunicazione con Roma, che non mi sarebbero state create difficoltà. Sereni era stato arrestato, mesi prima, a Nizza, e condannato dal Tribunale militare a 28 anni, ed era ancora là. Trentin passò a fine agosto. Quando scesi a Ventimiglia, mi volli fermare, farvi un giro e visitare il mercato dei fiori. Tutti parlavano italiano! Mi sembrava una meraviglia, un sogno! Ne ebbi tanta emozione he stentai a tenermi in piedi, e dovetti appoggiarmi a una colonna per non cadere. L’Italia!
Alla stazione di San Remo, per caso, vidi Joyce che mi era venuta incontro, così alla ventura, e mi raccontò della situazione di Roma.
Si apriva un nuovo periodo di lotta e si annunciava la Resistenza armata.
Nota. Tratto da Emilio Lussu, Diplomazia clandestina, La Nuova Italia, Firenze 1956, pp. 76-78. In questo breve opuscolo Lussu rievocava “alcuni fatti dell’emigrazione politica italiana, e solo quelli caduti sotto il mio controllo personale; principalmente i fatti politici, lasciando un po’ da parte le vicende avventurose che pur furono varie e non prive di interesse” (p. 3). Il periodo è quello che va dalla caduta di Parigi al rientro in Italia (il capitolo dedicato al 25 luglio, che abbiamo ripreso qui, è l’ultimo).
Il libretto uscì come terzo numero della collana «Quaderni del Ponte», finito di stampare 22 novembre 1956. Una nota editoriale esprimeva il rammarico che Piero Calamandrei, fondatore e direttore del «Ponte», che aveva insistito a lungo perché i «Quaderni» riprendessero a uscire dopo i primi due numeri del 1946-47, non avesse potuto vedere stampate le pagine di Lussu: Calamandrei era morto due mesi prima, il 27 settembre.
Un quarto d’ora di smarrimento, di emozione, di incredulità, di Piero Calamandrei
26 luglio, ore 7,15
Stanotte, dopo le 11, eravamo giù in sala, con Ada, Lea, Tumiati e Baranelli, venuti dopo cena a conversazione con noi. Ada offrì sigarette e un bicchierino di triple-sec, che gli ospiti particolarmente gradirono. Verso le 11,20 si alzarono per andarsene: ma Tumiati espresse il desiderio di sentire la radio dell’11 e mezzo. Si fece venir giù la radio dalla mia stanza, si attaccò. L’aprii che mancava poco alla mezza: su Londra parlava in serbo… e a un tratto nelle parole incomprensibili, si sente distintamente: «Mussolini…» «Badoglio…» – Che è, che è? – Incuriositi aspettammo con una certa ansia incredula la comunicazione italiana delle 11,30. Ecco… «Parla Londra… La Voce di Londra… Su onda…». Poi: «Ecco una comunicazione della massima importanza; Mussolini ha rassegnato le dimissioni. Il re ha nominato capo del governo il maresciallo Badoglio… Il maresciallo Badoglio ha dichiarato: “La guerra continua”». – Dio, Dio! è possibile? Non ci par vero: non riusciamo lì per lì, a realizzare la portata della notizia. La fine del fascismo? Non c’è più il duce?… Crolla la vergogna di questi vent’anni?… È stato un quarto d’ora di smarrimento, di stupore, di emozione contenuta, di ilarità, di incredulità… Colla bicicletta mezza sgonfia sono andato nella notte fonda alla villa di Russo. Dalla strada ho urlato: «Russo, Russo… Mussolini s’è dimesso». S’è aperta una finestra. Lo sa già… Poi mi hanno aperto. Erano pazzi di gioia. Russo saltava come un bambino: «Viva la libertà». […]
Son tornato a casa: nel buio gruppi di marinai: volevo gridare: «Ragazzi, il fascismo non c’è più». Ma ho tirato via. Abbiamo sentito anche il bollettino di mezzanotte e mezza: dieci volte la stessa notizia: «Ecco una comunicazione della massima importanza…». Ma il comando dell’esercito è assunto dal «re imperatore»… Che pensa questo cinico, più responsabile del «duce»? Che vuol dire «la guerra continua»? Non mi par possibile che Badoglio, che sa la situazione militare, pensi sul serio a continuare la guerra contro l’Inghilterra. La dichiarazione è per tenere a bada la Germania. Questo non può essere stato fatto d’accordo colla Germania: Hitler sa come la sua posizione personale sarà indebolita dalla caduta del complice. Ora c’è da risolvere il problema delle divisioni tedesche in Italia. Guerra alla Germania tra una settimana? E in quanto al re, è un povero manichino che appena fatto l’armistizio verrà spazzato via… Ma il cervello non ci si abitua: Mussolini non c’è più: il suo fiero cipiglio… Quell’uom dal fiero aspetto.
[…]
1° agosto
Solo ora posso riprendere, dopo una settimana così ricca di emozioni, di sorprese, di ritrovamenti. Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria, come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione: la patria, questo senso di vicinanza e di intimità che permette in certi momento la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione diverse, e che pure si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro. Ah, che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro, per la strada, in ferrovia, al contadino che lavora sul campo, all’operaio che passa in bicicletta […]. Tutti ci si può ripetere queste frasi banali, che avvicinano e accomunano come una parola d’ordine, come un segno di riconoscimento tra fedeli di una stessa religione: «Finalmente! questi assassini! questo vigliacco! questo buffone!». […] Ci siamo ritrovati. Siamo uomini anche noi… Una delle colpe più gravi del fascismo è stato questo: uccidere il senso della patria. Questo nome di patria per venti anni ha fatto schifo: questa presuntuosa boria che non sapeva parlar dell’Italia senza aggiungere che tutto il mondo guardava a Roma, questo tono di autoritarismo intimidatorio da teatro da marionette diffuso dai discorso del «duce» fino al tono dell’annunciatore della radio, avevano reso insopportabile a ogni ben costrutto stomaco ogni allusione al patriottismo. Si è avuta la sensazione di essere occupati dagli stranieri: questi italiani fascisti che accampavano sul nostro suolo erano stranieri: se erano italiani loro, noi non eravamo italiani. Paese occupato da una tribù di selvaggi: da vent’anni noi eravamo sotto questo tallone. Sicché in questa prima settimana è corso per l’Italia un brivido simile a quello del Risorgimento, quando se n’andavano i re stranieri e il popolo scendeva nelle piazze e tutti cantavano e si abbracciavano. L’impeto di odio che pareva dovesse subito scoppiare è stato sostituito nelle prime ore dall’empito dell’amore. Potersi ridire ancora che in fondo la gran maggioranza di noi è costituita da gente buona e civile, che ci vogliamo bene, che ci si intende senza roteare gli occhi… Le scritte sui muri, gli emblemi fascisti, i ritratti del due sono magicamente scomparsi in poche ore…
2 agosto
…ognuno ha provveduto subito a levar via dalla sua bottega, dal suo ufficio il ritratto del duce, a grattar dalla parete della sua casa, dalla cantonata del vicino la scritta imperiosa, a scalpellar dalla facciata l’emblema. In aperta campagna si son visti vecchini solitari con in mano un mazzuolo e uno scalpello, unicamente occupati, in solitudine, a distrugger quel simbolo scolpito su un colonnino o su un palo elettrico. I ferrovieri hanno fermato le locomotive per gettar giù, con un colpo di maglio, il fascio di bronzo. Quando ieri l’altro sono entrato nell’anticamera del ministro delle Corporazioni Piccardi, in quel palazzo di stile barocco-egiziano-novecento, ho visto che tutte le pareti rossastre erano ricoperte da grandi bandiere appese come arazzi: sotto si vedevano i rilievi delle lettere di bronzo infisse nelle pareti, riproducenti motti del «capo» e forse la carta del lavoro. Ho detto al ministro: vedo che vi siete ricoperte le vergogne… […] Episodi sanguinosi qua e là se ne sente raccontare: sparatorie ci sono state anche a Firenze, ma sopra tutto, pare, a Milano. Ma in generale anche le vendette hanno preso in questi primi giorni un tono di allegria. […]
Venerdì mattina sono andato a Firenze per poi la sera proseguire per Roma. A Firenze ho visto Carlo Furno, uscito dalle Murate: la notte tra domenica e lunedì, verso il tocco, sentirono per la strada, lontani, i gridi della folla e i canti. Capirono che la libertà era vicina. (Tra la gente che andò a reclamare la loro liberazione c’era il giudice Giannattasio: che poi dal presidente Galizia è stato messo sotto inchiesta per questa iniziativa!). Ho visto per strada il povero Corazzini, e l’ho abbracciato; e Alberto Furno, e Doddoli. […] Son andato a mangiare da Cencio, con Mino, Querci, Chianini. Chianini mi ha raccontato che i suoi contadini, appena giunta la notizia della caduta di M, andarono dal parroco a far dire una messa di ringraziamento: la sensazione popolana della natura diabolica del fascismo. […] Il prefetto Gaetani rimane in carica: ha ricevuto il cosiddetto «comitato dei partiti», rappresentanti dei socialisti, del Partito d’Azione, dei cattolici. Chiede designazioni di persone da sostituire. A direttore della «Nazione» è stato designato Pancrazi, ma non ha voluto accettare per via del Favi2, attende ancora una edizione critica.)); poi Vinciguerra, ma pare che sia stato chiamato a Roma per dirigere il «Messaggero». Al rettore Serpieri hanno scritto una lettera, firmata dai rappresentanti dei partiti, chiedendone le dimissioni. Arriva all’Università, gli consegnano la lettera, ma prima che l’apra, gli si presenta una studentessa, che gli dice: «Scusi sig. professore, siamo un gruppo di studenti che si vorrebbero costituire subito in gruppo di studenti liberi per lo studio dei problemi dell’ora: ci può dare i locali dell’ex GUF?». Quello fa il viso rosso, arrabbiatissimo: «Finché sono io rettore, non è il caso di parlarne». E quella: «Già, ma noi pensiamo che Ella non possa rimanere a lungo rettore: la sua sensibilità le farà capire he lei non è più compatibile, specialmente quando avrà letto questa lettera che ho in mano». Indispettito quello si allontana, legge la lettera, vacilla… Il giorno stesso ha dato le dimissioni. Ora Codignola e Carlo Furno mi dicono che vorrebbero designare me come successore; ne parlo con Calasso e gli dico he io ho tanto da fare: «Basta che tu ci inauguri l’Università…».
[…]
Venerdì, mentre stavo per ripartire Roma, mi avvertono che hanno arrestato Gaetano Pieraccini (che non era stato mai arrestato dai fascisti!). Telefono al prefetto, ma non c’è; telefono a Soldani Benzi3, ma dice che non ha altro ufficio che la censura. Andiamo da Zoli proprio mentre io sto per partire: speriamo che si chiarisca che si tratta di un equivoco.
Nota. Tratto da Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, 2 voll., a cura di Giorgio Agosti, con una introduzione di Alessandro Galante Garrone e due scritti di Franco Calamandrei e Enzo Enriques Agnoletti, La Nuova Italia, Firenze 1982, vol. 2, pp. 153-160.
- Il comunista Francesco Scotti. Ndr [↩]
- Egidio Favi, il proprietario del giornale, nota presente nell’ed. originale. Questo è uno dei pochi nomi sciolti dai curatori del Diario che, malgrado abbia avuto una ristampa nel 1997 e una nuova edizione nel 2015 (presso le Edizioni Storia e Letteratura, Roma, con una introduzione di Mario Isnenghi [↩]
- Viriglio Soldani Bensi – questa la grafia prevalente – sarebbe stato vicequestore di Firenze durante il periodo di occupazione tedesca, considerato simpatizzante degli antifascisti; fu questore per un breve periodo dopo la Liberazione. Ndr [↩]