di Ilario Dittadi
In quell’immane tragedia che è stata la seconda guerra mondiale, l’episodio che sto per raccontare è ben piccola cosa. Pochi lo ricorderanno ancora. Nemmeno il prete del piccolo paese al quale mi rivolsi nel tentativo di saperne di più mi poté aiutare. Un fatto, insomma, come tanti altri di quegli anni terribili, inevitabilmente destinato a essere dimenticato. Non da me però. Le circostanze in cui sessant’anni dopo ne venni a conoscenza, il luogo nel quale mi fu raccontato, le sensazioni che avevo provato poco prima e che provai poco dopo averlo ascoltato mi danno questa certezza.
Prima però devo necessariamente spiegare l’antefatto. Avevo scritto da qualche tempo un racconto nel quale narravo le peripezie di cui mia nonna materna si era resa protagonista durante il periodo della prima guerra mondiale. Mia nonna si chiamava Alba, un nome datole non a caso. Era nata, infatti, all’alba del 1° gennaio del 1882. Alcuni mesi dopo moriva Garibaldi e lei, tra il serio e il faceto, mi raccontava d’esser convinta di averne ereditato lo spirito.
Poco dopo l’inizio del secolo scorso, per un miserrimo stipendio, Alba e suo marito lavoravano a servizio presso una famiglia di nobili, proprietari di una grande villa nel paesino di Campocroce, una frazione del comune di Mirano in provincia di Venezia, dove, assieme ai due figlioletti occupavano un paio di stanzette con cucina in un’ala del palazzo adibita per la servitù; e là si trovavano quando scoppiò la guerra. Con il crollo del fronte italiano a Caporetto e l’avanzata degli austriaci fino al Piave, Alba restò da sola a custodire la villa. Bepi, suo marito, era stato richiamato militare e i padroni, da come sembrava che si mettessero le cose, e visto che la villa distava ormai poche decine di chilometri dal fronte, erano scappati dalle parti di Bergamo dove avevano altre proprietà. La villa fu requisita e adibita a provvisorio ospedale. Alba con i suoi bimbi continuò ad abitare le due stanzette e, ricavando anche un minimo di guadagno, si rese utili in vari modi per sopperire alle necessità, in particolare igieniche e logistiche venutesi a creare con la nuova situazione. Non perse però l’occasione, data anche la confusione che caratterizzava il periodo e il luogo, sovraffollato di feriti, di rivalersi, con una serie di vandalismi ai danni della villa e annessi, delle angherie e delle prepotenze dei padroni, mal sopportate per tutti quegli anni.
Fin qua il racconto, che fu letto e diversamente commentato da amici e conoscenti. Qualcuno mi fece notare che la descrizione della villa e del luogo dove si trova era carente di dettagli. Gli risposi che non avrei potuto essere più preciso nella descrizione perché non avevo mai visto né la villa né quel paese. Però il chiodo mi rimase in testa. Come mai non avevo pensato di farvi una capatina? La località, in fondo, non dista più di 20-25 chilometri da dove abito. Non mi sarebbe forse stato possibile accedere all’interno perché quasi certamente proprietà privata, ma almeno rendermi conto di dove fosse e di com’era fatta, questo avrei dovuto farlo da un pezzo. E una sfolgorante mattina di giugno, di buon’ora inforcai la bicicletta e mi avviai. Arrivai nella piazza del paese dopo essermi ben guardato attorno per rendermi conto del luogo, e se per caso mi fosse riuscito di intravedere la villa, che certo doveva essere l’unica nella zona. Il paese era decisamente misero, poche le case nuove, l’opulenza, spesso esibita, che caratterizza ormai vaste aree del Veneto, qui non era arrivata e la prima considerazione che mi venne da fare era che cosa doveva essere stato quel posto quasi un secolo prima. Mi fu subito indicato come arrivarci.
Pochi minuti di bicicletta e mi trovai in una stradina fiancheggiata da un fossato che scorre lungo le mura di cinta per buona parte del perimetro. Era il lato posteriore, la villa non si vedeva nascosta com’era dal parco, talmente grande e rigoglioso da indurmi a fermarmi a osservarlo per parecchi minuti, continuando poi a camminare con la bicicletta a mano fino a raggiungere l’ingresso principale. All’interno vi si accede attraverso due entrate, un cancello più piccolo riservato alle persone e una grande cancellata, oggi il passaggio delle auto, un tempo certamente per carrozze e proprietari. La cancellata era aperta per metà e dall’esterno dove mi trovavo si poteva vedere una grande, magnifica aiuola, probabilmente la stessa che, come avevo raccontato, nonna Alba aveva devastato. Superfluo aggiungere che la villa era molto bella. Diversa per la verità da come me l’ero raffigurata. La immaginavo in stile neoclassico come la maggior parte di quelle palladiane che avevo avuto modo di vedere. Lì l’architetto era stato un altro e credo che più che all’aspetto esteriore, peraltro molto armonioso, avesse badato alla sua funzionalità e praticità. Di sicuro era stata costruita per esservi abitata in maniera continuativa a differenza di molte altre dove i nobili vi passavano solo alcuni mesi in estate. Varcai con cautela l’ingresso portandomi appresso la bicicletta. Volevo che qualcuno mi notasse in modo da non dover credere che fossi un malintenzionato.
Mi provenivano delle voci da una fila di portici a lato del palazzo, sicuramente una voce di donna matura e di un bambino piccolo, che sembrava stessero scambiandosi affettuosità. Avanzai ancora pochi metri poi mi fermai, e lentamente, molto lentamente mi guardai attorno facendo tutto il giro su me stesso. Mille sensazioni mi assalirono, piacevoli e tristi assieme. Sentivo come un bisbigliarmi nelle orecchie: – Cosa aspettavi a venirci? – Mi resi conto della strana condizione psicologica di cui ero soggetto, ma era così coinvolgente da essere senza difese. Non potevo e non volevo reagire. Vedevo nell’aspetto tuttora perfettamente curato del parco, della moltitudine di fiori variopinti, dell’erba tagliata di fresco, l’esito del faticoso lavoro di un uomo o di una donna e però pensavo che quella fatica era stata certo alleviata da mezzi meccanici. Quanta ne doveva aver speso il mio avo per poter ottenere quello stesso risultato, e mille altri. Quanto malpagato sudore! Riflettei sulle umiliazioni delle quali era stato oggetto, sul senso di un’intera vita, anzi, di due, spese a soddisfare pretese di altri esseri umani come loro, che li avevano ricompensati a suon di offese e di cattiverie. Ma mi veniva da pensare, e mi piaceva, che avessero avuto anche momenti di gioia: la nascita dei figli, forse, la fine della guerra… e di serenità: le sere a filò nelle stalle, la domenica dopo il vespero, all’osteria o in visita da amici… e forse anche speranze di un futuro diverso, più giusto, più umano… chissà. Ero, e ne respiravo tutta l’aria, sullo stesso luogo dove mia mamma era stata bambina, guardavo gli angoli dove, immaginavo, doveva aver giocato, le strade che aveva percorso per andare a scuola, in chiesa; e tutto questo lo vedevo per la prima volta…
“Desidera qualcosa?” mi chiese la signora, che da un lato mi veniva incontro. “Mi scusi tanto se mi sono permesso, il cancello era aperto e ne ho approfittato. Avevo una voglia matta di vedere questo posto” le risposi. “Le piace?” mi disse. “Sì, è molto bello, ma non sono entrato solo per ammirarne le bellezze, il vero motivo è un altro. Veda signora, su quella villa, che non avevo mai visto prima, io ho scritto un racconto” e gliene illustrai il contenuto arricchendolo di alcuni particolari dei quali ero a conoscenza, badando soprattutto a mettere in risalto la funzione cui la villa era stata adibita nell’ultimo periodo della grande guerra, e omettendo però di parlare dei vandalismi di mia nonna: non mi sembrava il caso. “Ne avevo sentito parlare, ma pare che lei ne sappia più di me” disse interessata “non ha per caso con sé una copia del racconto?” mi chiese. “No, signora, ma vedrò di fargliene avere una” ¬ promessa che, per ovvie ragioni, non avevo intenzione di mantenere. “Sa – aggiunse – da una quindicina d’anni sono io la custode, e deve sapere che la villa non è più denominata Bembo come lei la chiama ancora e come si chiamava al tempo in cui lavoravano i suoi nonni. Da allora è passata di mano almeno tre altre volte. Adesso porta il nome dell’attuale proprietario” e me lo disse quel nome, che proprio non ricordo. Poi: “È singolare che di questa villa si parli solo per fatti legati alle guerre”. Un po’ più in là c’erano tre o quattro seggiole da giardino attorno a un tavolino, mi invitò ad accomodarmi e proseguì.
“Nell’autunno del ‘43 nella villa si insediò il comando tedesco i cui soldati erano temuti da tutti nel circondario proprio per la nomea che si erano fatta, di gente spietata, dura, senza scrupoli. Vi rimasero fino ai primi mesi del ‘45. nessuno in paese ricorda in tutto quel periodo un solo atto di umanità da parte loro, anzi, sospettavano di tutto e di tutti, e agivano di conseguenza. Con l’intensificarsi delle azioni dei partigiani e soprattutto per l’incombente avanzata degli alleati, i tedeschi pensarono bene che era arrivata l’ora di prendere la via del nord e in tutta fretta misero in atto il piano. C’era però un imperativo: lasciarsi alle spalle terra bruciata! Nelle dependences laterali della villa erano stipate ogni tipo di armi e di esplosivo. Il comandante del gruppo diede ordine a un soldato di aspettare che la colonna si fosse mossa di qualche chilometro per poi far saltare tutto quello che vi era rimasto non avendo potuto portarlo con loro per ragione di spazio e di tempo, e quindi di raggiungerli con una motocarrozzetta.” Ma una cosa è un gruppo di soldati e altra è un soldato, solo, singolarmente preso. Quel soldato non eseguì l’ordine. Non fece saltare “tutto”. Prese una parte di quell’esplosivo e lo portò all’esterno con l’evidente intenzione di provocare uno scoppio che tutti avrebbero potuto udire, compresa la colonna non molto distante. E infatti tutti udirono, ma non tutti seppero che quello scoppio gli aveva letteralmente spappolato una mano. Se, dove, da chi fosse stato eventualmente curato, qual era la mano ridotta a brandelli, se si salvò o meno nessuno lo sa. Figuriamoci poi il suo nome. Viene spontanea la domanda: Perché lo fece? È pensabile che in un esercito in ritirata che si era reso responsabile di orribili atrocità ci fosse qualcuno tanto sensibile da non voler distruggere un’opera d’arte al punto di lasciare in mani nemiche un intero deposito di armi? O fu solo imperizia, fretta, paura? La domanda non ha risposta. Testimoni non ve n’erano, se fece delle confidenze nessuno le riportò. Una cosa è certa, della villa non sarebbe rimasta pietra su pietra se quell’uomo avesse eseguito l’ordine. Nulla più di visivo, di palpabile a testimoniare della vita grama dell’uomo e della donna che generarono mia madre, né, dunque, le sensazioni che in quel luogo ebbi modo di provare.
Non è impossibile che da qualche parte, in Germania? in Austria?, quell’uomo sia ancora vivo. Avessi saputo chi era sarei andato a cercarlo. Il mio giudizio su quell’esercito, forse il più odiato al mondo, resta quello condiviso da tutti coloro che hanno avuto la sfortuna di trovarselo in casa, e non mi sarei astenuto dal dirglielo. Ma anche se in guerra c’è tanta gente che rivela la parte peggiore di sé, c’è sempre qualcun altro invece a tirar fuori il meglio. A me piace pensare che quello sconosciuto soldato tedesco fosse fra questi, e con riconoscenza gli avrei stretto la mano rimastagli.
Luglio 2006