di Piero Brunello
Per i nostri consueti auguri di buon Primo maggio, riprendiamo un discorso che Piero Brunello ha tenuto in un’assemblea di storiAmestre alla fine del 2016, che aveva per tema rapporti di lungo periodo tra carità istituzionale, controllo della marginalità e proliferazione degli apparati statali. Ce lo hanno fatto tornare in mente le discussioni recenti sul reddito di cittadinanza. Con una nota finale.
Mentre guardavo al cinema il film di Ken Loach sulla vicenda di Daniel Blake pensavo a una storia dickensiana (si sa quanto sia importante Dickens nella tradizione del socialismo britannico), ma quando ho visto che a un certo punto il protagonista non ha altra possibilità di protesta che denunciare la propria situazione scrivendo sui muri ho pensato a un’altra storia, questa volta ambientata nel Lombardo Veneto, che riguarda la vita di un uomo di nome Michele Padovani.
Riassumerò dapprima molto brevemente la trama del film (qualcosa dovrò pur dire ma non voglio rovinare la sorpresa a chi non l’ha visto) e poi parlerò di Padovani: ne parlerò più diffusamente visto che un film su di lui ancora non c’è. Cercherò infine di chiarire quali analogie sento tra le due storie.
1. Le vicende del film si svolgono a Newcastle ai nostri giorni. Daniel Blake è sui sessant’anni. Dopo un attacco cardiaco i medici gli dicono che non può più continuare il lavoro di falegname. Blake chiede che gli sia riconosciuta l’invalidità con il relativo sussidio statale. Viene visitato da medici e da assistenti sociali. Lui insiste che si concentrino sulla malattia al cuore che gli impedisce di lavorare come vorrebbe, ma i funzionari degli uffici a cui deve rivolgersi lo sottopongono a tutt’altri test. In attesa della risposta, per quelle assurdità burocratiche che mettono una norma contro l’altra, Daniel Blake si trova anche disoccupato e per avere diritto al sussidio di disoccupazione deve cercarsi un lavoro.
La procedura deve essere fatta online, compito impossibile per chi non ha mai visto un computer… e poi chi assume un uomo della sua età? Blake non trova lavoro (in effetti a un certo punto ne aveva trovato uno, cercando per conto suo portando curriculum in giro, ma non lo accetta per non perdere il diritto al sussidio di invalidità). Secondo gli uffici non ha cercato abbastanza, perciò perde il sussidio di disoccupazione senza avere riconosciuto quello di invalidità.
Nel frattempo l’uomo conosce una giovane donna, Katie Morgan, madre single di due figli, disoccupata, che ha dovuto lasciare Londra e trasferirsi in un piccolo appartamento di edilizia pubblica a Newcastle dove non conosce nessuno. L’uomo si affeziona alla donna e ai figli e l’aiuta nei piccoli lavori di casa. I due si danno una mano. Lei va a ritirare viveri nella sede di un’associazione di volontariato. Non dirò quello che le accade, ma è una scena che mostra l’avvilimento a cui un povero viene costretto. Disperato per non aver ancora l’appuntamento con la commissione che deve esaminare la sua domanda di sussidio per malattia l’uomo scrive sul muro fuori dell’ufficio a cui si è rivolto: “Io Daniel Blake chiedo l’appuntamento prima di morire di fame” (“I, Daniel Blake demand my appeal date before I starve”). E qui viene arrestato. Mi fermo qui. Non dico come va a finire la vicenda burocratica e cosa succede ai due personaggi, né tanto meno il finale.
2. Orfano di entrambi i genitori, Michele Padovani, originario di Pincara in provincia di Rovigo, faceva il sarto. Una malattia agli occhi lo rese quasi cieco. Siamo nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, il Veneto faceva parte del regno Lombardo Veneto. Padovani domandò un sussidio al suo Comune, che prima glielo promise e poi glielo negò. Chiese l’elemosina per le strade di Rovigo. Un agente di polizia lo cacciò dicendogli che la questua era vietata. Padovani scrisse a grandi lettere in un cartello “VERGOGNA AL GOVERNO BARBARO CHE LASCIA MORIRE DI FAME UN OPERAIO SENZA LAVORO” e lo appese a una colonna della piazza. Venne messo in prigione, dove si sentì meglio perché mangiò qualcosa. Fu processato per “perturbazione dell’interna tranquillità dello Stato” e rilasciato per “desistenza”, cioè per mancanza d’indizi di colpevolezza. Il fatto che Padovani si spostasse di città in città – tra Rovigo, Padova e Venezia – lo rendeva ancora più sospetto. E così per un anno intero Padovani rimase in carcere. Un uomo che poi gli dissero essere un medico entrò nella cella, gli fece qualche domanda e uscì. La sera stessa Padovani fu fatto salire in una vettura. Padovani pensava di tornare in libertà e invece fu condotto all’ospedale, sempre a Rovigo. Fu però contento di poter riposare in un letto. Al risveglio restò sorpreso di leggere su di una targa sopra il suo letto: “Alienazione mentale”. Protestò (e fu preso come una conferma che era davvero pazzo), lo fecero tacere. Lo caricarono in una carrozza con altri “alienati mentali”, tra cui alcuni “furiosi”. Padovani aveva paura dei matti, solo col tempo avrebbe imparato a compiangerli. Fu condotto all’isola di San Servolo a Venezia.
Sono andato a vedere il suo fascicolo personale a San Servolo. La diagnosi? “monomania ragionante per miseria”, che si risvegliava “quando si tratti di argomenti che risguardino la sua attuale posizione, i suoi bisogni, le sue speranze deluse, e le ingiustizie che a suo dire gli vennero praticate da tutte le persone distinte con cui ebbe a che fare”. Come veniva curato? a sua insaputa, con sostanze deprimenti come il nitro “ad alta dose”, con acqua distillata di lauro ceraso (velenosa in certe quantità), e infine con purganti. Padovani rimase a San Servolo per più di un anno, e poi fu dimesso.
Dovunque andasse la polizia gli stava dietro. Camminava ed era seguito, si addormentava ed era spiato. Nessuno gli dava lavoro; i parenti (aveva una sorella) si vergognavano di lui; i bambini per strada gridavano “Ecco il matto scappato da San Servolo”, le donne lo evitavano. Espatriò negli Stati pontifici a Ferrara passando illegalmente il Po, ma dovette tornare perché non aveva documenti. Andò a Venezia, dove dormiva sotto i portici di piazza San Marco. Dopo tre giorni che non mangiava scrisse di nuovo dei cartelli del tenore di quelli di Rovigo (questa volta chiamando in causa l’imperatore in persona), li affisse alle colonne della piazza e si presentò a una guardia autoaccusandosi. Fu arrestato e dopo tre mesi di carcere condotto nuovamente a San Servolo. Siamo a metà novembre 1845.
Un paio di anni dopo, l’avvocato Daniele Manin ebbe l’occasione di conoscere Michele Padovani nel corso della visita di una commissione al manicomio di San Servolo, parlò con lui e trascrisse stenograficamente il suo racconto. Dopodiché scrisse alla direzione generale di polizia che se Padovani era colpevole venisse punito secondo le leggi, ma che non si doveva tenere in manicomio uno che pazzo non era mai stato. Si riunì di nuovo una commissione medica che dichiarò Padovani guarito dalla sua malattia. Che giorno uscì da San Servolo? Casualmente il 22 marzo 1848, giorno della caduta del governo austriaco e della rivoluzione. Padovani uscì dal manicomio e vide la folla staccare dagli edifici pubblici e dalle botteghe del Lotto gli stemmi con l’aquila imperiale e gettarli nei canali – e nessuno che finisse a San Servolo! Anzi, gli uomini si abbracciavano per strada, e la polizia era scomparsa.
Che fine fece Padovani? Non si sa. Si sa solo che voleva andare a Zara, e che passò a ringraziare Manin, diventato nel frattempo presidente del Governo provvisorio.
3. Le due vicende hanno per protagonista un artigiano che rimane disoccupato per motivi di salute, chiede un sussidio e da allora entra in un meccanismo burocratico in cui deve dimostrare di volersi redimere senza possibilità di riuscirci: a conferma di quanto ha scritto Kafka, e cioè che le catene dell’umanità torturata sono fatte di kanzleipapier, di carte bollate. In entrambi i casi la protesta è individuale e si esprime in uno scritto sui muri di un luogo bene in vista.
Daniel Blake è un personaggio inventato, mentre Michele Padovani è vissuto realmente. Però, grazie alla convenzione inaugurata dai romanzi inglesi fin dal Settecento, i protagonisti della narrativa sono finti ma raccontano la realtà, e la verosimiglianza appare una forma di verità e non d’inganno. Così, dopo il film di Ken Loach nella stampa inglese si leggono lettere di persone che raccontano vicende simili e scrivono: “Io sono Daniel Blake”. Mentre gli apparati dividono gli individui uno dall’altro facendo pensare che una situazione è diversa dall’altra, la protesta singola ha la capacità di trasformare un caso personale in una situazione comune, di creare identificazione e di dar vita a una protesta collettiva. La stessa cosa non succede invece nel caso di Michele Padovani, perché la diagnosi di malattia mentale lo isolò al punto che chi sapeva della sua condizione lo sfuggiva e forse ne aveva paura. Anche attorno a Daniel Blake si muovono assistenti sociali, ma la fine della vicenda, a cui non ho fatto cenno, gli evita l’occhio psichiatrico che l’avrebbe completamente emarginato.
I linguaggi con cui esprimere una rivendicazione possono essere ridotti a tre. Nel primo caso la richiesta viene avanzata al patrono in nome di un rapporto clientelare; se non riesco a ricevere il sussidio, la domanda è: conosco qualcuno in quell’ufficio, all’Inps per esempio, o conosco qualcuno che a sua volta conosce qualcuno? Nel secondo caso ci si appella al conflitto di classe: siamo lavoratori, siamo lavoratrici, siamo sfruttati, vogliamo più salario, più assistenza, più case eccetera. Il terzo caso dice: sono un cittadino, pago le tasse, ho diritto al sussidio. Nel primo caso la deferenza, nel secondo la lotta di classe, nel terzo i diritti di cittadinanza.
Ora i cartelli di Padovani chiedono al governo e al sovrano di trattare bene i propri sudditi, e quindi si appellano al buon governo, o al buon re. Altrettanto esplicita la richiesta di Daniel Blake, che in un passaggio centrale del film, dopo aver detto di aver sempre lavorato e di non aver mai chiesto niente, dice: “Sono un cittadino, niente di più e niente di meno”.
Mentre l’atteggiamento di Michele Padovani me l’aspettavo, mi ha fatto riflettere quello di Daniel Blake, soprattutto conoscendo i precedenti film di Ken Loach. Nel film infatti la protesta contro le politiche liberiste avviene in nome di un welfare garantito da uno Stato nazionale. Anche per questo – credo – il protagonista del film non è un operaio dequalificato ma un artigiano in cui l’orgoglio di mestiere si fonde con la dignità dell’individuo e la fierezza del cittadino (bianco e inglese). Viene in mente quello che osservò E.P. Thompson quando notò che una delle ragioni della straordinaria capacità di lotta del movimento operaio in Inghilterra è la tradizione già seicentesca dell’inglese che nasce libero.
4. Siamo giunti al momento degli scambi di auguri. Che cosa posso augurare? Per prima cosa di stare bene in salute, riguardatevi mi raccomando. Per il secondo giro di auguri ricorderò che il film di Ken Loach (ma ancora una volta la sceneggiatura è di Paul Laverty) racconta la storia con gli occhi di Daniel Blake. Anche il resoconto di Daniele Manin, basato sull’intervista stenografata, riflette il punto di vista di Michele Padovani. Ed ecco l’augurio: auguro a chi si occupa di storie simili o ha sotto mano documenti che raccontano storie simili di vedere le cose non dal punto di vista degli apparati statali ma dal punto di vista degli individui, e di cogliere nelle vicende individuali ciò che ne fanno una situazione condivisa.
PS. Perché all’inizio ho ricordato Dickens? Perché suonano ancora attuali le parole con cui, nella Prefazione al Circolo Picwick, constatava ironicamente i progressi sociali avvenuti ai suoi giorni: “Chi sa se, alla fine di questa serie di riforme, si scoprirà […] che la diffusione universale dei mezzi necessari a una vita sana e decente sono un diritto per i più poveri fra i poveri, alla stessa stregua per cui sono indispensabili alla salvezza dei ricchi e dello Stato”1.
Nota. Piero Brunello ha pronunciato questo discorso nell’assemblea dei soci di storiAmestre che si è tenuta nella sede di via Ciardi (Mestre-Cipressina) il 17 dicembre 2016.
In un’intervista del gennaio 2019, Gianmario Gazzi, presidente dell’Ordine degli Assistenti sociali, ha dichiarato: “Temiamo che l’aspettativa che si è costruita attorno al Reddito [di cittadinanza] e le eventuali difficoltà realizzative possano scatenare aggressività e peggiorare una situazione già difficile”. In che senso già difficile? “Da una ricerca risulta che in Italia nove assistenti sociali su 10 sono stati minacciati o aggrediti”. Per concludere, il presidente dell’Ordine degli Assistenti sociale teme che “un’opportunità” si trasformi in “un’illusione”, che a sua volta “si trasformi in rabbia e minaccia d’insicurezza per i nostri professionisti”. (“Avvenire”, 13 gennaio 2019).
Un paio di mesi dopo, al termine dell’approvazione del decreto sul Reddito di cittadinanza, Gazzi, annunciando “due vittorie”, esprime il proprio ringraziamento “a chi fin da subito ci ha ascoltato presentando gli emendamenti al Reddito di Cittadinanza e a chi si è sensibilizzato nel corso della discussione”. Quali sono le due vittorie? La prima è che sono «diventate leggi l’individuazione di “misure di sicurezza volte a prevenire episodi di violenza”», la seconda è l'aumento da 90 a 160 milioni di euro per “le risorse per l’assunzione in deroga, seppure a tempo determinato, degli assistenti sociali” (Si veda al sito http://www.agenziastampaitalia.it/).
Il documento è interessante non tanto perché fa intuire come funzionano le attività di lobby (“vigileremo, anche attraverso i nostri consigli regionali, perché nell’applicazione che toccherà a Regioni e Comuni, queste vittorie non restino soltanto parole di una legge”), ma perché mostra un modello di assistenza che, oltre a incrementare la burocrazia, continua a trattare le classi sociali marginalizzate dal mercato del lavoro alla stregua delle consuete “classi pericolose”.
Suggeriamo infine di rileggere quel che scriveva André Grosz quando, una trentina di anni fa, vedeva nel reddito di cittadinanza una ripresa delle leggi inglesi sui poveri che, a partire dalla fine del secolo XVIII, consentirono ai proprietari di sostituire salariati fissi con braccianti occasionali, affidandoli poi, una volta finito il lavoro, all’assistenza fornita dalla parrocchia agli indigenti.
- Charles Dickens, Prefazione dell’autore [1867], in Il Circolo Picwick, a cura di Ludovico Terzi, Incisioni di Seymour e “Phiz”, Adelphi, Milano 2009, p. XX. [↩]
Manlio dice
bravi – come sempre (o quasi…).